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TESTO In ogni cosa, dentro.

Marco Pedron  

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V Domenica di Pasqua (Anno B) (10/05/2009)

Vangelo: Gv 15,1-8 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Gv 15,1-8

1«Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. 2Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. 3Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato. 4Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. 5Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. 6Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano. 7Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. 8In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli.

Questo brano fa parte di un lungo discorso di addio (Gv 13-17) che Gesù dice prima di morire. In questo discorso Gesù apre il proprio cuore ai discepoli e parla di ciò che più gli sta a cuore: parla di sè, di loro, di ciò che li aspetterà, dell’amore e dell’odio che troveranno. Questa domenica ne sentiamo la prima parte; domenica prossima sentiremo la seconda parte.

Anche questa domenica Gesù usa un’immagine, quella della vigna, per dire chi è Lui. Gli apostoli e i primi cristiani concepivano così il loro rapporto con il Signore: Lui la vigna, loro i tralci.

Il tralcio è indipendente, diverso dalla vigna. Il tralcio non è la vigna. Ma il tralcio è unito alla vigna, anzi lontano da lei, staccato, non può portare frutto. La vigna è per il tralcio la sua forza, il suo nutrimento, la sua vita, il suo tutto. E il tralcio pur essendo tralcio è anche la vigna.

L’immagine rende perfettamente ciò che dovrebbe essere la comunità umana, ogni comunità umana. Tutti uniti (un’unica vigna) ma ciascuno nella sua grande diversità (tralci diversi con frutti diversi).

In famiglia ognuno è diverso per ruolo e per unicità.

Per ruolo: il padre fa il padre, è riferimento, invita ad osare, ad uscire, a vivere, a progettarsi, a realizzarsi. La madre fa la madre: c’è, è la casa dove si può tornare, il riferimento affettivo, di tenerezza, di ascolto. I figli fanno i figli: provano a vivere, a crescere, sperimentando e sperimentandosi, tra sbagli e successi, tra errori e traguardi. Ognuno ha il suo ruolo. Ed è importante che non ci siano con-fusioni.

Poiché, se il padre è infantile o fa il “figlio”, dove può trovare il figlio la sua sicurezza e la fiducia in sé? E se la madre fa la “figlia”, cioè è lei stessa ad avere bisogno dei figli per colmare i suoi buchi, dove può trovare la figlia l’amore che la madre dovrebbe rifornirgli?

Un padre entra in competizione con suo figlio di dieci anni: lo critica sempre, ha sempre da riprenderlo, ha sempre da insegnargli, non va mai bene quello che il figlio fa. Quando il figlio gioca a calcio il padre gli urla: “Sii più attento; ma non vedi che sbagli? Ma guarda che figlio! Ma ascoltami! Non fare così! Ma sei incapace! Corri di più! Più rabbia!“. E tutto questo in dieci secondi! “Ma lo faccio perché voglio che migliori”, dice lui. Ma con questo modo di fare, lo fai sentire deficiente, un incapace. E poi chiediti se il bisogno che lui riesca sempre è davvero un suo bisogno o se in realtà è solo tuo.

Una madre è depressa e ha bisogno di sua figlia, diciottenne: “Non uscire questa sera, perché tuo padre non c’è e io mi sento sola; non farmi star male, con tutti i guai che già ho! Se non avessi te la mia vita non avrebbe senso (il che vuol dire che non ce l’ha e che la figlia è la sua ragione per vivere)”. Una madre così esprime il bisogno di essere lei stessa figlia. Ma dovrebbe essere il figlio ad aver bisogno del genitore e non viceversa! E’ il genitore che dà al figlio e non viceversa.

E se la madre non fa la madre, allora il figlio non può fare il figlio e dovrà fare la madre. Ma così facendo si saltano dei passaggi di vita; è come costruire un palazzo partendo dal secondo piano, il che è impossibile!

E se la madre ha dei problemi? Non ne parla con il figlio ma con il marito. E se ce li ha proprio con il marito? Si fa aiutare da qualche adulto ma non dai figli. C’è una diversità di ruoli, che va rispettata e di cui ciascuno dev’essere responsabile.

Ma poi in famiglia si è diversi per unicità: c’è chi è amante dell’arte, chi del disegno, chi della musica, chi della pittura e chi dello studio. E chi non ama lo studio non è inferiore rispetto a chi va meglio a scuola: è solo una diversità.

