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TESTO Il buon pastore

Marco Pedron  

IV Domenica di Pasqua (Anno B) (03/05/2009)

Vangelo: Gv 10,11-18 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

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11Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. 12Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; 13perché è un mercenario e non gli importa delle pecore.

14Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, 15così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. 16E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore. 17Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. 18Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».

Questo vangelo si trova nel capitolo 10 di Gv. In questo capitolo, pur non parlando direttamente di apparizioni, viene descritto come gli apostoli, i primi cristiani e le prime comunità sentivano, percepivano, “vedevano” la presenza del Signore Risorto nelle loro vite. Gesù era per loro il buon pastore, sentivano, cioè, la sua presenza che li accompagnava, li custodiva, li proteggeva, che si prendeva cura di loro, un po’ come il pastore fa con le pecore.

L’immagine del buon pastore risponde ad un’aspirazione profonda dell’uomo antico. Gli ebrei vedevano in Dio il vero e proprio pastore che guida il suo popolo. Mosè, a sua volta, aveva ricevuto il compito di essere per il suo popolo pastore e guida.

I Greci conoscevano l’immagine del pastore che sta in un grande giardino e porta una pecora sulle spalle. Il giardino ricorda il paradiso; associavano al pastore la loro nostalgia di un mondo puro, non corrotto. In molte culture il pastore è l’immagine della sollecitudine paterna di Dio per gli uomini.

Per i primi cristiani Gesù, come Dio, è il pastore che conduce il suo popolo alla vita vera. A quel tempo era ben nota la figura di Orfeo, il cantore divino: il suo canto addomesticava le bestie feroci e risuscitava i morti. Di solito, inoltre, Orfeo veniva rappresentato, all’interno di un paesaggio idilliaco, circondato da pecore e leoni. Gesù è come Orfeo. Gesù è il cantore divino, che con le sue parole rende pacifico ciò che c’è di selvaggio, di feroce in noi e fa rivivere ciò che è morto. Una volta quest’immagine si riferiva soltanto ai preti: erano i pastori del gregge. Il prete, come Gesù, era il buon pastore. Il prete andava in cerca della pecorella smarrita, che voleva dire: convertirla, battezzarla e farla cristiana. Ma l’immagine presa così è molto riduttiva e fuorviante.

Prima dell’immagine del buon pastore (10,11-18) viene descritta l’immagine della porta (10,1-10). Il vangelo ci presenta solo l’immagine del buon pastore, ma le due immagini vanno prese insieme. Dio veniva sperimentato così: come il buon pastore e come una porta. Il vangelo ci invita ad essere genitori, uomini, guide, persone-porta e persone buon pastore.

La porta c’è, rimane: lì puoi tornare. La porta non si muove. Non se ne va. Se tu vuoi puoi ritornare, entrarci, oppure, se tu vuoi, puoi rimanere fuori. Quando, poi, ne hai bisogno ritorni e la porta ti protegge. La puoi chiudere o la puoi tenere aperta. E’ sempre lì.

Avete mai visto i bambini piccoli? Giocano, fanno le loro cose, poi ogni tanto tornano dalla mamma, le parlano, si attaccano alle gonne, vogliono un po’ di coccole, e poi tornano a giocare e a far le loro cose. In quel momento la mamma è una porta. C’è, non se ne è andata, e il bambino si è preso la sicurezza di cui ha bisogno per ritornare alle sue cose.

Noi abbiamo bisogno di trovare genitori-porta, maestri-porta, educatori-porta, amici-porta. Persone che ci siano; persone dalle quali sappiamo che possiamo andare; dove sappiamo che saremo accolti, accettati, voluti, amati, ascoltati al di là di ciò che facciamo o di ciò che siamo. Solo una persona-porta può far nascere in me la fiducia. “So che se anche tutto andrà male tu ci sarai. Tu non mi abbandonerai. Tu sarai con me nella buona e nella cattiva sorte”. “Non ti dirò sempre sì; ma sarò sempre con te”: questo è l’amore. Da una persona così noi sappiamo che possiamo sempre ritornare.

