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TESTO Commento Marco 9,2-10

Suor Giuseppina Pisano o.p.

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II Domenica di Quaresima (Anno B) (08/03/2009)

Vangelo: Mc 9,2-10 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Mc 9,2-10

2Sei giorni dopo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli. Fu trasfigurato davanti a loro 3e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche. 4E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù. 5Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». 6Non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati. 7Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!». 8E improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro.

9Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti. 10Ed essi tennero fra loro la cosa, chiedendosi che cosa volesse dire risorgere dai morti.

La liturgia della Parola di questa seconda domenica di Quaresima inizia con una pagina tra le più intense e commoventi della storia della salvezza, è la pagina del libro della Genesi, che racconta la drammatica prova di fede e di amore che Dio chiese ad Abramo:«Prendi tuo figlio, è il comando del Signore, il tuo unico figlio che ami, Isacco, va' nel territorio di Moira e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò.»

Quel figlio, così a lungo atteso, sperato quasi contro ogni speranza, quel figlio implorato, come si implora la vita, quel figlio, che, solo per pochi anni, aveva rallegrato i giorni di suo padre, ormai inoltrato negli anni:" Abramo aveva cento anni, nota il testo sacro, quando gli nacque il figlio Isacco." (Gn.21,5); quel figlio, il " figlio della promessa", ora deve morire, offerto in olocausto a quel Dio, che lo aveva concesso.

Il testo sacro non commenta, il comando del Signore, ma riferisce semplicemente:"Abramo si mise in viaggio.";è l'obbedienza pura e forte della fede, quell'obbedienza, che ritroveremo solo nel Figlio di Dio, Cristo Gesù, del quale Paolo dice:" si fece obbediente sino alla morte, e alla morte di croce.."(Fil.2,7): il sacrificio del Cristo compiuto, in obbedienza e per amore del Padre e dell'umanità intera, bisognosa
di salvezza e di riconciliazione.

Ed ecco che il vecchio Patriarca sale, in una solitudine angosciosa, verso la meta indicata da Dio; sale, in silenzio: il silenzio di una natura impervia, fatta ancora più aspra dal dramma, che egli porta nel suo cuore; sale, mentre assapora tutto il tormento del silenzio di Dio, e avanza, straziato dal silenzio di quel fanciullo, ignaro di quanto, a breve, sarebbe accaduto; un silenzio, rotto, ad un certo punto, solo da quelle semplici parole del ragazzo:«Padre mio! Dov'è l'agnello per l'olocausto?»

A queste laceranti parole, il vecchio patriarca risponde:«Dio stesso provvederà, figlio mio!»; mentre nel suo cuore, risuona la parola del Signore che gli aveva detto:" Prendi tuo figlio, il tuo unico figlio che ami, e offrilo in olocausto!". Nel lungo, faticoso viaggio verso la cima del monte, fede e amore si intrecciano, drammaticamente, nel cuore di Abramo: l'amore sconfinato per suo figlio, e la fede nel suo Dio; un dramma intenso, per un'obbedienza altissima ed una fede pura, che non vacilla, neppure di fronte al sacrificio cruento di quel giovanetto:«Non stendere la mano contro il ragazzo, gli dirà un angelo, da parte del Signore, e non fargli alcun male! Ora so, che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unico figlio».

" Allora, continua il testo sacro, Abramo alzò gli occhi e vide un ariete, impigliato con le coma, in un cespuglio. Abramo andò a prendere l'ariete e lo offrì in olocausto invece del figlio.

Il monte Moira, resta, così, nella storia sacra, il monte del sacrificio, il simbolo, che prefigura un altro figlio, e un altro sacrificio, che si compirà, inesorabilmente su un altro monte: il Calvario, che, oggi, si vede solo in lontananza, perché il monte, di cui, oggi, il Vangelo ci parla è il Tabor: il monte della trasfigurazione, un preludio di resurrezione, prima che si compiano i giorni della passione e morte del Cristo.

Gesù, coi suoi discepoli, attraversa i villaggi della Galilea, che son vicini alla sorgente del Giordano, lungo il cammino, il Maestro aveva interrogato i suoi chiedendo loro cosa la gente pensasse di lui:" La gente, chi dice che io sono?"; poi interrogò loro, gli amici che, da tempo, lo seguivano, lo ascoltavano, ed erano testimoni delle sue opere:«E voi, chi dite che io sia?»; gli rispose Pietro, a nome di tutti, gli rispose con parole, che venivano dallo Spirito di Dio:«Tu sei il Cristo!»

