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TESTO Un solo gregge e un solo pastore

don Fulvio Bertellini

IV Domenica di Pasqua (Anno B) (11/05/2003)

Vangelo: Gv 10,11-18 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

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11Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. 12Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; 13perché è un mercenario e non gli importa delle pecore.

14Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, 15così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. 16E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore. 17Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. 18Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».

Il bel pastore

I miei lettori già sanno che nel testo greco originale Gesù si definisce, letteralmente "il bel pastore". Forzatamente in italiano dobbiamo tradurre "buon pastore", perché ormai per noi - purtroppo - la bellezza tende a ridursi all'apparenza esterna, al punto di vista puramente estetico. Resta nel nostro linguaggio qualche raro vestigio di un uso diverso: nel gergo sportivo si dice talvolta "quello è un bel giocatore", per dire di un giocatore veramente bravo ed abile. Ma perché Gesù si definisce "il pastore bello"? E come dobbiamo intendere l'immagine del "buon pastore"?

Non buonista

Anche la bontà a dire il vero è un po' scaduta nel nostro linguaggio, degradata a buonismo. Si può essere buoni, compassionevoli, incapaci di fare il male, ma, nonostante questo - o proprio per questo - complessivamente incapaci. Ciò che il Vangelo ci vuol trasmettere è un'altra immagine di bontà. Il buon pastore non è il portatore di una generica compassione, uno che aiuta gli altri, che si impegna per loro. La "bontà" di Gesù è qualcosa di molto serio: "il buon pastore dà la vita per le pecore". Si tratta di una compromissione radicale, di una dedizione assoluta, che va al cuore dell'esistenza. Gesù non si accontenta di risolvere qualche nostro problema o di darci un qualche conforto (come le buone persone che certamente abbiamo intorno), ma affronta radicalmente la domanda fondamentale della nostra vita di uomini.

Non mercenario

Il mercenario è la figura di contrasto che permette di apprezzare meglio l'atteggiamento del "buon" pastore: il suo interesse non è per le pecore, ma per la salvaguardia di se stesso. Non necessariamente l'evangelista intendeva prendere di mira qualcuno, evocando questa immagine. Non è dunque indispensabile identificarlo, né nei sommi sacerdoti, né nei capi del popolo del tempo di Gesù, e neppure negli attuali governanti del mondo. E neppure è indispensabile identificare il lupo con il diavolo o con altri nemici. Lo spirito della parabola è definire in positivo la persona di Gesù, e il suo atteggiamento di amore per noi. Però si può dire che questo atteggiamento non è automaticamente accolto e accettato. Che incontra ostacoli, opposizioni. Dare la vita significa perderla, e questo vale per Gesù come per ciascuno di noi. Ma esiste un altro tipo di ostacolo, diverso dall'opposizione diretta, ed è l'indifferenza, l'interesse, la fuga nel momento decisivo. Ciascuno di noi allora potrebbe ritrovarsi nella figura del mercenario.

Efficace e attraente

Gesù è dunque buon pastore - autenticamente buono e non buonista - perché la sua opera è realmente efficace contro il peccato, contro l'alienazione, contro la violenza, contro ogni nemico che minaccia l'uomo. Una efficacia che si nasconde anche nella croce. Che ci raggiunge non con la violenza manifesta od occulta, ma con un contatto profondo e autentico: "conosco le mie pecore, e le mie pecore conoscono me". E qui comprendiamo perché l'evangelista usa, nel testo greco, l'aggettivo "bello". La bontà del Cristo ci attira verso questo rapporto di amore. Gesù è il "bel" pastore perché calamita la nostra attenzione, e il nostro spirito, quando è libero dal pregiudizio e dai condizionamenti, tende spontaneamente a rivolgersi a lui. E qui si apre la questione importante: nelle nostre comunità, che cosa resta della forza e della bellezza della sua persona? Gesù dice "ho altre pecore, che non sono di quest'ovile, anch'esse ascolteranno la mia voce...". La comunità in cui è presente il Cristo dovrebbe diventare come un polo magnetico, da cui si irradia una bellezza che attrae. La comunità in cui è presente il Cristo non può non diventare missionaria. Ma al centro delle nostre comunità sta veramente il Buon Pastore?


I lettura

Per la seconda volta Pietro spiega la guarigione del paralitico, stavolta di fronte ai capi. E ancora una volta è l'occasione per portare l'annuncio del Risorto.

"Pietro, pieno di Spirito Santo": l'autore degli Atti è sempre attento a sottolineare l'opera dello Spirito. Solo con la forza dello Spirito i discepoli possono parlare, agire, proseguire l'opera di Gesù.

"Visto che oggi veniamo interrogati sul beneficio recato ad un uomo infermo...": la guarigione non è fine a se stessa, ma è intesa come un segno che permette di riconoscere la presenza del Risorto nella sua comunità.

"Nel nome di Gesù Cristo il Nazareno...": il brano insiste sul "nome" di Gesù, invocando il quale si ha la salvezza. Il tema è tratto dall'Antico Testamento, in cui la benedizione e la salvezza erano ottenute invocando il nome sacro di Dio, rivelato a Mosè. Ora però ecco un fatto sorprendente: il "nome" di Gesù sostituisce il nome sacro di Dio; è in lui che si ottiene la salvezza. Ed è questo stesso nome che fa paura: nella prosecuzione del brano, che non viene letta nella liturgia di questa domenica, i capi del popolo proibiscono agli apostoli di "parlare o insegnare in nome di Gesù": è il nome di Gesù che fa paura!

"la pietra che, scartata da voi costruttori, è divenuta testata d'angolo": si cita qui il salmo 117, originariamente riferito al popolo stesso, disprezzato dagli altri popoli, e parte essenziale del progetto di Dio. Pietro afferma che questa parola trova finalmente il suo pieno compimento in Cristo: è lui il principio del vero e nuovo Israele, che Dio mette a fondamento della sua offerta di salvezza.

II lettura

"Quale grande amore ci ha dato il padre...": il discorso si apre alla contemplazione dell'amore di Dio che ci rende suoi figli. E non solo nominalmente, ma in maniera reale. Le parole che seguono, sembrano prevenire due obiezioni o difficoltà. La prima: perché coloro che sono figli di Dio sono rifiutati dal mondo? E la seconda: se siamo realmente figli di Dio, perché ciò non si manifesta in maniera più tangibile?

"...perché non ha conosciuto lui...": il "mondo" rifiuta una relazione vitale ("non ci conosce") con la comunità dei figli di Dio perché rifiuta la relazione vitale con Dio ("non ha conosciuto lui"). Per cui la comunità cristiana si troverà sempre, in una certa misura, ad essere rifiutata e ostacolata. Non solo per i suoi limiti, ma anche - paradossalmente - per la sua fedeltà a Dio.

"... ciò che saremo non è stato ancora rivelato": la nostra identità di figli di Dio è ancora in crescita, in progresso. E il passaggio decisivo deve ancora compiersi: solo nel contatto finale con Dio avverrà la definitiva trasformazione (qui espressa nei termini della "visione": lo vedremo così come egli è - saremo simili a lui).

 

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