PERFEZIONA LA RICERCA

FestiviFeriali

Parole Nuove - Commenti al Vangelo e alla LiturgiaCommenti al Vangelo
AUTORI E ISCRIZIONE - RICERCA

Torna alla pagina precedente

Icona .doc

TESTO Commento su Matteo 25,14-30

Marco Pedron  

XXXIII Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) (16/11/2008)

Vangelo: Mt 25,14-30 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Mt 25,14-30

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: 14Avverrà infatti come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. 15A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì. Subito 16colui che aveva ricevuto cinque talenti andò a impiegarli, e ne guadagnò altri cinque. 17Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. 18Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone. 19Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò e volle regolare i conti con loro. 20Si presentò colui che aveva ricevuto cinque talenti e ne portò altri cinque, dicendo: “Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque”. 21“Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone –, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”. 22Si presentò poi colui che aveva ricevuto due talenti e disse: “Signore, mi hai consegnato due talenti; ecco, ne ho guadagnati altri due”. 23“Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone –, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”. 24Si presentò infine anche colui che aveva ricevuto un solo talento e disse: “Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. 25Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo”. 26Il padrone gli rispose: “Servo malvagio e pigro, tu sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; 27avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l’interesse. 28Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. 29Perché a chiunque ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha. 30E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”.

Forma breve (Mt 25,14-15.19-21):

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: 14Avverrà infatti come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. 15A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì. 19Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò e volle regolare i conti con loro. 20Si presentò colui che aveva ricevuto cinque talenti e ne portò altri cinque, dicendo: “Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque”. 21“Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone –, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”.

La parabola mette in luce le due modalità con cui tutti noi possiamo vivere: con paura o con fiducia. La paura uccide molto più delle guerre, dei terremoti e delle violenze. E’ il male invisibile che ti fa credere di essere vivo solo perché respiri o mangi, mentre, in realtà, te ne sei già andato.

La parabola è semplice. Assomiglia ad una di Lc in cui si parla di mine, una moneta del tempo.

C’è un padrone che affida qualcosa, i talenti, ai suoi servi. E ci sono due atteggiamenti: i primi due vivono audacemente, investendo, agendo, rischiando e facendo fruttificare il capitale. Il terzo invece è preso dalla paura, impaurito, attanagliato e bloccato. I primi due ricevono una felicità ancor più grande. Il terzo si condanna da sé.

Spesso questa parabola nel corso dei secoli è stata letta così: “Metti a disposizione i tuoi talenti, le tue doti, le tue capacità e non sotterrarle”. Questo aspetto è vero, ma il suo senso è molto più profondo.

Il talento è la vita; hai un dono incredibile, irripetibile: vuoi nasconderti, sotterrarti o svilupparti?

Il talento è la libertà; ti senti libero di essere te stesso o sei accomodante, ti adatti, hai paura di ciò che gli altri potrebbero dire di te e della tua vita?

Il talento è la verità; la vuoi cercare, trovare, vivere, costi quel che costi, osando, rischiando, oppure preferisci nasconderti le cose e vivere nell’ignoranza perché la luce fa troppa paura?

Il talento è il tuo destino, la tua chiamata; puoi vivere credendo e accettando di essere qui per un motivo o puoi vivere rinunciando a te, nascondendoti, dicendoti che non c’è nessun scopo alla tua vita.

Il talento è la tua anima; vuoi svilupparla, farla crescere o preferisci lasciarla lì a sonnecchiare, a vegetare, cioè a morire, solo perché ne hai paura?

Il centro della parabola è la paura. I primi due personaggi osano, rischiano, ci provano, non si fanno bloccare dalla paura, né si lascino terrorizzare. Il terzo, invece, è vinto dalla paura. Ci sono vari motivi che spingono il terzo uomo a seppellire il proprio talento.

Il primo è la paura degli altri, di quello che potrebbero dire di lui.

Lui si sente svantaggiato perché ha solo un talento, si paragona agli altri, si sente meno dotato di loro e rifiuta anche quello che è e quello che ha.

