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TESTO O Dio, abbi pietà di me

Monaci Benedettini Silvestrini  

Sabato della III settimana di Quaresima (21/03/2009)

Vangelo: Lc 18,9-14 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

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9Disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: 10«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. 11Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. 12Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”. 13Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. 14Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».

La parabola odierna ci racconta un brano evangelico pungente, che scuote fortemente e totalmente la vita cristiana e religiosa. Due uomini che vanno al tempio per pregare. Con la preghiera, la persona si manifesta ed emerge sia nel suo modo di rapportarsi con Dio, mostrando la sua disponibilità spirituale, sia nel modo di relazionarsi con il prossimo, indicando la sua sensibilità sociale ed ecclesiale. Infine essa pone l’uomo in relazione con se stesso, con i sentimenti più veri, con i pensieri più intimi. Nel racconto si inserisce un terzo personaggio, quello principale: Dio, che guarda, ascolta, scruta, giudica. Nel santuario: il fariseo “sta in piedi”, non ha timore di Dio, è sicuro della sua giustizia, è un osservatore scrupoloso della legge. Nel suo pregare il fariseo sembra rivolgere le parole a se stesso, compiacendosi con sé e mostrando di essere soddisfatto. Il discorso comincia con queste parole: “O Dio ti ringrazio”, l’atto di ringraziare, presuppone il riconoscimento del dono ricevuto, mentre poi non si rivolge al Signore, si auto-compiace di tutto ciò che ha fatto di bene e non loda Dio. In lui non c’è spazio per ringraziare e riconoscere la generosità divina. La sua preghiera, al contrario, contiene un elenco di ciò che egli ha fatto. In questo modo pensa di ottenere meriti da Dio, con l’unica intenzione di essere da lui apprezzato e ricompensato della sua bravura. Dall’altra parte, il pubblicano sta in piedi, come il fariseo, però si ferma a distanza; sa di essere un indegno per stare in quel luogo. Si pone lontano anche dagli altri fedeli, consapevole delle sue miserie. Con lo sguardo abbassato in terra per la vergogna. Il suo cuore è diretto verso Dio per chiedere misericordia. In segno di pentimento e di dolore si batte il petto, la sede dei sentimenti del suo peccato. Questo proviene da lui solo; non si auto-giustifica né incolpa gli altri. Con questi gesti esterni egli vuole esprimere una profonda disposizione interiore alla contrizione. Infine il pubblicano dirige al Signore una invocazione, ridotta all’essenziale: “O Dio, abbi pietà di me, il peccatore”. Con il cuore contrito e umiliato, si rimette semplicemente a Dio, con la fiducia trepida che Egli, che scruta i cuori degli uomini, gli perdonerà tutto. Così il pubblicano discende dal tempio e torna a casa giustificato. Il Signore è propizio a lui peccatore, sinceramente pentito, e lo rende giusto, riammettendolo nella sua divina amicizia. Ne esce un uomo trasformato, sanato, purificato, restituito alla vita di fede. La preghiera del misero è stata ascoltata da Dio, che dona a lui la totale salvezza.

 

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