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TESTO Solidarietà nel dolore

padre Gian Franco Scarpitta  

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VI Domenica del Tempo Ordinario (Anno B) (15/02/2009)

Vangelo: Mc 1,40-45 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Mc 1,40-45

40Venne da lui un lebbroso, che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: «Se vuoi, puoi purificarmi!». 41Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: «Lo voglio, sii purificato!». 42E subito la lebbra scomparve da lui ed egli fu purificato. 43E, ammonendolo severamente, lo cacciò via subito 44e gli disse: «Guarda di non dire niente a nessuno; va’, invece, a mostrarti al sacerdote e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha prescritto, come testimonianza per loro». 45Ma quello si allontanò e si mise a proclamare e a divulgare il fatto, tanto che Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma rimaneva fuori, in luoghi deserti; e venivano a lui da ogni parte.

Gesù solidarizza con gli ammalati e viene loro incontro, risollevandoli dal loro gravame di infermità fisica e anche spirituale, poiché nell’Antico Testamento ogni malattia era considerata una conseguenza del peccato, questo commesso dall’ammalato stesso o da qualcuno dei suoi progenitori. Gesù non ha difficoltà ad avvicinare alcun infermo, si prodiga spontaneamente a beneficio di tutti coloro che soffrono superando i pregiudizi e le crudeltà della mentalità e della Legge giudaica in fatto di malattia e non si lascia impressionare nemmeno di fronte a un caso di lebbra. Tale malattia è da osservare con maggiore attenzione nel contesto delle infermità diffuse dell’epoca. Oggi la si concepisce come malattia infettiva contagiosa cronica provocata dal batterio Mycobacterium leprae (Wikipedia) e dominabile con i vaccini preventivi e le terapie farmacologiche e di ambulatorio, ma secondo la cultura vigente nell’Antico Israele, che è descritta dal libro del Levitico, essa rende l’infetto oltre che reo di colpa grave anche impuro, isolandolo dalla società. Bastava che anche una pustola insignificante presenziasse nella cute dell’interessato perché ci si insospettisse della lebbra e lo si allontanasse dal mondo delle relazioni, mettendolo in condizioni di essere disprezzato, reietto e maledetto da Dio e dagli uomini. In più il lebbroso era tenuto a vestire di abiti consunti, velarsi il volto fino alle labbra e gridare a tutti “impuro”, “impuro”, almeno per tutto il tempo che il disturbo persisteva. Ma nella maggior parte dei casi, la malattia non cessava a scomparire, cosicché la condizione del lebbroso era fra le più deprimenti e penose che potesse capitare ad un uomo.

Quali colpe poteva avere un povero affetto di lebbra che, sul più bello della quotidianità regolare, scopriva improvvisamente che una pustola stava divorando la sua pelle e un po’ alla volta avrebbe contaminato tutto il corpo? Oggigiorno noi siamo consapevoli che certamente non aveva peccato, non gli si potevano imputare colpe e responsabilità gravi, ma semplicemente veniva colpito da una disgrazia, un morbo che lo stremava e lo debilitava nel fisico, e questo era il disturbo più grande, anche in riguardo alla dissociazione a cui era condannato. La malattia è sempre un disturbo che grava sulla persona e sulla famiglie e che in questo caso gravava sull’aspetto del povero lebbroso, del tutto sfigurato ed emaciato, perché ridotto a una piaga; l’infermo sperimentava il dolore e nient’altro, parenti e amici dovevano guardarsi dall’essere da lui contagiati. La malattia è sofferenza, prova, angoscia e a volte diventa anche disperazione e turbamento e non ha nulla da spartire con eventuali peccati commessi dall’interessato o dai suoi progenitori. Essa è interpretabile come una visita particolare del Signore che soffre nelle membra doloranti dei pazienti e mentre ne condivide lo strazio, reca sulle sue spalle il gravame del male mostrando il suo conforto e la sua misericordia. In un’altra occasione Gesù aveva detto che la malattia non è causata dal peccato personale e neppure è la conseguenza di un male commesso dai progenitori, ma serve a che si manifestino le grandi opere di Dio (Gv 9, 3) il che intende dire che il dolore e il male fisico sono un’opportunità di riscontrare la presenza solidale di Dio che guarisce e risolleva; anche nella stessa sofferenza fisica è possibile esperire la sollecitudine di Dio e la sua partecipazione alle pene dell’uomo. Dio vuole esternare la sua gloria in ogni infermità ed è la nostra fede che ci aiuta a cogliere il mistero del soffrire nello spessore della croce di Cristo, attribuendo così un senso e un valore a quanto ci accade.

Cosicché Gesù interviene a favore del malcapitato affetto di lebbra, sanandolo dal morbo senza considerare alcuna delle riserve mentali della società del suo tempo e superando ogni pregiudizio: considera semplicemente che quell’uomo è ammalato perché si realizzino in lui le opere di Dio e di fatto egli le realizza con le parole: “Lo voglio, sii sanato”, con le quali Gesù non opera un atto di pietà o di filantropia, ma semplicemente manifesta l’amore del Padre nei confronti di chi soffre; in più ammira la disposizione di cuore di questo povero lebbroso ricompensandolo per la sua grande fede. Con l’espressione “Se vuoi” l’infermo intende infatti sottomettersi alla volontà di Dio in Cristo, qualunque essa sia e afferma di volersi affidare in ogni caso alla misericordia e alla volontà del Salvatore che ha davanti e questo gli procura il merito della guarigione.

Ma dicevamo all’inizio che se la malattia è un fatto indipendente dal peccato e non si commisura in ragione delle colpe, essa è tuttavia occasione perché si consideri la nostra imperfezione e si osservino le nostre lacune morali, affinché possiamo guarire dal morbo per il quale l’umanità intera continuerà a soffrire per le mancane anche di un solo uomo: il peccato. Nella malattia, accolta e accettata con spirito di dedizione e di costanza d’animo, eventuali peccati commessi ci vengono perdonati, otteniamo l’ulteriore grazia santificante di Dio che opera specialmente nel sacramento dell’Unzione, ma per ciò stesso siamo ulteriormente motivati a rivedere la nostra vita e a rico0nsiderare eventuali colpe e a scongiurare per noi e per gli altri la grave lesione del peccato che rovina l’uomo anche prescindendo dal disturbo fisico.

L’atteggiamento di Gesù ci esorta quindi a guardare con occhi di fiducia situazioni di malattia che assillano oggigiorno la nostra società, forse non più sotto le vestigia della lebbra ma certo con altri mali che escludono l’individuo, isolandolo e abbandonandolo a se stesso a causa dell’ automatico rifiuto a volte anche inconsapevole e pur sempre esistente dal consesso sociale. Come nel caso degli ammalati di grave sclerosi multipla, costretti permanentemente al letto o alla sedia a rotelle; i mutilati che mancano di tutti gli arti necessitati di assistenza continua anche per le esigenze più banali; i malati di aids giunti allo stadio estremo della malattia, gli affetti di paralisi o di altri mali incurabili per i quali viene spontaneo pensare all’eutanasia.

La sofferenza deve avere un significato portante che ci ispiri fiducia e ci sproni alla sua sopportazione e se questo non lo si trova in altri espedienti umani, noi lo percepiamo nelle opere di Dio e nel mistero della croce di Cristo che solleva e da conforto anche quando non apporta le pronte e immediate guarigioni.

E intanto non possiamo considerare che il letto è una cattedra e l’infermo è un docente che ha sempre un messaggio di cui è latore.

 

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