Immaginate il terzo uomo, avrà detto: “Ho solo un talento: che sfortunato! Loro sì che ne hanno tanti! Ma io non sono come loro. Bisogna che me lo tenga stretto, stretto. Gli altri ne possono perdere uno, ma io no, perché è l’unico”.

E poi si giustifica: “La colpa -dice- non è mica mia! E’ del padrone perché mi ha dato solo un talento”. Ma il padrone gli legge dentro e gli dice: “Malvagio, infingardo, falso: vuoi giustificare la tua paura dicendo che è colpa mia? Vuoi giustificare la tua paura di rischiare dicendo che l’hai fatto per me? Prenditi le tue responsabilità. Fuori nelle tenebre!”. E questo per dire che chi vive nella paura finisce sempre nelle tenebre!.

Quando una persona inizia a chiedersi: “Ho più talenti io o lui? Sono migliore o peggiore di lui? E’ più bravo di me? Ha più soldi, intelligenza, simpatia, donne, ecc... di me?” allora quella stessa persona ha iniziato a rovinarsi da sola.

Troveremo sempre qualcuno, infatti, inferiore a noi per disprezzarlo e qualcuno superiore a noi per disprezzarci.

La rovina delle persone è che non guardano a quanto loro possiedono, ma a quanto hanno gli altri. Pensate all’assurdità di questo uomo che nasconde, seppellisce, l’unica cosa che è proprio sua. “Ma perché vuoi proprio quella degli altri?”.

Conosco un ragazzo che suona la chitarra, ma che non vuole venire a suonare in chiesa, perché ritiene di non essere in grado. In realtà lui è capace, ma in chiesa suona anche un amico con il quale si confronta; poiché non riesce ad accettare che questi sia più bravo di lui, rinuncia alla possibilità di esprimere quello che lui sa.

“Ah, padre, io lascio che facciano quelli più bravi di me, quelli che sono fatti per queste cose”. Quelli che dicono così si credono umili, bravi perché fanno delle rinunce, ma in realtà sono pieni di orgoglio, hanno paura di rischiare, di esporsi, di essere sottoposti al giudizio, hanno paura che altri facciano meglio di loro o che abbiano idee nuove. Le persone sono piene di doti, di qualità, di sensibilità, ma poiché vorrebbero eccellere, essere i primi, i migliori, i “più”, non possono accettare di avere delle doti o delle capacità limitate.

Il secondo motivo è la sua immagine di Dio.

Quest’uomo ha paura di Dio: “Signore so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso; per paura andai a nascondere il talento sotterra” (25,25).

Ma che Dio è questo? Ma che Dio ha davanti agli occhi quest’uomo? Ma come sarà stato educato? E’ ovvio che egli ha paura, perché se Dio fosse così ci sarebbe davvero da aver paura. Chi non sarebbe terrorizzato, paralizzato da un Dio che non ammette errori, col quale non si può sbagliare, un Dio efficiente

L’immagine di sé dipende dall’immagine che dentro abbiamo di Dio (o di ciò che noi consideriamo Dio). La paura di Dio conduce alla paura di se stessi, degli abissi della propria anima, di ascoltarsi e di viversi.

Se Dio mi ama, mi posso guardare dentro e posso dar nome e spazio a tutto ciò che trovo. Se Dio mi ama posso provarci e rischiare, perché so che Lui non mi condanna. Se Dio mi dà fiducia, mi spinge ad osare e a non rinchiudermi in una falsa sicurezza dettata dal legalismo. Se Dio è Vita vuole che io viva, che io mi espanda, che io mi realizzi.

Ma se ho paura di Dio non posso vivere; e se non posso vivere ho paura di Dio. Come posso osare, provare, conoscermi se Dio è come un padre autoritario o un giudice severo spietato?

“Guai a non essere in grazia! Dio ti vede (uguale: ti punisce, vede tutto, stai attento!). Ma cosa penserà Dio di ciò che hai fatto (senso di colpa terribile anche per le più piccole cose)? A Gesù non piace; Gesù piange; Gesù soffre (metodi efficaci per far fare ai bambini quello che si vuole)”.

