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TESTO "Io sono" e la docilità delle pecore

padre Gian Franco Scarpitta  

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IV Domenica di Pasqua (Anno B) (11/05/2003)

Vangelo: Gv 10,11-18 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

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11Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. 12Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; 13perché è un mercenario e non gli importa delle pecore.

14Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, 15così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. 16E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore. 17Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. 18Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».

L'episodio relativo alla guarigione dello storpio (At 3, 6-7) al quale si fa riferimento nella Prima Lettura di oggi è molto interessante per il fatto che sottolinea la costanza e la fermezza degli apostoli nell'annunciare in modo franco e deciso il messaggio di salvezza scaturito dalla resurrezione di Cristo: adesso infatti non importa nulla a Pietro di essere sottoposto ad un processo per avere operato codesta guarigione contro il volere delle autorità; per lui è determinante rendere esplicito in nome di chi codesta guarigione è stata effettuata, e soprattutto sottolineare che essa comunica la salvezza definitiva del Cristo vittorioso sul sepolcro. Il messaggio di Pietro, come quello degli apostoli tutti, è ritenuto necessario ad annunciarsi inesorabilmente in virtù della seguente convinzione: Gesù ha dato la vita per i suoi, così come un pastore dà la vita per le proprie pecore.

E' vero che l'immagine del pastore non è propria del presente episodio degli Atti, ma è una concezione biblica abbastanza comune che Dio abbia cura del suo popolo alla pari del proprietario di un gregge: Ezechiele (cap. 34) rimprovera i capi d'Israele per non aver mostrato sollecitudine verso le pecore del Signore, promettendo che sarà Lui stesso ad occuparsi del proprio gregge perché non vada disperso fra le montagne e non sia preda dei lupi rapaci. Gli fanno eco Isaia e il Salmo 23. Ma quando esattamente la sua promessa si porterà a compimento?

Ed eccoci al brano evangelico di oggi: in esso Gesù proclama con forza se stesso quale pastore delle proprie pecore: "Io sono il pastore..."

Attenzione a questo "IO SONO": non è un'affermazione qualsiasi, ma rimanda al verso 8, 24 dello stesso vangelo di Giovanni, in cui Gesù asserisce: "Se non crederete che IO SONO morirete nei vostri peccati. Siccome IO SONO era un appellativo con cui Dio si rivelava a Mosè (Es 3, 14) né deriva che quando Gesù dice IO SONO equivale sempre a dire Io sono Dio, il Verbo Incarnato per la salvezza nel mondo.

Ebbene, adesso Gesù sta dicendo: Io sono il Dio vivente che ha cura delle sue pecore.

Che differenza fra il pastore e il mercenario? E' molto semplice: il pastore (intendiamo con questa affermazione il padrone del gregge) ripone nei suoi capi di bestiame tutte le sue risorse vitali ed economiche e pertanto non può permettere che esse vengano sbranate dai lupi o che si perdano per i boschi. Nel caso di un'azienda agricola, quanto più numerose sono le pecore tanto maggiori saranno le possibilità di prosperità economica. A differenza del mercenario, che svolge il proprio lavoro remunerato quanto basta per sorvegliare le pecore, il pastore ha quindi a cuore il suo bestiame e pertanto lo nutre, lo pasce e lo difende. In tal senso Gesù è il pastore del suo gregge; non già motivato da interessi affaristici, ma dalla volontà sua propria e del Padre di voler condurre tutti all'ovile della salvezza, si atteggia a proprietario amoroso del proprio gregge.

C'è di più: in un'altra occasione Gesù affermava che se una pecorella andava smarrita, il Buon Pastore abbandonava le altre del gregge, pur di andare a rinvenirla; e questo rafforza ancora di più l'amore per il suo popolo, anche dal punto di vista relativo alle singole persone e agli individui.

Non occorre commentare queste immagini per capire l'amore di Gesù nei riguardi di tutti e di ciascuno. Assai più difficile (specialmente nella prassi!) è comprendere quale sia l'atteggiamento da assumersi da parte nostra, una volta assimilata questa pedagogia...
Ebbene, si impongono a tale scopo due considerazioni:

1) Se pure in quanto uomini siamo tutti dotati di intelletto, raziocinio e volontà deliberativa, questo non toglie che al cospetto di Dio non possiamo non riscontrarci come ingenui, vale a dire bisognosi della Sua guida e protezione: chi è infatti l'uomo per potersi equiparare a Dio, o, paggio ancora, per potersi sostituire a Lui?

Certamente ci perderemo, saremo dispersi e disorientati finché non ci atteggeremo secondo umiltà e mansuetudine e non riconosceremo di avere, al suo cospetto, la medesima ingenuità e semplicità delle pecore.

2) Stando allo stesso vangelo di Giovanni, Gesù rivolgendosi a Pietro dice: "Se mi ami, pasci le mie pecorelle e i miei agnelli" (Gv 21, 15-18). Che altro vuol dire se non che è stata premura da parte del Buon Pastore = Io sono provvedere ad una guida visibile mediante la quale Lui stesso esercita il potere di governo e di premura pastorale? Questi è il papa in comunione con i vescovi in forza dell'evidente successione apostolica... Avere la docilità delle pecore vuol dire allora rifuggire da parte nostra qualsiasi soggettivismo esclusivista relativamente alle nostre scelte in materia di morale e di ermeneutica biblica.

3) In altre parole, il cristiano (e particolarmente il cattolico) quale pecorella sensibile all'ascolto dell'Io sono Cristo Pastore avrà la docilità umile dell'affidare se stesso con fiducia all'insegnamento dell'autorità magisteriale della Chiesa riconoscendo la validità di quanto afferma il successore di Pietro per la propria realizzazione e riconoscendo nel proprio parroco la figura del rappresentante della comunità ecclesiale e del Magistero nel suo territorio...

Quante volte succede infatti che si pongano obiezioni da parte nostra alle deliberazioni del parroco e della Curia, specialmente in circostanze quali la ricezione di un sacramento (Prime Comunioni, Battesimi, nulla osta, certificati...)? E non è raro che si voglia addirittura, in tante occasioni eludere la parrocchia per ottenere ogni cosa esclusivamente in base alle nostre preferenze.

Fra le difficoltà maggiori che ostacolano il nostro cammino comunitario parrocchiale non è poi da escludersi la carenza di interazione e di dialogo con il pastore del luogo. In molti casi si pretende molto da lui, perdendo il senso della comunione ecclesiale e dell'appartenenza senza essere disposti a compiere sacrifici in nome della sottomissione a Cristo Buon Pastore.

E' vero che il pastore del posto è tenuto ad assumere in ogni circostanza un atteggiamento di servizio oblativo e sincero nei confronti delle proprie pecorelle; lo abbiamo notato già in Ezechiele, al quale fa eco anche Sant'Agostino. Tuttavia è sempre opportuno e conveniente, sempre in forza dell'umiltà del ravvisare nel nostro sacerdote la presenza di Cristo Pastore, nutrire sentimenti di fiducia e di apertura nel medesimo.... Anche quando il prete sia un soggetto "difficile".

Siamo pecore? Ebbene, abbiamo la sensibilità delle pecore!

 

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