Bowly dice: “La caratteristica più importante dell’essere genitori è fornire una base sicura da cui il bambino o l’adolescente possa partire per affacciarsi al mondo esterno e a cui possa ritornare sapendo per certo che sarà il benvenuto, nutrito sul piano fisico ed emotivo, confortato se triste, rassicurato se spaventato. Più hanno fiducia che la loro base sia sicura e pronta a rispondere se chiamata in causa, più lo danno per scontato”. Gesù è la porta perché da Lui si può sempre ritornare. Mai ci lascerà fuori. Mai ci sarà chiusa la porta in faccia. Quante volte, invece, le persone (con le parole o con i fatti, o di fatto) ci dicono: “Questa? Questa la paghi. Me la lego al dito. Niente è più come prima. Hai sbagliato, basta, mi hai deluso. Ti avevo dato la mia fiducia e tu l’hai tradita”. E, invece, le persone hanno bisogno proprio di questo: di fiducia, la fiducia per poter iniziare anche dopo lo sbaglio. Hanno bisogno di qualcuno che ci sia qualunque cosa capiterà.

Gli ebrei hanno una bellissima benedizione. A 13 anni i genitori imponendo le mani al figlio dicono: “Ricordati sempre che io sono tuo padre e lei è tua madre”. Come dire: “Qui potrai sempre ritornare”. Le prime comunità cristiane vivevano Dio così: da Lui si poteva sempre ritornare.

Poi c’è l’immagine del buon pastore, che rappresenta il prendersi cura. Il buon pastore è chi segue le pecore, si prende cura di loro; le difende dai pericoli, le protegge dai lupi; è chi va in cerca di loro se si perdono; è chi le conosce ad una per una per nome.

Aver cura di sé stessi, non essere duri, seguirsi, aver pazienza con sé, riprendersi quando ci si perde, saper aspettare, non essere duri con sé quando si sbaglia strada; quando qualcosa di noi non va, non arrabbiarsi, ma con amore comprenderci (se hai 100 pecore e una si perde: si lasciano le 99 e si va a riprendere quella perduta!), questo vuol dire essere buoni pastori con sé. E fare tutto questo con gli altri.

Cura vuol dire tempo+lavoro. Per far crescere una pianta ci vuole cura. Ogni giorno bisogna darle acqua; ogni giorno metterla al sole; ogni giorno proteggerla da eventuali pericoli. Tutto ciò che vive ha bisogna di cura, di amore, di protezione, di dedizione, ogni giorno.

Le mie difficoltà: hanno bisogno della mia cura. Per quanto? (La classica domanda delle persone è: “Quanto tempo ci vorrà? “Non lo so: il tempo che ci vorrà”). Si vorrebbe sempre far presto e velocemente. Cioè, in pratica, non affrontare il problema, trovare una soluzione, una medicina, una risposta che non ci coinvolga dentro. I miei problemi relazionali, di timidezza hanno bisogno di cura e dedizione. I problemi di coppia, di comunicazione hanno bisogno della nostra cura e della nostra dedizione. I problemi del figlio hanno bisogno della nostra cura. Tutto ha bisogno di cura.

La porta è l’immagine del genitore, persona, amico, educatore che ti trasmette: “Io ci sono. Io rimango. Io non me ne vado. Io resto qui, perché io sono tuo padre; io sono tuo amico e io ti amo al di là di cosa tu farai o di dove tu andrai. Qualunque cosa succeda io ci sarò”. Il buon pastore, invece, è l’immagine di chi ti trasmette: “Io mi dedico a te, io mi prendo cura di te, io sorveglio su di te, perché tu mi sei caro, tu sei prezioso, tu sei davvero unico per me. E anche se di pecore ne ho altre 99, se tu ti perdi io verrò a cercarti. Io non ti lascerò. Qualunque cosa succeda tu mi stai a cuore e io mi prenderò cura di te”. Questo è l’unico amore di cui ci si può fidare. Questo è l’unico amore di cui abbiamo bisogno.

A questo siamo chiamati. A diventare porte e pastori delle persone, dei figli, degli amici, dei dipendenti, degli alunni. Questa era anche l’esperienza dei primi cristiani. Il Signore era il loro punto di riferimento: la porta. Lui c’era sempre. Il Signore era il loro compagno, e chi si prendeva cura di loro: il buon pastore.