Quando guardo alla comunità dei preti si trova una diversità enorme. Ci sono parroci-pastori: benedizione delle case, sempre disponibili, pronti e generosi. Ma poi c’è il parroco esperto di mezzi di comunicazione, quello che lavora con i disabili e quello con i tossicodipendenti o con gli immigrati. C’è poi quello che aiuta le persone nella ricerca della loro anima e della propria strada. C’è quello che canta e aggrega i giovani; c’è quello mistico che ama il silenzio. Non è meraviglioso!

Spesso noi, invece, vogliamo uniformare gli altri a noi. Se gli altri non sono secondo il nostro modello allora non ci vanno bene e li giudichiamo. Non sappiamo accettare la diversità, cioè l’unicità di ciascuno. Questo perché non siamo realizzati, non viviamo la nostra unicità.

Se io vivo me stesso posso accettare che tu possa vivere te stesso secondo la tua modalità. Ma se io non riesco a vivere secondo la mia modalità, mi fa una rabbia tremenda la tua, così diversa dalla mia.

Ciò che conta è che ognuno possa vivere, esprimersi al massimo delle sue potenzialità, ed essere il tralcio che dev’essere. Ciò che conta è che ognuno possa portar frutto secondo il suo seme. Quante volte invece di dire: “Così non va bene”, dovremmo dire: “E’ solo un altro modo, un’altra strada”.

Uno dei più grandi peccati è quando, come insegnanti, genitori o coniugi, diciamo: “Tu non sei come tuo fratello; tu non sei come quello di prima; tu sei proprio diverso da tuo cugino (tradotto: lui ci piaceva e speravamo che tu fossi uguale!); tu non sei come mia madre!”.

Così c’è il figlio più casalingo e quello più autonomo: il casalingo non ama di più la sua famiglia dell’altro. E’ solo che l’altro ha un senso della propria autonomia maggiore. Quindi il primo non è “più” del secondo.

Se in una squadra di calcio tutti fossero portieri nessuno segnerebbe goal. Ogni comunità è una squadra: solo se sapremo accettare e valorizzare l’unicità di ciascuno avremo successo. “Tu fa la tua parte secondo il tuo nome e io farò la mia parte secondo il mio nome”.

Ma ciò che unisce una famiglia, una comunità non sarà mai il fare le stesse cose ma è l’amore, è la circolazione della linfa', il dialogo, la condivisione, l’unione profonda che si crea e che si vive.

Molte famiglie si vedono unite perché si ritrovano spesso insieme; alcune ogni domenica. Ma non è questa l’unità. Unità è essere uniti nell’anima, cioè in profondità, sentire che tu percepisci il mio profondo e che io sento il tuo. Questa è unità.

Allo stadio si è uniti, vicini, si tifa tutti per la stessa cosa, ma non è unità.

L’unità è data dalla vicinanza profonda (mai fusione!) che si stabilisce tra due corpi di cui la vicinanza fisica è solo il segno esteriore. L’unità è possibile se c’è intimità interiore, di anime.

L’immagine della vigna era molto usata al tempo di Gesù.

Nell’A.T. Israele era la vigna di Dio. Nel Cantico dei Cantici la sposa invita lo sposo nelle vigne, il luogo dell’amore, dell’estasi, dalla gioia sessuale.

Il vino, per gli antichi, era il simbolo della felicità, dell’ebbrezza, dell’intensità, del piacere della vita. Quando a Cana manca il vino la festa sembra finire, ma poi, ci pensa Gesù e la festa e le danze possono ricominciare perché il vino c’è ancora.

Quest’immagine vuol dire: “La gioia, la felicità è conseguenza della vitalità, del vino che hai dentro. Ma se tu perdi contatto con il tuo profondo, con le radici, con la vigna, allora nessuna gioia è possibile”.

Da una parte, allora “Tu, che sei come un tralcio, non ti distaccare mai dalla tua origine, dalla vigna; non ti distaccare mai dalla comunione profonda, non staccarti mai dal tuo profondo, dalla tua anima, da ciò che hai dentro perché nell’esatto momento che questo avverrà ti perderai, ti seccherai”. Se tu perdi contatto con il tuo profondo tu sei morto. E’ la legge della vita: il tralcio staccato dal ramo muore.

Dall’altra quando Gesù dice di essere la vite vera dice: “Io sono il sapore della vita, io sono il gusto della vita, io sono l’ebbrezza della vita, io sono l’elisir della vita, io sono il piacere della vita”.

