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TESTO Tu devi fare come vogliamo noi.

Marco Pedron  

XXIX Domenica del Tempo Ordinario (Anno B) (18/10/2009)

Vangelo: Mc 10,35-45 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Mc 10,35-45

35Gli si avvicinarono Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedeo, dicendogli: «Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo». 36Egli disse loro: «Che cosa volete che io faccia per voi?». 37Gli risposero: «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra». 38Gesù disse loro: «Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato?». 39Gli risposero: «Lo possiamo». E Gesù disse loro: «Il calice che io bevo anche voi lo berrete, e nel battesimo in cui io sono battezzato anche voi sarete battezzati. 40Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato».

41Gli altri dieci, avendo sentito, cominciarono a indignarsi con Giacomo e Giovanni. 42Allora Gesù li chiamò a sé e disse loro: «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. 43Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, 44e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. 45Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti».

Gesù prima di questo vangelo ha annunciato per la terza volta la sua passione e morte. E lo ha fatto in maniera chiara ed esplicita.

Gesù sa che andare a Gerusalemme implicherà scontro, ostilità, lotta e forse morte. Per i discepoli, invece, andare a Gerusalemme è conquistare potere, onore, prestigio, fama: non vedono l'ora! Per molto tempo gli apostoli immaginarono il regno di Dio in maniera molto umana.

Ma regno di Dio non è gloria e potenza ma "calice da bere" e "battesimo in cui immergersi". Queste sono due immagini che dicono coinvolgimento, immersione, passione intensa e a volte dolorosa. Seguire Gesù è fuoco, ardore, partecipazione piena e totale. Seguire Gesù non dà privilegi, dà vita.

Come si beve e si manda giù tutto il vino del calice, così chi vuol vivere alla sequela di Gesù deve "bere", accettare, incontrare, tutto ciò che c'è nel calice della sua vita. Sarebbe bello sottrarsi da alcune situazioni, evitare certe questioni dure e certe camere oscure. Ma non si può.

Come nel battesimo ci immerge del tutto in acqua, così chi segue il Signore si fida, si lascia andare, si mette nelle sue mani e confida in Lui. Smette di pianificare, di progettare, di decidere lui e si lascia portare da Lui.

Per Giacomo e Giovanni seguire Gesù è essere migliori degli altri, sentirsi superiori, ma Gesù dovrà spiegare che il suo regno non è come quelli di quaggiù. Nei regni umani i sovrani abusano del loro potere, calpestano i popoli, li umiliano, li rendono piccoli, in ginocchio, così da sentirsi superiori, da sentirsi potenti e forti. Sfruttano i popoli e li usano per i loro scopi e per i loro interessi.

Ma il Regno non è così. Nel suo Regno il primo non comanda ma serve. Nel Regno di Dio il primato non è dato al potere ma all'amore.

"Chi vuol essere grande tra di voi si farà vostro servitore" e si usa la parola diakonos (minister in latino). Il diacono è colui che serve a tavola. E' colui che aiuta chi si sente debole. Grande, per Gesù, è colui che si mette a servizio della vita (in questo senso servo: "a servizio"), chi la favorisce, chi si occupa di chi è in difficoltà, di chi è debole, chi trasforma il suo amore in gesti concreti.

"E chi vuol essere il primo sia il servo di tutti": qui Mc, invece, usa doulos (servus in latino). Il doulos era il corridore che trasmetteva le informazioni tra le truppe e il generale; non era né signore né libero: era lo schiavo. Lo schiavo era all'ultimo gradino della scala sociale, sotto di lui non c'era nessuno. Quindi seguire il Signore vuol dire essere tra gli ultimi, non nel senso di essere schiavi di qualcuno, di sentirsi inferiori, ma nel senso che quando sei l'ultimo tutti sono sopra di te. Se tu ti consideri ultimo allora nessuno è inferiore a te (sei l'ultimo di tutti).

Seguire è servire: non sentirsi superiori a nessuno (doulos), e chiaramente neanche inferiori; mettersi a servizio con gesti concreti della vita (diakonos) perché essa viva e si espanda.