Il terrore del peccato – e ci fu un tempo in cui tutto era peccato, ma proprio tutto - del non essere in grazia, dello sbagliare, di commettere qualcosa di non religioso ha creato delle immagini distorte di Dio.

Se credevi in Dio non potevi fare niente: non ci si poteva divertire, concedersi, provare sentimenti, realizzarsi, amarsi, espandersi. Tanto valeva farne a meno di un Dio nemico dell’uomo. “No a questo; non a quello; no a quell’altro...”. Tutto era vietato e a tutto si doveva rinunciare.

Ho trovato tra le carte vecchie, delle indicazioni del padre spirituale del primo anno di seminario: “Non avere amicizie femminili perché ci si può innamorare; non avere forti amicizie maschili per non avere complicanze (con una frase così le complicanze, che neppure pensavi, te le facevi venire!); non andare al cinema per evitare scene improprie; non partecipare a festine per non dare adito o motivo di scandalo; essere composti, sobri ed equilibrati in ogni circostanza...”. A quindici anni anni!? E’ vivere questo???.

Questa immagine di Dio ha creato personalità bloccate, sterili, rattrappite, vuote, fredde, rigide, anaffettive, senza spina dorsale, incapaci di amore e di umanità, ma che dicevano tante preghiere e che andavano tanto in chiesa. Dentro di loro, però, non scorreva vita, solo tanta paura.

Ma questo è Dio? Se temi Dio vuol dire che devi cambiare idea su di Lui. Vuol dire che quello che hai trovato non è ancora Dio. Lui dice: “Non aver paura di niente e soprattutto non aver paura di Me”.

Il terzo motivo è il pensiero della sicurezza. Quest’uomo ha paura di sbagliare.

Quest’uomo non vuole fare errori, ma proprio perché non li vuole fare, fa l’errore più grande. La paura, infatti, ti porta a realizzare proprio ciò che non vuoi. La paura attrae ciò di cui si ha paura; chi ha paura dei cani, ad esempio, sa benissimo che così facendo li attrae.

Questo uomo vorrebbe controllare in tutto la sua vita. Ma non si può! Non ci si può salvaguardare da tutto e non si può vivere pensando di non sbagliare mai. Pensare così è voler essere perfetti, ma in realtà equivale a non vivere.

Perché vivere è crescere, diventare migliori, più profondi, inseriti nel mistero della vita. Ma vivere è anche sbagliare, innamorarsi, perdersi e ritrovarsi, amare, essere feriti e tornare ad amare ancora; chiudersi e aprirsi; andare in depressione, in fallimento, in crisi e poi rialzarsi; vivere è piangere, vivere è ridere. Vivere è sentire tutta la tristezza che in certi giorni ci pervade e tutto il dolore profondo, antico, ancestrale che a volte ci assale; vivere è sentire tutta la felicità e l’ebbrezza che ci assale e che ci fa sentire in certi giorni beati e felici già in questa terra. Volersi precludere da tutto questo è precludersi la vita.

L’uomo del vangelo ha paura del padrone e cerca di mettersi con le spalle al coperto. Vuole una certezza assoluta e la paura lo costringe a controllare se stesso e la sua vita.

C’è una regola nella vita: chi vuol controllare tutto alla fine perde il controllo di tutto. Chi controlla è perché ha paura, perché sente di non essere in grado di poter affrontare o gestire la situazione. Chi cerca sicurezza nella vita è un uomo che ha paura.

C’è una donna che, dopo ogni cosa che fa', chiede a suo marito: “Ho fatto bene?”. Se lui dice “sì” allora è tutta contenta; se lui dice “no” allora è triste e sente di aver sbagliato. E’ terrorizzata di fare cose sbagliate o di esser sbagliata agli occhi del partner, per cui cerca continuamente la sua conferma.

Ho chiesto ad una persona: “Vieni a fare il catechista?”. “Devo chiedere a mia mamma”. “Ma hai 43 anni!”.