Ogni volta che noi nell’eucaristia diciamo: “Questo è il mio calice versato per voi” diciamo due cose.

1. Diciamo sia che il sangue rappresenta la sofferenza, l’aspetto difficile della vita, duro, ostico, doloroso, (qui nel vangelo si parla di essere potati, purificati, tagliati);

2. ma diciamo pure che Gesù, quel vino, è il nostro gusto, il nostro sapore, ciò che ci dà vitalità.

La vita dev’essere un gusto, un piacere. Dev’essere bello, gustoso, appassionante vivere, altrimenti diventa insopportabile, un peso. Guardate quante facce da funerale, da cimitero, da venerdì santo in giro. Ma la vita dev’essere come bere un bicchiere di vino, dice Gesù. Dovete gioire di essere al mondo, di essere voi stessi. Godetevi le cose e le persone.

Allora Gesù non è e non sarà mai un nemico del piacere. Anzi Lui è la vite, l’origine del piacere! Gesù mangiava, beveva, faceva festa (lo chiamavano “il beone e il mangione”) e, unico tra i gruppi religiosi del suo tempo, neppure digiunava e rispettava il sabato. Gesù amava la vita perché Lui era la vera Vita.

Allora: come il vino si gusta e ci rallegra la vita e l’anima, così io non devo temere di gustare un bacio di mia moglie, l’unione sessuale con il partner che amo; non devo temere la tenerezza, le carezze o gli abbracci, non devo temere di bermi ogni tanto una bella birra, di farmi una passeggiata, di giocare a ciò che mi piace, di investire un po’ di tempo per me, di farmi un bel massaggio shiatzu o una sauna tonificante.

Gesù si presenta come il vino, il gusto, il sapore della vita. Il piacere è per me, è il luogo dove io posso sperimentare la bontà, il gusto di Dio, il sapore di Dio, l’amore di Dio.

Molte persone parlano tanto dell’amore di Dio, ma la loro vita trasuda solo di tristezza e di rinuncia. Dio ha creato il mondo, tua moglie, i tuoi figli, il vino e la birra, la pizza e il buon cibo, il sole, il vento, le stelle, i fiori e i colori per te, perché tu li possa gustare, assaggiare e assaporare; perché tu ti possa riempire il cuore e l’anima. Dio è o non è buono? Dio ti ama sì o no?

Allora non temere di godere di tutto questo. Non aver paura di essere felice. Il Talmud dice: “Saremo giudicati su tutti i piaceri legittimi a cui abbiamo rinunciato”.

Gesù dice: “Non assolutizzare mai il piacere, non esserne dipendente, non esserne succube, non attaccarti, ma gusta e godi di ciò che io ho creato”. Se ti attacchi al vino diventi alcolista, il che non vuol dire goderne!

Tutto ciò che esiste, esiste per noi. Ma non per essere conquistato, ma per essere goduto. Noi conquistiamo le persone: le vogliamo per noi, che non ci lascino soli, che non ci abbandonino; se potessimo faremmo firmare loro una dichiarazione che mai ci lasceranno. In realtà non le gustiamo, non assaporiamo la loro presenza, perché le vogliamo solo per noi, le vogliamo possedere.

Dopo i primi tre incontri di un corso, (che ne prevedeva 50) una persona ha detto: “Mi trovo così bene qui. E quando sarà finito, cosa farò?”. Ma vivi, gusta adesso, assapora!

Le persone spesso si chiedono: “E quando mio marito non ci sarà più? E quando mio figlio se ne andrà di casa? E quando sarò in pensione?”. Tuo marito adesso è qui: vivilo, assaporalo, amalo, gusta e scherza. Tuo figlio adesso è qui: godine adesso e dopo lo lascerai andare. E quando se ne andrà godrai di altre cose.

Quando tu guardi una bella donna spesso non godi della sua presenza, della sua bellezza, della sua simpatia. Ma pensi a come conquistarla, a come farla tua.

Quando guardi un auto sportiva, spesso non godi di ciò che vedi, ma invidi chi ce l’ha (cioè ti arrabbi perché tu non riesci ad averla).

Quando guardiamo un bel paesaggio, spesso siamo più preoccupati dal fotografarlo che dal guardarlo. Vorremmo catturarlo, possederlo, tenerlo per sempre con noi, invece di assaporarlo.

