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TESTO Un Dio... multietnico

don Maurizio Prandi

V Domenica di Pasqua (Anno B) (10/05/2009)

Vangelo: Gv 15,1-8 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Gv 15,1-8

1«Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. 2Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. 3Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato. 4Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. 5Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. 6Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano. 7Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. 8In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli.

Mi piace davvero tanto il cammino che stiamo facendo in questo tempo di Pasqua, cammino che mi piace sintetizzare così: volto di misericordia è il volto di Dio e segni di misericordia sono le sue opere. Come le scorse domeniche andiamo allora alla ricerca dei segni di misericordia che le letture ci consegnano.

Un primo segno di misericordia che Atti degli apostoli e Lettera di Giovanni ci offrono è il dono dello Spirito. La prima lettura ci dice che la chiesa cresceva di numero con il conforto dello Spirito Santo. Conforto, per la chiesa di Gesù è lo Spirito di Dio, e non altro; conforto per noi è l’amore di Dio, unica certezza in un mare, a volte, di inquietudini. La prima lettura ci dà anche la possibilità di fare un piccolo approfondimento su cosa voglia dire, concretamente, questo conforto dello Spirito. Paolo non sta vivendo un momento facile nella sua predicazione, cerca di “attaccarsi” al gruppo dei primi credenti ma è un tentativo inizialmente vano a causa del suo passato di persecutore dei cristiani. Passato che non riesce ancora a scrollarsi da dosso: tutti avevano paura di lui, non credendo che fosse un discepolo. Il brano che oggi abbiamo ascoltato sembra segnare una svolta nella vita di Paolo, come una sorta di riconoscimento da parte della chiesa di Gerusalemme quando Barnaba si fa garante del cambiamento definitivo di Saulo il quale, dice Barnaba, aveva predicato con coraggio nel nome di Gesù. Dentro allora questo discorso più ampio sul dono dello Spirito, credo si possa affermare anche che segno di misericordia è tutta la vita di Paolo di Tarso, perché è una vita che si è lasciata afferrare da Dio da un lato, ed è una vita non giudicata ma guardata con amore dall’altro. Una vita accolta capite? Accolta da Dio ma accolta anche da fratelli che lo presentano, lo incoraggiano e che nel momento giusto lo salvano dal pericolo. Mi piace che possiamo allora lasciarci custodire dalle parole di don Angelo Casati che mi paiono così evangeliche rispetto a quanto persone non abitate da nessun valore vanno dicendo negli ultimi giorni: pensate a quale senso potrebbero avere e significare per noi oggi le comunità cristiane, le nostre assemblee, se anziché aumentare le nostre paure, le nostre frustrazioni sapessero dar fiato, infondere fiducia, incoraggiare, sostenere. Forse è proprio questa accoglienza sperimentata su di sé che gli permette di comprendere la multietnicità di Dio, perché per abitare la sua casa non sono necessarie appartenenze segnate da tradizioni umane (circoncisione) ma basta la fede in lui. Interpreto così allora lo Spirito come conforto, una sorta di libertà interiore che permette di annunciare la Parola e questo farlo nel nome del Signore Gesù, senza mescolarvi nient’altro, senza aggiungere, né togliere nulla, la parola nuda, in tutta la sua forza, radicata nel passato d’Israele (al quale Paolo era orgoglioso di appartenere), e nello stesso tempo capace di raggiungere l’oggi di ogni uomo, in qualsiasi luogo, per farlo vivere. La chiesa può crescere soltanto dentro a questo annuncio coraggioso della Parola di Dio.

Anche la seconda lettura sottolinea il dono dello Spirito. Se ci è stato detto che lo Spirito è conforto, ora si afferma che lo Spirito è la presenza del Figlio in noi. Lo Spirito è il rimanere di Dio, il suo fermarsi, il suo restare per sempre, il suo dimorare e il suo abitare, il suo coinvolgimento nella vicenda dell’uomo: da questo conosciamo che egli rimane in noi: dallo Spirito che ci ha dato. In questa sua lettera Giovanni ci dice un’altra cosa importante e centrale rispetto a quanto stiamo provando a condividere sul volto misericordioso di Dio, e ce la dice proprio riguardo al cuore, rilevando la differenza tra il nostro cuore e il cuore di Dio: davanti a lui rassicureremo il nostro cuore, qualunque cosa esso ci rimproveri. Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa. Come dire che il mio cuore quando rimprovera, giudica o spara sentenze, è un cuore piccino. A volte siamo prigionieri del nostro cuore, che, proprio perché giudica, impedisce di guardare noi stessi e di guardare gli altri con lo sguardo di Dio. L’ invito è ad avere un cuore grande, misericordioso come il cuore di Dio.

Un segno di misericordia molto importante ce lo offre anche il vangelo. Ce lo offre in due verbi che istintivamente allontano da me perché non li sento, come dire, positivi: tagliare e potare. Segno di misericordia per Dio è il tagliare, segno di misericordia per Dio è il potare. Su questo mi piace condividere con voi quanto mons. Bregantini ha scritto ai fedeli della Diocesi di Campobasso in occasione della Quaresima 2008: “ Lo sanno benissimo i nostri contadini: un albero, se non lo poti, muore. Se lo poti rinnova la sua forza per un raccolto più abbondante. E’ la logica della vita, così come ce l’ha descritta il vangelo: Chi ama la propria vita la perde e chi perde la propria vita per il vangelo la ritrova. Ma potare è un’arte difficile ed è fonte di sofferenza, lenta da apprendere; è Dio il potatore della nostra vita: Ogni tralcio che porta frutto lo pota perché porti maggior frutto. Lui sa quando e cosa potare. Dio conosce quali cose dobbiamo lasciare e quando ne è il momento. Ed anche il perché. Perché la potatura non è mai fatta per “tagliare soltanto”. E’ fatta soprattutto per ridare nuova vitalità. Certo, il contadino, quando taglia, non guarda il ramo che cade. Spesso anzi, taglia proprio il ramo più grosso, lasciando un esile tralcio che tende al cielo. Ma in quel tralcio fragile, il contadino, con gli occhi della “fede”, già intravede l’abbondanza dell’uva matura. Chi non è contadino si stupisce, perché vede solo il presente, non si rende conto, non sa spiegarsi certi tagli. Solo il contadino capisce, non perché vede, ma perché “intravede” con gli occhi della fede.

 

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