Del buon pastore si dicono tre cose:

1. che lui offre la vita per le pecore. Il mercenario lo fa per soldi, per interesse, per averne un ritorno, per lavoro. Al mercenario non interessano tanto le pecore, ma ciò che dalle pecore può trarre. Le utilizza per se stesso. Invece di aiutare l’altro, lo si usa per se stessi, si ab-usa di lui per controbilanciare le nostre carenze. “Mio figlio ha fatto questa scelta e per me non è più mio figlio”. Cioè: la mia vita è insoddisfatta e tu dai senso alla mia vita. “Tu non esci di casa perché se no io con chi sto?”. Cioè: sono solo e tu riempi i miei vuoti. “Ho deciso così e basta”. Cioè: siccome sono fragile, ti comando perché non sono capace di dialogare. “Io sono tutto per gli altri”. Cioè: siccome ho paura di stare con me, mi distruggo per gli altri. Politici, al lavoro, amici, quanta gente ci usa e abusa di noi. Interessiamo loro finché facciamo come loro, finché pensiamo come loro, finché non diamo problemi o siamo produttivi. E poi? E’ amore questo? O è interesse?

2. Poi del pastore si dice che conosce le sue pecore e che le chiama ciascuna per nome. Chi mi ama mi vuole davvero conoscere. Pensate a quando la gente o voi stessi parlate. L’altro vi ascolta per davvero? Vi vuole ascoltare davvero? O vi interrompe, vi interpreta? O vi fa dire quello che lui vuole dire? O c’è superiorità? Vi ascolta il cuore, quello che avete dentro? Ascolta le vostre parole o il vostro cuore? Si sente giudicato? Chi mi ama, mi ascolta. E io ascolto le persone che amo.

3. E, infine, si dice che questo pastore, il Risorto, ha altre pecore, che cioè, Dio è pastore di tutti gli uomini, che tutti sono figli suoi.

E’ Lui che offre la vita per poi riprenderla di nuovo. Non sono tanto gli scribi e i farisei che lo uccidono, ma Lui che decide di vivere fino in fondo la sua vita. Egli è libero.

Libertà è quando noi decidiamo un certo modo di vivere e ce ne prendiamo le conseguenze e le responsabilità. Gesù è stato un uomo libero perché ha deciso di vivere così, “ha offerto la sua vita”, sapendo bene che poteva rischiare molto. Ma ha scelto. E Dio con la resurrezione ha “ripreso”, confermato la sua libertà e la sua scelta.

Bisogna decidere come vivere. Scegliere se stare al gioco, se lasciarsi portare in balia, se lasciarsi condizionare da tutto o se sottrarsi alla corrente. In ogni caso c’è un costo. Essere come tutti o essere unici, nella forma che Dio ha pensato e voluto per noi, implica una rinuncia, un sacrificio. Bisogna scegliere. Le persone sono così insoddisfatte perché si lasciano vivere e non scelgono come vogliono vivere prendendosi la responsabilità della loro scelta.

Tutti noi siamo pastori. Cioè: tutti noi abbiamo dei ruoli di guida, di responsabilità. Il prete guida i suoi fedeli; il genitore guida i suoi figli; il dirigente, il caposettore guida i suoi dipendenti; l’amico guida, ascolta un altro amico; il maestro guida i suoi scolari. L’immagine del pastore ci invita a porre attenzione alle persone. Stai attento a chi hai davanti. Non umiliare, non gestire, non usare le persone, perché il pastore, la guida, il genitore si cura delle sue pecore.

Il dirigente o il genitore non si devono occupare di tutto. “Tutto deve passare per me; io devo sapere tutto; a me non si tiene nascosto niente, neanche le sciocchezze, al capo non si nasconde niente”. “A tua madre devi dire tutto; se tieni nascosto qualcosa vuol dire che sei in difetto; qui tutti sanno tutto di tutti”. Questo è un regime da dittatura. Non c’è libertà, le persone si sentono soffocate e umiliate. “Ti dirà quello che ti deve dire se troverà fiducia in te, ascolto e non se lo costringerai”.

La fiducia non è un diritto, si merita. Cura vuol dire non umiliare le persone, non esigere di sapere ogni cosa. Chi vuol controllare tutto diventa come la polizia segreta. Ma nel tempo perderà il controllo di tutto.