La domanda di tante persone è: “E se sbaglio?”. E se non vivi, se non ci provi non è forse uno sbaglio più grande? Gesù diceva sempre che chi vuol salvare la propria vita (cioè vuole certezze), in realtà la perde.

Il terzo uomo è un uomo che si autocommisera: “Che sfortunato che sono; è veramente tutto difficile; guarda che poco che sono io; se io avessi avuto come gli altri; perché tutte a me”.

E Gesù? Forse che gli ha detto: “Poverino! Vieni qui che ti coccolo! Sei davvero sfortunato!”. No! Gesù gli incute ancora più paura, aumenta addirittura le sue preoccupazioni.

Gesù era un terapeuta eccezionale. Con certe persone bisogna fare come Lui in questo Vangelo, perché quello che cercano è solo commiserazione, consolazione, cioè giustificazione alla loro paura. Noi non dovremmo cadere nel loro tranello, poiché chi si piange addosso in realtà non vuole stare meglio.

Le persone rassegnate o depresse sono invalicabili, si trincerano dietro al loro: “Non ce la faccio” e questo giustifica tutto. Gesù con persone così non fu mai tenero perché essere teneri è assecondarli.

Spesso le persone non cercano consiglio e aiuto, non cercano di uscire dai loro problemi o dalle loro situazioni, cercano solo “complici”, cercano solo di sfogarsi o qualcuno che gli dica: “Poverino; ti capisco”.

Un ragazzo ha paura degli esami: “Non ce la faccio. Non riesco a passarlo; non ce la farò mai. Mi bloccherò come l’ultima volta”. Dirgli che ce la farà non lo aiuta, è inutile perché lui ha paura di fallire. Allora bisogna togliergli la paura di fallire, cioè che, se sbaglierà, non sarà un problema.

Gli si dice, esagerando, (questa tecnica si chiama intenzione paradossa): “Ne sono certo. Non ce la farai mai. Anzi stabilirai il record di bocciature. Non dirai neanche una parola”. Potrebbe reagire: “Beh, proprio neanche una parola no...!”.

Se riesce a riderci su, si distanzia dalla sua paura di fallire (che non è poi così grave) e può iniziare ad accettarla.

Nella paura noi ci identifichiamo con il timore; nell’umorismo noi ne prendiamo le distanze.

Ci sono molti esempi di commiserazione nella vita di tutti i giorni.

Una madre dice: “Mio figlio è un buono a nulla, è un incapace”. La risposta che si attende: “Poverina, che sfortunata che è signora ad avere un figlio così”. Mai dirle così!

Ammettiamo pure che sia un buono a nulla, ma se una madre pensa così cosa potrà diventare di diverso un figlio? Bisogna provocarla perché altrimenti da quest’atteggiamento di rassegnazione non se ne esce: “Sì, signora, suo figlio è proprio un buono a nulla e se continua così finirà in galera”.

Un uomo: “Non sarò mai nessuno”. Un atteggiamento del genere blocca ogni slancio, ogni possibilità. Rispondergli: “No, non è vero, perché dice così; tutti siamo importanti per Dio” è assolutamente inutile. Allora bisogna reagire in maniera forte, aggressiva se volete, con l’obiettivo di provocarlo: “No, non sarà mai nessuno. Mi chiedo perché continui a vivere?”.

Una donna: “Mio marito non mi capisce”. Se le si dice: “Sì, è vero suo marito ha un carattere difficile e lei è proprio paziente, una santa, con lui”, non la si aiuta, ma si rischia di confermarla nel suo non volerci provare. La sua paura è di non essere capita ma questo la porta a non provarci neppure, a non fare nessun passo in tal senso.

Un ragazzo dice: “Nessuno mi vuole”. La sua paura è di essere rifiutato e così se ne sta sempre da solo e in casa. Deve accettare la sua paura e non drammatizzarla più: “Sì nessuno ti vuole, nessuno dei sei miliardi di persone che sono sulla terra, proprio nessuno!”.