Gesù stesso concepisce la sua vita così: "Il figlio dell'uomo infatti non è venuto per essere servito ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti". Qual è il servizio (qui si usa diakoneo, servire) di Gesù? Gesù "ci è servito" per capire chi era veramente Dio.

Gli ebrei conoscevano la morte sostitutiva. Era uno schema del tempo: il lytron (riscatto) era infatti il denaro con cui si poteva liberare uno schiavo dalla sua condizione. Facendo una trasposizione: noi eravamo schiavi e Gesù ci ha liberati con la sua morte. Il suo servizio per noi è stato quello di mostrarci che non c'è motivo di aver paura di Dio, che non lo dobbiamo temere, che possiamo davvero fidarci di Lui, che non ci abbandonerà, che possiamo vivere questa vita anche rischiando perché in ogni caso c'è Lui e Lui ci ama. Con la sua morte ci ha liberati (riscattati) dalla paura della morte.

Ma questo vangelo è anche uno scorcio su tutta una serie di comportamenti tipici di noi umani. Siccome tutti questi comportamenti ci riguardano e a volte ci attanagliano, un po' ci fa bene vedere che perfino gli apostoli hanno vissuto e provato certi sentimenti.

Giacomo e Giovanni si avvicinano a Gesù e gli dicono: "Noi vogliamo che tu ci faccia quello che noi ti chiederemo". E Gesù risponde: "Ma sapete cosa chiedete?". "Ma vi rendete conto?". "No!". Quattro capitoli più in avanti si dirà degli apostoli: "Tutti, allora, abbandonatolo, fuggirono"(14,50).

Non vi fanno un po' sorridere? Sono un po' come quegli adolescenti che dicono: "Io cambierò il mondo", ma poi non riescono neppure a cambiare qualche loro comportamento. D'altra parte i due fratelli sono molto aggressivi, pretendono, vogliono, esigono: un po' come i bambini quando vogliono il lecca-lecca. I due fratelli vogliono che Gesù si comporti come loro desiderano. Cercano di piegare Gesù alle loro esigenze, si fanno padroni (manipolatori) di Gesù.

L'aspettativa, la pretesa è così: io mi aspetto che tu ti comporti come voglio io. E' molto egoistico voler star bene piegando gli altri al nostro volere.

Moglie al marito: "Tu non mi porti mai fuori al cinema, mai a mangiare una pizza e non mi fai mai felice. Tu non mi ami". Madre al figlio: "Con tutto quello che io faccio per te, anche tu dovresti fare altrettanto per me". Il capo al dipendente: "Ci aspettiamo molto da lei. Lei deve "tirare su" il nostro fatturato".

Tento di fare delle pressioni su di te, di modificarti, per i miei scopi.

La frase classica della pretesa è: "Se non lo fai vuol dire che non mi ami". Se uno non se ne accorge è crocifisso da questa frase: se non lo faccio, non la amo; se lo faccio vado contro di me. Che si fa?

L'amore chiede ma non pretende. L'amore non modifica l'altro. Se ho bisogno, se sto male, se c'è qualcosa che mi piacerebbe da te, te lo chiedo. Puoi dirmi di sì o di no. Ma non devo pretendere niente perché nessuno ci deve niente.

Spesso le persone si creano delle false aspettative. Spesso si accusa il partner del nostro malessere. Ma se sto male è solo colpa mia, dipende solo da me. Se ho bisogno di qualcosa, lo dico. Se qualcosa non mi va, lo dico e agisco conseguentemente. Ma non mi aspetterò da te quello che io non sono in grado di fare.

Marito e moglie hanno litigato. Lei: "Lo sa che ho ragione io e per questo non viene", e si aspetta che sia l'altro a venire, a capitolare. Lui: "E' sempre la solita, con lei non si può mai parlare, ha sempre ragione lei. E che se la tenga la sua ragione!", e aspetta che sia lei a fare una mossa. La regola è: se hai qualcosa da sbrogliare, da esprimere, da chiarire, tocca sempre a te farlo, ragione o torto che tu pensi di avere.

A volte nella preghiera noi siamo proprio così: "Signore, fammi questo, fammi quell'altro". Quante volte noi chiediamo pretendendo, aspettandoci, esigendo da Dio e dagli altri. "Ho pregato tanto, padre, ma il Signore non mi ha ascoltato". "Sì, sì, che ti ha ascoltato e molto bene: ti ha detto di no!".

Dio ci ascolta sempre ma per fortuna non ci esaudisce sempre, perché la preghiera non è come andare al supermercato: prego, pago e compro.

Un giorno un uomo chiese al Signore di mettere pace tra i suoi due fratelli che litigavano per l'eredità. "Signore, ti prego: fa' che i miei due fratelli facciano pace! Esaudisci la mia preghiera". Allora il Signore gli disse: "Va bene, lo farò. Vai da loro e fa in modo che s'incontrino e che si parlino". Ma l'uomo temette di schierarsi e non lo fece. Sono passati dieci anni e ogni sera quell'uomo prega così: "Signore, ti prego: fa' che i miei due fratelli facciano pace! Esaudisci la mia preghiera".

Dio ascolta ed esaudisce le nostre preghiere, ma mai senza di noi o come vorremmo noi.

Giacomo e Giovanni sono molto ambiziosi: vogliono stare uno alla destra e uno alla sinistra del "Capo". In latino l'ambitio è l'andare attorno (il circuire) per avere dei voti. L'ambizioso cerca traguardi (voti) per esser importante, qualcuno, per essere in alto.

Essere ambiziosi nel senso di cercare di migliorare se stessi e di raggiungere ciò che sogniamo è una cosa buona. Non vi è nulla di male nel far fruttare i propri talenti.

Ma quando l'ambizione diventa essere più degli altri, avere più degli altri, per sentirsi migliori o più importanti, allora diventa pericolosa perché ci rende avidi di riconoscimento, di potere e di denaro.

Una persona ambiziosa ha bisogno di sentirsi superiore agli altri, ha bisogno di "sentirsi qualcuno" e farà di tutto per ottenerlo, per rimanere nella cresta dell'onda.

Ma com'è possibile che sportivi, attori e personaggi di fama si svendano nei reality show? Ma che vuoto dev'esserci in chi ha così assoluto bisogno di essere più degli altri?

Un giorno Diogene, filosofo libero ma povero, interloquiva con Aristippo, filosofo di corte, ricco ma assoggettato al re. Aristippo gli disse: "Guarda Diogene cos'ho io!" e gli mostrava tutti i suoi gioielli, i suoi vestiti e i suoi schiavi. "Se tu fossi importante per il re ti potresti permettere tutto questo". Allora Diogene gli rispose: "Guarda cos'ho io!" e gli mostrava il proprio corpo. "Se tu stessi bene nel tuo corpo non avresti bisogno di tutti questi vestiti; e se tu ti sentissi importante non avresti bisogno di essere amico del re per sentirti importante".

E quando Gesù dice loro: "Ma vi rendete conto di cosa chiedete?". Loro rispondono in maniera arrogante: "Certo! Certo che possiamo bere il tuo calice e ricevere il tuo battesimo". Giacomo e Giovanni presumono di sé, si arrogano il diritto e il merito di essere chissà chi. Ma se si conoscessero solo un po' di più? Se solo sapessero che poco dopo lo lasceranno solo!

L'arroganza nasce dall'insicurezza. L'arrogante crede di essere sempre nel giusto e che gli errori siano fatti, chiaramente, sempre dagli altri. L'arrogante si crede forte, crede di non aver paura, crede di poter far tutto e di sapere tutto. In realtà è un poveraccio che non è neppure consapevole della sua condizione. Con l'arrogante è impossibile dialogare: il disturbo di personalità è così forte che avrà sempre ragione lui. E' tempo perso dialogare con lui: lui non vuole dialogare perché lui non ha nulla da imparare, sa già tutto.

C'è una vecchietta che si lamenta sempre dell'ingratitudine dell'ex marito che l'ha lasciata e del compagno che ha vissuto con lei nove anni e poi se ne è andato. Ma la suddetta vecchietta tanto sfortunata non è: lei ha tradito il marito perché lui, a suo dire, non era riconoscente con lei e quindi se lo meritava. L'ex compagno con il quale gestiva un locale (dice sempre lei) era un emerito incompetente e "senza palle" e se non fosse stato per lei avrebbero fatto la fame. I suoi figli hanno sposato donne sbagliate (tutti e tre!) e lei ha fatto di tutto per convincerli che sbagliavano. Lei, insomma aveva sempre ragione e tutti gli altri sbagliavano. E quando una delle nuore un giorno le ha chiesto: "Ma lei Antonia, non ha mai sbagliato nella sua vita?", lei ha risposto: "Non mi pare proprio!".

Giacomo e Giovanni cercano chiaramente il potere. Quando noi sentiamo questa parola pensiamo subito ai "potenti", ai ricchi, agli uomini politici che possono, a nostro dire, gestire le redini della politica nazionale e internazionale. Allora diciamo: "Non è una questione che mi riguarda".

Ma le modalità per avere potere sono molte: a volte il nostro stato è la nostra casa e noi in questo spazio ci comportiamo da despoti, da tiranni; siamo i potenti del nostro piccolo regno e i nostri sudditi sono i figli e il partner. A volte le strategie che utilizziamo sono così fini, così subdole che sono invisibili agli occhi di molti.

Il potere è il contrario del servizio. Il potere asservisce, cioè usa l'altro per i propri scopi. Nel servizio tu servi, ti metti a disposizione dell'altro; nel potere tu pretendi, esigi, invece, che l'altro ti serva, sia a tuo servizio e a tua disposizione.

Il potere del "salvatore". Il salvatore è colui che ti aiuta ma lo fa per sé e non per te (anche se non sembra). C'è un figlio che vorrebbe comprarsi una casetta ma economicamente non ce la fa. Il padre, che di soldi ne ha tanti, si offre per dargli una mano a condizione che la casa sia come dice lui, nel posto che a lui piace, come a lui soddisfa. Ma che aiuto è se deve fare come dici tu?

Una madre: "Io ti ho messo al mondo, ricordatelo!". Sì è vero, grazie. Ma questo non vuol dire che hai il diritto o il permesso di dirigere la mia vita.

Il salvatore ha bisogno di qualcuno da salvare. Conoscete tutti quelle persone che hanno bisogno assoluto di aiutare sempre qualcuno. A volte più che generosità è bisogno. Se c'è qualcuno da salvare allora io sono importante, allora io valgo.

C'è una "donna-ragno" per suo figlio: non gli lascia fare mai niente. "Poverino!; non ce la fa da solo!; ha così bisogno di me!"; "Cosa farà quando io non ci sarò più?". "Vivrà!!!". Non è il figlio che ha bisogno della madre, ma è che la madre che lo deve considerare come un incapace così che lei si sente qualcuno, si sente valorizzata. E finché tu sei così, cioè incapace, io avrò il mio valore.

C'è una donna che ha un figlio down. La disabilità del ragazzo non è molto forte e potrebbe essere autonomo su quasi tutto. Ma lei ci dev'essere sempre. Lei deve intervenire anche quando lui ce la farebbe da solo. Così facendo il figlio non può trovare quelle autonomie che sarebbe in grado di affrontare. E' lei che ha bisogno di sentirsi così importante per suo figlio.

C'è un prete che dice ai suoi animatori: "Vieni a parlare con me che ti aiuto". Ha bisogno di avere molte persone che vadano da lui per dimostrarsi che vale.

Se queste persone ti aiutassero soltanto, anche se lo fanno per sé, lo si potrebbe anche accettare. Ma questi salvatori hanno bisogno dei salvati, hanno bisogno che tu stia male, che tu rimanga incapace, che tu non sia in grado. Perché, se tu sei in grado, loro chi aiutano? Non possono farti crescere.

E se tu crescerai e ti arrangerai da solo, loro saranno risentiti con te e ti diranno o che stai sbagliando (perché non fai come loro desiderano) o che sei un ingrato con tutto quello che loro hanno fatto per te.

In tutte le relazioni d'amore (genitoriale, terapeutica, educativa, ecc) chi ti ama è un po' il tuo salvatore. Ma se ti ama non rimarrà fisso in questa situazione, pur molto gratificante per lui: quando dovrà farti spazio perché tu possa staccarti e andartene da lui, lo farà. Se ti ama rimarrà anche quando non sarà più il tuo idolo, anche se lo contesterai o sarai al suo livello.

Il potere della vittima. Ci sono due modi per vincere un combattimento: uno è sopraffare l'avversario e farne una vittima, l'altro trasformarci noi stessi in perfetta vittima.

La vittima tenta di tenerti in pugno con il suo dolore. Quando la realtà diventa ostile, difficile, allora io posso fare la vittima: "D'accordo, se non vuoi che vinca, non vincerò; che importa se le cose non vanno a modo mio; tutte a me!; io sono nato per soffrire; io non valgo niente; che valle di lacrime questa vita!; non ce la farà mai; non dimagrirò, non cambierò, mai; resterò solo; sono un fallito; ecc".

La vittima si lamenta sempre e lo dice (o lo fa vedere). La vittima è il bambino che fa il broncio alla mamma per dirle: "Non vedi che sto male, mi abbracci? Non vedi che mi hai fatto male, vieni qui, chiedimi scusa e coccolami". La vittima pensa: "Se sto male qualcuno si prenderà cura di me". Gioca sulla sensibilità degli altri: perché di fronte ad uno che soffre ti viene naturale prenderti cura, andargli vicino, volergli bene, aiutarlo. Ecco: loro giocano su questo, usano questo potere.

C'è una donna che ogni volta che il suo fidanzato decide qualcosa che a lei non va bene, lei sviene. Capite come lo gestisce? Una donna così ti fa fare quello che vuole. E se non lo fai ti potrebbe accusare: "Non mi vuoi bene, non vedi che male che sto!".

C'era un papà che soffriva di mal di testa e doveva stare a letto per due, tre, giorni ogni volta che gli si diceva qualcosa che lui non accettava. In questo modo non si poteva più parlargli perché si temeva di farlo star male. Quel papà aveva capito come far fare quello che lui voleva!

C'è un anziano che mi telefona almeno una volta la settimana: "Padre venga a trovarmi perché sto tanto male!".Poi te lo ritrovi che gioca a bocce, a carte e a tombola al centro per anziani; va fare i suoi giri; è sempre fuori casa; è autosufficiente e gira beato in bicicletta. E ti fa sentire in colpa se non vai!

I genitori che dicono: "Padre, se sapesse che terribile avere dei figli" e sembra la condanna più tremenda del mondo, stanno facendo le vittime. Allora io rispondo: "Oh sapesse lei che terribile avere i parrocchiani!".

A certe persone così, che si lamentano sempre, bisogna dire: "Vuoi star male? E sta male!". Bisogna dire: "E smettila di piangerti addosso: prendi in mano la tua vita, invece, e fai qualcosa per te". Perché le vittime non vogliono guarire, non vogliono uscire dalle loro situazioni, vogliono solo essere coccolate, vogliono solo non soffrire; vorrebbero che tu risolvessi tutti i loro problemi". Per queste persone è preferibile stare così piuttosto che affrontare l'ansia di prendere in mano la propria vita.

Il potere della critica. "No perché sai, quello che io devo dire lo dico in faccia; io voglio essere sincero a tutti i costi; io non nascondo niente a nessuno; io quello che ho da dire lo dico; io sono uno schietto e vero; il mio carattere è così" e intanto giù critiche a non finire. Con queste espressioni ci si legittima la critica libera. Allora uno può dire quello che vuole, disinteressandosi degli altri e del fatto che li possa ferire, perché tanto "lui è uno che le cose le dice in faccia". "Se l'altro (quello criticato di continuo) poi si sente una schifezza è un problema suo perché io non voglio mica fargli del male, voglio essere solo sincero".

"Lo dico per il tuo bene; lo dico perché tu possa migliorarti; lo dico perché tu possa imparare" e così uno ha sempre da dire e da ridire su tutto. E' la legittimazione, giustificazione per poter infierire. "Se l'altro (quello criticato) si sente uno schifo, inadeguato, cosa c'entro io?". Niente, ovvio!!!

La critica è il modo per indebolire l'altro, per minarne la sua sicurezza e la sua stima di sé. Criticandolo, avendo sempre qualcosa da dire, cerco di indebolirlo in modo da poterlo gestire meglio.

Ma neppure i discepoli si distinguono particolarmente: infatti provano rancore, sdegno, per il comportamento di Giacomo e Giovanni.

Quel verbo, aganakteo, vuol dire sdegnarsi, provare rancore, risentirsi, ed indica un'intensità molto elevata. E' il rancore di chi si sente tradito, di chi si sente pugnalato da chi proprio non se lo sarebbe mai aspettato: "Ma come, proprio da voi? Non eravamo un gruppo solo? E' così che ci amate?".

Gli altri dieci si sentono traditi, messi in disparte e provano una rabbia enorme: "Voi state tentando di avere i posti d'onore; a voi non interessa affatto di noi; ci state "facendo le scarpe" per avere i posti d'onore". Ma il rancore degli altri dieci non viene espresso, rimane dentro, fra di loro.

Il rancore è sempre così: è un comportamento aggressivo che non si manifesta con attacchi diretti, è una rabbia non espressa. Chi lo prova ci sta malissimo e in genere viene mantenuto per molto tempo.

Per fortuna che Gesù che li chiama tutti "a rapporto" e costringe tutti i Dodici a doversi dirsi cosa vivono, cosa provano l'uno per l'altro e a capire come devono comportarsi fra di loro.

In una famiglia c'erano quattro fratelli: due maschi e due femmine. Il padre lasciò praticamente tutto ai due maschi, mentre alle due figlie venne una quota praticamente irrisoria. Le due figlie provarono verso i due fratelli un rancore che ancora oggi, dopo vent'anni, si trascina. Ma, c'è da chiedersi: ne vale la pena? Perché stare male per vent'anni? Se c'è qualcosa da chiarire, chiariscilo. Se c'è da dirsi in faccia cosa non va, facciamolo e se c'è giustizia da fare, facciamola, ma poi basta.

Quante volte ci succede che un Caio qualunque viene a dirci che il nostro amico Tizio ha parlato male di noi. Allora noi ci indigniamo, proviamo rancore con Tizio ma non diciamo niente. E così ogni volta che lo vediamo dentro bolle una pentola a pressione. Ma, c'è da chiedersi, ne vale la pena? Se c'è qualcosa da chiarire, chiariscilo. Se c'è da dirsi in faccia cosa non va, facciamolo, ma poi basta.

Il rancore nasce dalla paura del giudizio: uno ci critica e ci ferisce; ci arrabbiamo ma non abbiamo il coraggio di affrontarlo e così proviamo rancore. Ma provare rancore non ci serve, ci distrugge solo il fegato e ci rovina tutte le giornate. Nel tempo ne facciamo un'ossessione e non pensiamo altro che a quello. Ne vale la pena? Se qualcuno ci ha feriti o risolviamo con lui la questione o impariamo ad accettare i giudizi altrui, valutando se ci sono utili e ben sapendo che siamo solo noi a giudicare il nostro comportamento.

Il rancore è la rabbia di chi ha paura: non serve, avvelena solo l'esistenza. Se te lo tieni dentro morirai con lui.

Allora la frase di Gesù: "Chi vuol essere grande tra voi si farà vostro servitore". Per me vuol dire smascherare i miei tentativi (pretesa, ambizione, arroganza, rancore, critica, ecc) di essere più degli altri. Perché chi serve non è (né si ritiene) più di nessuno.

Pensiero della Settimana
Sei servo di quello che non servi.

 

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