Godere è lasciare che le cose esistano, che ci siano. Le sento, le lascio vibrare dentro di me, le assaporo, ma le lascio libere, non le posseggo perché non sono mie.

Godere è: lascio che l’altro sia e ne gioisco, ne sento la vibrazione dentro di me e in me. Mentre quando lo si possiede non si è in grado di godere, lo si “mangia”, lo si conquista, lo si afferra, lo si fa proprio.

L’amore gode, il possesso conquista, accumula, vuole mangiare.

Ma l’immagine della vigna ricorda soprattutto la legge fondamentale della vita: se tu ti distacchi dalla linfa', muori.

Il vangelo dice: “Rimanete in me”. Lo ripete quasi ossessivamente. Perché in questo rimanere c’è il segreto di ogni cosa. Se tu ti distacchi dal tuo profondo per te è la fine.

Perché la gente è infelice? Credete veramente che se avessero più soldi sarebbero più felici? Perché la gente è arrabbiata? Credete che sia veramente colpa degli altri? Perché la gente è annoiata? Credete veramente che niente li possa entusiasmare?

La vita scorre dentro di te ma tu credi ancora che avendo quella cosa, che quando sarai là, che quando avrai ottenuto la laurea o sarai sposato o avrai i figli o la casa nuova, allora sì che sarai felice: ti stai illudendo. Se tu credi che quando lui cambierà, quando succederà questa o quella cosa, sarai felice, ti stai illudendo.

E per tutta la vita rincorri qualcosa o qualcuno, perché ciò che cerchi non è fuori, ma dentro. Se tu sei lontano da te nessuno ti è vicino. Se tu non ti senti, non ti percepisci, non puoi sentire né percepire nulla.

Un ragazzo nel compito d’italiano ha scritto: “Il tralcio se è legato alla vite naturalmente dà uva. Il ramo se è legato all’albero naturalmente dà frutto. L’uomo se è legato al suo profondo naturalmente è vitale. L’uomo se è in contatto con la sua anima naturalmente è felice. Ma, perché allora, io sono così infelice?”.

I ragazzi oggi dicono: “Sei connesso?”. Lo sei? Mai staccarti da te. Rimani sempre in contatto la tua anima.

Le parole di Gesù sembrano astratte, teoriche, per i mistici: “Rimanete in me; io in voi; voi in me”. Ma la cosa è tanto semplice quanto drammaticamente vera: l’intimità è data non da cosa fai ma da quanto in profondità vai.

Marito e moglie stanno insieme una vita, ma a volte, non c’è vera intimità fra di loro. Rimangono insieme nel senso che stanno sposati, ma non sono uniti in profondità (il rimanere del vangelo). Se due sposi non sanno parlarsi delle loro cose più intime, non sanno dirsi le loro paure, i loro desideri, le loro ferite, se non si concedono di piangere davanti l’altro, ma che intimità c’è? Non basta abitare sotto lo stesso tetto per essere intimi. E neanche andare a letto assieme o fare l’amore. Intimità è incontrarsi in profondità, dentro, nudi e spogli, e accogliersi e amarsi lo stesso.

Intimità (intimus superlativo di intra, dentro, di cui il comparativo è interior, interiorità!) è entrare dentro. Se non so mai dirti: “Ti voglio bene; lo sai che sono felice di essermi sposato con te; troviamo una sera per noi?; mi parli di te; mi ascolti che ti parlo di me e di ciò che ho dentro e che ho paura a dirti”, come può esserci intimità?

E se non c’è questa intimità, questo rimanere, questo incontrarsi dentro, nei livelli più interni del nostro essere, il rapporto non terrà, perché non può essere vivo, creativo, profondo.

Magari staranno insieme ma, come i rami secchi degli alberi, morti. La linfa', il sangue di ogni cosa è dentro. Ciò che rimane nella superficie rinsecca e muore.

Marito e moglie si sono presentati dal chirurgo plastico e gli hanno detto: “Mia moglie vorrebbe rifarsi il seno perché così il nostro rapporto potrebbe essere più intimo!”. Se non fosse vero ci sarebbe da ridere.

Non basta parlare tanto dei figli, della scuola, ordinare, raccomandare, esigere, dare regole e valori. Educazione ed intimità con i figli ci possono essere solo se tu vai al loro cuore e mostri il tuo, e questo è possibile solo se tu riesci ad entrare in contatto con il tuo cuore.