Buon pastore, cura, vuol dire non “vomitare” addosso agli altri i nostri sbalzi d’umore. Quanti dipendenti sono in balia degli sbalzi di umore del loro capo. Quando vanno al lavoro si chiedono: “Chissà che luna avrà il capo? Chissà se avrà una buona giornata?”. Questo genera ansia. Non si può creare nessuna fiducia, nessun clima di serenità. Per alcuni bambini la stessa cosa vale a casa. “Chissà come troverò la mamma?”. “Lunedì era di umore nero; martedì piangeva; mercoledì non aveva preparato il pranzo; giovedì era tutta pimpante; venerdì tutto sembrava normale; sabato niente gli andava bene perché aveva litigato con il papà; domenica scattava con niente; ieri sembrava un angelo. E oggi? Come sarà oggi?”. Un bambino così vive nell’insicurezza, nella paura, nel timore. Non può mai permettersi di essere bambino perché vive in questa continua ansia, temendo l’ira della madre. “Per sicurezza, mi blocco, non faccio niente”.

Buon pastore vuol dire credere nelle proprie pecore. Credere che in ogni persona c’è un nucleo buono. “Se tu crederai in me, io crederò in te”. Questa è la regola dell’autorità.

Io credo in te perché sento che tu credi in me, che mi ritieni importante, con un mio valore. Io ti ascolto perché tu mi ascolti. Io ti obbedisco perché tu hai fiducia in me. Molti dirigenti, capi, preti, politici, abusano del loro potere di guida. Quando dicono qualcosa tutti si devono sottomettere e abbassare. “Ho detto così e basta. Non voglio sentire ragioni. Qui comando io e si va così. Finché sei qui, in questa casa, in quest’azienda, decido io”. Allora le persone si sentono degli oggetti: sono lì solo per lavorare, per essere forza-lavoro, strumenti e basta. Sentono di non avere dignità.

Credere nelle proprie pecore, conoscerle, vuol dire valorizzarle. Nessuna è uguale all’altro. Spesso nelle aziende uno viene preso, spostato e messo lì. Nessuno gli chiede se gli piace, se lo vuole o se preferirebbe fare un altro lavoro. Viene usato. “Non importa ciò che pensa lui; si fa così e basta”. E’ chiaro, non potrà rendere! Dirigere, essere pastori, significa stimolare, incoraggiare, aiutare le persone a tirare fuori il meglio di sé, quello che hanno dentro, quello che possono dare, stimolarle ad essere creative. Spesso, invece, i “pastori” vogliono che facciamo come vogliono loro o che siamo come loro. Allora si usano le persone. Si è mercenari. Nelle aziende i progetti vengono decisi, calati dall’alto, imposti senza riguardo delle esigenze dei dipendenti. Tra i preti o i monaci, a volte, succede proprio questo. Uno è creativo; uno è un musicista; uno è psicologo; uno è poeta, ma lo si manda in cucina o in tutt’altro posto. Allora uno si sente umiliato, non amato nella sua unicità. E non può rendere. Non può essere felice. Ci darà sempre problemi.

Così è per i figli. Ogni figlio va amato, accolto e valorizzato per la sua unicità. Il buon pastore fa il bene, e-duca, cioè, tira fuori il meglio dalle persone, quello che hanno dentro e che possono dare. Questo è l’amore. Questo è servire. Servire vuol dire mettersi al servizio del potenziale dell’altro, di ciò che lui è, di ciò che lui può vivere, del suo bene. Servire non vuol dire conformare a me. Ma mi chiedo: “Cosa è meglio per lui? Per la sua persona?”. Mi metto in ascolto, in servizio del suo mondo e non di ciò che io vorrei.

Il buon pastore è libero. Chi comanda, chi dirige non può esaudire ogni desiderio dei figli o dei dipendenti. Se c’è da dire un “no”; se c’è da ri-prendere una pecora, perché è andata fuori strada, lo fa. Il capo, l’educatore, non teme il rifiuto, di deludere.

Ci sono dei genitori in balia dei figli. Non riescono a dire di “no”. Non sanno tenere una posizione. Si mettono l’uno contro l’altro: uno è buono, l’altro cattivo. Uno dice sempre di “sì” e l’altro sempre di “no”. Hanno paura di perdere l’amore dei figli e scendono sempre a compromessi. Allora il figlio sa come vincere. Ma se vince sempre diventa un tiranno, narcisista; non avrà rispetto di niente e di nessuno; sentirà di poter far quello che vuole e lo farà, a casa e fuori; non ci sarà nessuna regola. Se non so dire qualche “no”, non ci sarà nessun “sì”. A volte, spiegata una cosa, discussa, ascoltato l’altro, bisogna dire di “no”, anche se l’altro ci sta male.