Un prete pensa: “Non valgo niente”. La sua paura è di non essere apprezzato ed è questo deve accettare, che qualcuno o molti non lo accettino (ma che non è poi così grave!). “No non vali niente, ma niente di niente. Mi chiedo perché continui ad essere prete...”.

Un altro caso di autocommiserazione è dar la colpa ai nostri genitori: è il complesso dei genitori cattivi.

A volte può essere proprio vero che i nostri genitori ci hanno educato in maniera per lo meno discutibile, magari sono stati autoritari, oppressivi o ci hanno insegnato solo l’apparenza (essere bravi).

Ma a che ci serve rimanere intrappolati qui dentro? Non è un modo per giustificarsi? Non è un modo per piangersi addosso? Se uno rimane incastrato qui dentro non si dà nessuna possibilità di riscatto.

“Padre sono cresciuto così!”. “Sì, sei cresciuto così e morirai così!”.

Varianti sono il complesso di una società cattiva, di un marito che non ci comprende, dei colleghi che “ti fanno sempre le scarpe”, dei politici “magna-magna”.

Finché c’è qualcuno da colpevolizzare o sui scaricare la colpa le persone si sentono giustificate ad essere e rimanere così. Non fanno nulla, non agiscono e non fanno ciò che potrebbero fare.

Gesù ci invita, invece, a prendere consapevolezza e coscienza del nostro potere, del nostro potenziale (”potevi almeno affidare il denaro ai banchieri!”), a renderci conto che possiamo agire, che abbiamo il nostro potenziale e le nostre risorse. Gesù non sa che farsene di quelli che si sentono vittime o i “più sfortunati del mondo”.

Gesù vuole che ci accorgiamo del nostro vittimismo, che la smettiamo di girare attorno a noi stessi e che prendiamo la forza e il coraggio per agire, per osare e rischiare la nostra vita.

“Per paura andai a nascondere il tuo talento”. Il talento è la nostra vita.

La paura ci porta a seppellire la nostra vita. La nostra vita che era stata pensata per fruttificare, per esser feconda, per realizzarsi, per divenire, per espandersi, si raggrinza, di deforma, si esaurisce.

La paura chiude, l’amore e la fiducia aprono. La paura evita, la fiducia incontra. La paura crea diffidenza, la fiducia amore. La paura crea sospetto e pregiudizio, la fiducia complicità. La paura pensa: “Mi sta fregando. Dov’è l’inganno”, la fiducia pensa: “Un’altra, una nuova possibilità”. La paura ti fa vedere tutti gli uomini come dei nemici, la fiducia come semplicemente delle persone, delle possibilità d’incontro. La paura ha bisogno di combattere, di difendersi, di proteggersi, di mettere barriere; la paura crea ansia; la paura crea controllo e difesa su tutto. La paura è il contrario della fiducia e quindi della fede.

Nella Bibbia quando un angelo (l’angelo è sempre il messaggero diretto, chiaro, di Dio) appare a qualcuno, gli dice: “Non temere, non aver paura”.

Quando un uomo ha paura, nel suo corpo avviene una contrazione, una ritenzione (i corpi contratti, anche se loro giureranno il contrario, sono corpi che hanno paura).

Immaginatevi di trovarvi per strada una tigre che vi guarda dritti negli occhi: avete una paura folle. L’energia circola meno perché diventate esitanti, dubbiosi, state lì ad aspettare, non avete il coraggio di osare, di fare mosse troppo ardite altrimenti vi potrebbe addosso e già vi immaginate il peggio: “Mi sbranerà? Sarà la fine?” (la paura genera paura). Vi vengono le palpitazioni cardiache (il cuore va a mille) e vi viene il mal di testa perché vi preoccupate di ciò che potrebbe accadere (e la mente pensa, pensa, pensa, a tutte le milioni di cose che potrebbero accadere); le gambe (e il nervo sciatico) si bloccano e vi fanno male perché avete paura di avanzare (d’altronde con una tigre davanti!); vi trattenete e diventate stitici perché avete paura di mollare la presa, di lasciarvi andare (non è certo il momento quello di essere felici, di fare bagordi o di andare ad evacuare!); poi vi viene male al gomito perché temete di prendere una nuova direzione (e chi si muove lì?) e la vista diminuisce e vi confonde perché avete paura di vedervi in una nuova situazione difficile; l’ansia aumenta e siete angosciati.