Così, lungo la via, Gesù spiegò ai suoi cosa significasse essere il Cristo, come Pietro, giustamente, aveva affermato, e disse loro quanto egli avrebbe dovuto soffrire, ad opera degli anziani, dei sommi sacerdoti e degli scribi, per esser poi condannato e ucciso; ma la sua morte non sarebbe stata la tappa finale della sua esistenza, perché, dopo tre giorni, egli sarebbe risorto. (Mc. 8,27-31)

Anche alla folla, che incontrò poco dopo, Gesù parlò con parole che potevano sembrare sconcertanti, perché associavano ogni discepolo al suo destino di croce:«Chi vuol venire dietro a me, prenda la sua croce e mi segua.»(ib.34); poi scelse tre dei suoi discepoli, li scelse, come testimoni dell'imminente teofania, e li condusse su un'altura, quella che la tradizione ha identificato nel monte Tabor, un colle, che domina tutta la pianura della Galilea, e qui si mostrò loro in tutto lo splendore della sua divinità.

Quell'uomo, il figlio del falegname, il loro Maestro si rivelò davanti ai loro occhi quale veramente era: il Figlio di Dio, circonfuso di luce, con le vesti candide, di un candore mai visto, e, accanto a lui, due personaggi, due figure dell'Antico Testamento: Mosè ed Elia, simboli della Legge di Dio e dei Profeti, che conversavano con Gesù, termine e centro di tutta la rivelazione e di tutta la storia della salvezza.

In quel contesto, una nube avvolse i discepoli e, dalla nube una voce disse:«Questi è il Figlio mio prediletto; ascoltatelo!».

Ora la rivelazione del Cristo figlio dell'uomo e Figlio di Dio raggiunge la sua pienezza; ora quei tre discepoli, che forse avevano ancora negli orecchi quelle parole che parlavano di dolore, e di morte, possono contemplare, stupiti e intimoriti da tanta grandezza, il loro Maestro nella sua Divinità, una visione abbagliante e consolante:" Maestro, dice Pietro, è bello per noi stare qui...".

Sì, la gloria del Tabor è una visione pacificante ed esaltante; ma è solo un momento, che solleva il velo non solo sulla persona divina del Cristo, ma solleva il velo anche sul grande mistero dell'uomo, che, in Cristo suo Redentore, è chiamato, alla gloria felice del Tabor, la fine di ogni sofferenza, e la pienezza di vita, oltre l'inevitabile tragedia della morte.

La visione del Tabor fu breve, come l'Evangelista sottolinea, con poche, incisive parole:"E, subito, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù, solo, con loro."

E, mentre scendevano dal monte, raccomandando di tenere il silenzio sulla visione avuta, Gesù ripeté loro quel che già aveva detto sulla sua imminente passione e morte: la morte del Figlio di Dio, dalla quale ogni uomo avrebbe ricevuto vita, e vita eterna.

La liturgia della Parola di questa domenica è, dunque, un dono grande di contemplazione, che mi piace rileggere in un breve testo del Papa

Giovanni Paolo II, testo che può esser di conclusione a questa breve riflessione, e stimolo, alla riflessione personale di ognuno: "La scena evangelica della trasfigurazione di Cristo - recita il testo dell'amatissimo Pontefice - scena, nella quale i tre apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni appaiono come rapiti dalla bellezza del Redentore, può essere assunta ad icona della contemplazione cristiana. Fissare gli occhi sul volto di Cristo, riconoscerne il mistero nel cammino ordinario e doloroso della sua umanità, fino a coglierne il fulgore divino, definitivamente manifestato nel Risorto, glorificato alla destra del Padre, è il compito di ogni discepolo di Cristo; è quindi anche compito nostro.

Contemplando questo volto, ci apriamo ad accogliere il mistero della vita trinitaria, per sperimentare, sempre, nuovamente l'amore del Padre e godere della gioia dello Spirito Santo. Si realizza così anche per noi la parola di san Paolo: «Riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l'azione dello Spirito del Signore» (2 Cor. 3,18)." (da Rosarium Virginis Mariae n.9 )

E' la contemplazione che deve accompagnare il nostro cammino quaresimale, e ancora, tutto il nostro percorso di vita: una faticosa salita, fatta di dolore e di speranza, fatta di angoscia, come fu per Abramo, ma fatta anche di luce: la luce consolante, che viene dalla certezza che Cristo è con noi, e che le nostre croci sono unite alla sua Croce, quella che si intravede dal Tabor, e quella dalla quale guardiamo al Tabor della meta finale, che è

la chiara e beata visione di Dio.

sr Maria Giuseppina Pisano o.p.
mrita.pisano@virgilio.it

 

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