Il padre che non dice mai: “Che cosa provi? Raccontami che emozioni stai provando” oppure: “Scusa; ho sbagliato; ma lo sai che sei la mia gioia; ma lo sai che sei la cosa più bella che ho; ma lo sai che ti amo”, e non ha tempo o si vergogna o non sa ascoltare i tentativi del bambino di esprimersi, è un padre che non può avere intimità con i suoi figli. Dal punto di vista dell’anima è un padre inutile. E’ un padre solo biologico, come gli animali, nient’altro.

L’uomo che dice: “Di certe cose non parlo perché poi piango (oppure mi commuovo)”, rimane esterno.

E quello che dice: “Io non voglio raccontare niente di me perché mi fa star male”, rimane fuori. Come farà ad entrare in intimità con qualcuno se ha paura di scendere dentro di sé?

Non basta venire in chiesa e riempire Dio di parole e preghiere. Molti parlano a Dio ma non con Dio.

Alcune persone religiose e alcuni religiosi non provano nessuna vibrazione, nessuna vitalità, nessun slancio quando sono in chiesa, quando pregano, quando cantano. Non sanno piangere di fronte alle parole del vangelo; non si lasciano mettere visceralmente in discussione da ciò che sentono; non provano l’ebbrezza del canto o l’intensità del silenzio. Non parlano con Dio, lo riempiono solo di parole.

Una donna ha detto in confessione: “Ci sarebbero anche altre cose di cui confessarmi, ma è meglio di no perché non so se Dio mi perdonerebbe. Per sicurezza non gliele dico”.

La vita è fatta anche di cose esterne e di superficie. E a volte fare quattro risate o chiacchierare “del tempo” fa proprio bene. Ma la felicità della vita, la fecondità, la vitalità della vita è essere dentro ad ogni cosa. La felicità è essere al centro della vita; al centro, cioè, nel luogo esatto dove c’è la vita, dove scorrono le emozioni, il pianto e le risa, il dolore e l’amore.

Un giorno eravamo al mare e ci divertivamo “da morire”. Un nostro amico, l’unico, non si divertì quel giorno. “Io non mi sono divertito affatto, oggi”. “Ma per forza sei rimasto in riva”. La vita è stare dentro.

Fecondità è essere in contatto con sé, entrarsi e conoscersi in profondità, essere al centro di sé. Se si rimane lì, allora ci si sente per davvero, si capisce chi si è, si percepisce tutta la nostra vitalità.

Fecondità è quando incontro l’altro nella sua parte più intima, più interna, dove è più vero, più se stesso, dove riesco a vedere il suo vero volto. Allora c’è incontro. Fecondità è incontrare il mistero della vita, entrare dentro, capirci qualcosa, rimanere incantati dalla sua grandezza, dalla sua bellezza, dal senso di unità di ogni cosa, evento, persona e coglierne l’immensità. Fecondità è entrare dentro al mistero della mia vita, e non aver paura di entrarci. E cogliere il perché io sia così, il perché mi succedano certi fatti ed esperienze, il perché io sia nato qui e non altrove e abbia fatto queste esperienze e non altre, questi incontri e non altri, queste malattie, ecc.

Rimanere a questo livello di profondità ti fa sentire terribilmente vivo. Non che non ci siano più difficoltà ma si inizia a percepire la vita come qualcosa di inebriante, un po’ come il vino! Ci si innamora di lei. E quando sei qui ti viene spontaneo dire: “In ogni cosa, dentro!”.

Pensiero della Settimana

Un giorno una persona chiese al suo parroco: “Perché non ti vediamo mai pregare?” Rispose il parroco: “Perché non telefoni mai a tua moglie?”. “Non ne ho bisogno, - disse l’uomo -, la vedo ed è con me tutti i giorni”. “Anche lui è con me tutti i giorni”.

Quando si ha davanti la propria moglie non si ha bisogno di telefonarle. Quando si è “rimasti” con Dio, si è collegati con Lui, non si ha bisogno di pregare, lo si sta già facendo! E quando si ha davanti la propria fidanzata la si gusta, la si bacia, la si abbraccia, le si parla, non le si telefona. Il telefono serve per mettersi in comunicazione ma quando c’è la comunicazione il telefono non serve più. Così io prego per mettermi in contatto con Lui e tutte le mie parole religiose
e le mie tecniche mi servono solo per contattarlo.

Ma quando l’ho incontrato il “telefono” non mi serve più.

 

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