Ma è la paura che vi provoca tutto questo, non la tigre. E se è normale provare paura e tutto questo di fronte ad una tigre, non lo è per molte altre cose.

La vera fede, la fiducia nel Gesù del Vangelo, è la più grande terapia e guarigione della vita.

Un uomo ha paura d’amare. Dentro di lui ha registrato il messaggio: amare uguale a soffrire. I suoi genitori si sono separati quando lui era piccolo e lui ha sofferto terribilmente; ora è sposato e ama sua moglie, ma sempre con riserva, sempre trattenuto, sempre controllato. Ha nascosto il suo amore nel suo campo. Ha paura di lasciarsi andare, ha paura di soffrire nuovamente. La fede dice: non aver paura e libera il tuo amore; torna ad amare con tutto il tuo cuore.

Un altro uomo da bambino veniva sempre ripreso quando si impegnava a fare un disegno, quando era tutto preso nel giocare con i lego, o nel fare altre cose. Insomma: ogni volta che lui ce la metteva tutta i suoi genitori avevano sempre qualcosa da dire, niente andava bene. Oggi non ha voglia di fare niente e non si impegna in nulla. Ha registrato dentro di sé il messaggio: impegnarsi non serve, impegnarsi è inutile tanto poi ti criticano, hanno sempre qualcosa da dire. La fede dice: non aver paura di impegnarti, di mettere ciò che sei per costruire qualcosa. Torna ad esprimere tutta la tua creatività, la tua fantasia e la tua passione.

Un altro uomo ha sofferto molto la mancanza della mamma quand’era piccolo. La mamma era esaurita, spesso si trovava in ospedale e quando era a casa non aveva né tempo né spazio interiore per le coccole o per l’affetto verso di lui. Dentro di sé ha registrato il messaggio: privazione, mancanza, uguale soffrire. Oggi ha una paura terribile di tutto ciò che è nuovo. Cambiare il lavoro per lui è terribile; se sua moglie sta via qualche giorno lui si sente disperato e diventa possessivo; se lei si arrabbia e gli tiene il “muso” lui si sente perso e disperato. La fede dice: non essere terrorizzato se c’è un distacco o un cambiamento. Non è più come una volta, quando la mamma non c’era, ti mancava e tu ti sentivi solo e perso.

Altre persone sono terrorizzate dall’opinione altrui: ma sappi che qualsiasi cosa tu faccia, non potrai mai impedire agli altri di pensare. Allora accetta che gli altri possano non essere d’accordo, possano non capirti o fare scelte diverse, perché tu sei venuto a questo mondo non per rispondere alle aspettative altrui, ma per vivere la tua vita. Non fare come l’uomo del vangelo che disse: “E se perdo il mio talento, cosa si dirà in giro?”.

Un proverbio indù dice: “Si muore per non aver osato”.

Il più grande pericolo nella vita non è di sbagliare ma di non vivere. Il più grande pericolo è permettere alla paura di impedirci la vita.

E come si vince la paura? Vivendo! Provando e riprovando ad agire anche se si ha paura.

Un racconto orientale dice: “Qualcuno bussò forte forte alla porta. La Paura non aprì. La Fede, invece, aprì: non c’era nessuno fuori”.

Pensiero della settimana

Fa’ che la morte ti trovi vivo:

perché c’è chi muore una volta sola e chi muore ogni giorno.

 

Ricerca avanzata  (54031 commenti presenti)
Omelie Rituali per: Battesimi - Matrimoni - Esequie
brano evangelico
(es.: Mt 25,31 - 46):
festa liturgica:
autore:
ordina per:
parole: