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TESTO L'Altare

don Daniele Muraro  

V Domenica di Pasqua (Anno B) (10/05/2009)

Vangelo: Gv 15,1-8 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Gv 15,1-8

1«Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. 2Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. 3Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato. 4Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. 5Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. 6Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano. 7Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. 8In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli.

L’immagine della vite e dei tralci di questa domenica completa l’immagine del Buon Pastore di domenica passata. In mezzo nel Vangelo di Giovanni sta un’altra similitudine quella del chicco di grano, adoperata anche questa da Gesù per parlare di se stesso e della sua missione: “Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto”.

Dei tre paragoni quello della vite è il più immediato e il più coinvolgente: in qualunque pianta da frutto, un ramo resta verde e produttivo finché rimane attaccato al tronco; se ne viene separato, inevitabilmente si secca.

Gesù si raffigura in una singola pianta di vite, e considera ciascuno dei suoi fedeli suo tralcio in rapporto vivo con Lui, dal quale proviene la linfa vitale.

In quanto Buon Pastore Gesù è la nostra guida verso la pienezza della vita, ma a questa meta noi arriviamo solo partecipando al mistero della sua morte e resurrezione. In particolare è celebrando la Messa che noi aderiamo al suo sacrificio e rimaniamo uniti a Lui come il tralcio alla vite.

Attraverso il pane e vino, trasformati nel suo Corpo e Sangue, Gesù non solo continua la sua presenza in mezzo a noi, ma anche vuole entrare dentro di noi.

Pane e vino sono destinati ad essere consumati e a diventare nutrimento e alimento per l’uomo. Il cibo in quanto nutrimento dà un sollievo immediato, fa passare la fame; in quanto alimento invece lo stesso cibo permette all’organismo di svilupparsi, di mantenersi in salute e di esprimere il suo vigore.

Gesù nel sacramento dell’Eucaristia assolve entrambe le funzioni. Nel momento in cui ci accostiamo per riceverlo nell’ostia egli è personalmente presente a ciascuno di noi, possiamo comunicare con lui e godere del suo conforto. Terminato il momento della preghiera però, la presenza del Signore non si dilegua dal nostro spirito, ma continua nella normalità della vita di e agisce anche senza che ne siamo immediatamente consapevoli.

Noi siamo stati innestati in Cristo, la vera vite, al momento del battesimo. La stabile presenza di noi a Cristo e di Cristo in noi e la nostra assimilazione a Lui però non progredisce senza il nostro consenso e una nostra decisione libera.

Possiamo perfino interrompere la comunicazione vitale con Lui, e ciò può avvenire o dando un taglio netto alla nostra appartenenza al Signore, ma è un caso raro, oppure gradualmente ostruendo un po’ alla volta i canali di comunicazione con Lui.

Certi atteggiamenti infatti trascinano quasi inevitabilmente con sé scorie non desiderate, ma nocive. Se poi trascuriamo la pratica della fede questi canali intasati dai detriti dei nostre errori non si riaprono più. La grazia di Dio infatti mal sopporta di farsi strada in mezzo allo scolo stagnante della pigrizia e dell’indifferenza.

“Senza di me non potete far nulla” dice il Signore, ed è una grande verità. La convinzione che senza il favore di Dio non si poteva combinare niente di bello e di giusto era comune all’uomo dell’antichità. Per questo egli edificava templi in cui offrire sacrifici alla divinità.

Il fumo dei sacrifici saliva verso il cielo e ci si aspettava che dal cielo il Dio rispondesse con un segno di approvazione e con i benefici della sua potenza.

I templi del mondo classico e anche quelli che l’archeologia rivela in ogni parte del mondo, erano costruiti in alto, su di un monte, e quando mancavano le alture si ovviava con le scalinate. Al centro e in vetta stava l’altare, alto anche questo, punto di comunicazione fra la divinità e l’offerente.

Non esisteva tempio senza luogo dell’offerta per rendersi benevolo il Dio e anche nelle nostre chiese il rito della Messa nel suo culmine si svolge all’altare. Anche da noi esso è collocato in un luogo elevato al centro dell’edificio sacro, idealmente al centro. Nelle antiche basiliche con impianto a croce lo troviamo al punto di intersezione dei due bracci, quello della navata principale verticale e quello orizzontale del transetto.

Il culto cristiano però è diverso da quello di ogni altra religione. Il sacrificio di Cristo consumato una volta per sempre sulla croce, nella celebrazione liturgica non viene ripetuto, piuttosto viene reso presente nei suoi effetti benefici.

Nella Messa durante l’Offertorio anche noi offriamo qualcosa a Dio, ma principalmente è lo stesso Figlio di Dio che offre se stesso diventando vittima, sacerdote e anche altare della sua offerta. Egli offre la sua vita ancora una volta a favore del popolo radunato e lo fa per mezzo del suo ministro ordinato.

Il protagonista del culto cristiano dunque è Cristo stesso. Egli è re nella sede, profeta nell’ambone e sacerdote nell’altare. Il sacerdote celebrante è prima di tutto al servizio di questo sacerdozio di Cristo.

Anche ogni cristiano poi è sacerdote. Lo diventa con il battesimo. Cristo si fa altare del suo sacrificio, cioè offre spontaneamente se stesso al Padre, così ognuno che partecipa alla celebrazione dell’Eucaristia è invitato a fare un altare del proprio cuore. L’altare della chiesa e l’altare del cuore sono tra loro strettamente collegati. L’altare della chiesa è il cuore del santuario; l’altare del cuore è la realtà più profonda della persona, il suo santuario interiore.

Cristo con il suo Corpo e Sangue scende sull’altare di pietra, affinché il cuore di pietra dell’uomo diventi un cuore vivo come quello del suo Signore, pronto a palpitare di amore per Dio e per il prossimo.

Il movimento del cuore è fatto di diastole e sistole, afflusso e deflusso. Anche la vita cristiana segue lo stesso ritmo. All’apertura di cuore durante il momento celebrativo segue lo svuotamento nel dono di sé che fa vivere il prossimo inondandolo del suo amore.

Possiamo considerare l’altare cristiano anche sotto forma di tavola, la mensa dell’Ultima Cena, (infatti è ricoperto di una tovaglia), ma il significato non cambia. Cristo ci raduna attorno per nutrirci di se stesso affinché anche noi possiamo portare frutti buoni per gli altri. Questo egli desidera per noi e per questo ci convoca al suo altare ogni domenica.

 

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