Molti di noi hanno paura di ferire e di far star male. Credono che far e star male voglia dire voler male. E, invece, la sofferenza (dei “no”, che significano che non tutto si può fare nella vita) è molto costruttiva, educatrice. Ci farà imparare che ci sono dei limiti, che siamo limitati, che non possiamo fare tutto.

Ricordando sempre le parole di S. Benedetto, che nella sua regola per i monaci, diceva: “Porgi all’altro la verità come un mantello in cui possa comodamente avvolgersi, e non sbattergliela in faccia come un panno bagnato”. Ogni volta che urlo, che ti umilio, che ti prendo in giro, che ti rimarco: “Sei sempre il solito”, perché tu hai sbagliato o perché hai fatto qualcosa che non dovevi fare, allora, anche se avessi ragione, sbaglio. La verità senza l’amore è nulla.

Il buon pastore si fa avanti. Governare, hegeomai in greco, significa, precedere, condurre, guidare. Chi guida precede gli altri. Percorre la loro stessa strada. Non dà ordini dall’alto in basso, ma precede quelli che intende portare con sé.

Le regole che valgono per i figli, valgono anche per i genitori. Le regole che valgono per i dipendenti, valgono anche per il capo. Se tu mi devi ascoltare, io ti devo ascoltare. Se a tavola desidero che tu mi parli della tua giornata, io ti parlo della mia. Se voglio che l’orario sia rispettato, io lo rispetto.

Non c’è nessuna autorevolezza in chi impone, vuole cose che lui non fa. Il figlio, il dipendente dice dentro di sé: “Tu chiedi a me cose che tu non fai. Perché dovrei farle io? Appena potrò, farò come te: non le farò”.

Il buon pastore è colui che sta davanti alle pecore, che si espone per difenderle o per proteggerle. Sono pastore quando non mi tiro indietro se qualcuno viene accusato ingiustamente, ma lo difendo. Invece di nascondermi, mi faccio avanti; invece di dire “sono problemi suoi, si arrangi”, mi faccio avanti in nome della giustizia. Il mercenario quando arriva il pericolo, scappa. “Si arrangi! Ha sbagliato? Fatti tuoi! Chi sbaglia, paga!”. Allora concludendo io mi chiedo: “Io, di chi sono pastore?”. E in cosa posso essere un pastore più fedele? E poi mi chiedo: “Chi è, per me, il mio pastore? Chi è per me una porta certa?”.


Pensiero della Settimana

Ogni lupo si presenta come agnello.
Ogni diavolo si presenta come santo.
Ogni mercenario si presenta “per il tuo bene” buon pastore.

Amico, genitore, madre, padre vero; prete, riferimento, maestro vero, insomma, buon pastore è chi mi difende quando arriva il pericolo.

Il mercenario se ne lava le mani, ma il buon pastore è chi sta davanti a me e mi mostra la strada, la vive, la percorre per primo.

Buon pastore è chi conosce il mio animo, il mio cuore e la mia vita.
Buon pastore è chi mi viene a riprendere
e non mi lascia lì quando io esco dalla strada.
Buon pastore è chi crede in me,
in ciò che posso essere e nella mia unicità.
Buon pastore è chi, quando non può fare più niente,
continua a stare con me.
Buon pastore è chi vede la mia bellezza
e me la ricorda quando io non la vedo.
Buon pastore è chi mi sa dire “sì” e “no”;
ma dice sempre “sì” a me e al mio bene
e sempre “no” a ciò che non sono io e che non è il mio bene.
Buon pastore è chi si sa spogliare dai suoi desideri
per ascoltare i miei.
Buon pastore è chi non rimane deluso dalle mie scelte,
né risentito dalla mie diversità.
Buon pastore è il recinto sicuro, che c’è,
da cui so che potrò sempre tornare,
fossero anni che non lo sentissi o che non lo vedessi.
Buon pastore è chi non mi mantiene nel gregge
e nella sudditanza sua.
Buon pastore è chi vuole far di me

un altro pastore che lo sostituisca.

Tutti gli altri? Tutti lupi.
Tutti gli altri?

Qualunque cosa dicano, facciano, o ruolo abbiano: mercenari!

 

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