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TESTO Pellegrini dell’assoluto

Il pane della domenica  

XXIX Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) (19/10/2008)

Vangelo: Mt 22,15-21 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

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In quel tempo, 15i farisei se ne andarono e tennero consiglio per vedere come coglierlo in fallo nei suoi discorsi. 16Mandarono dunque da lui i propri discepoli, con gli erodiani, a dirgli: «Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno. 17Dunque, di’ a noi il tuo parere: è lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?». 18Ma Gesù, conoscendo la loro malizia, rispose: «Ipocriti, perché volete mettermi alla prova? 19Mostratemi la moneta del tributo». Ed essi gli presentarono un denaro. 20Egli domandò loro: «Questa immagine e l’iscrizione, di chi sono?». 21Gli risposero: «Di Cesare». Allora disse loro: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio».

Rendete a Cesare quello che è di Cesare...

1. “La parola di Dio è un ferro arroventato, e tu che devi insegnare agli altri, vorresti prenderla con le molle per paura che essa ti bruci?”: queste parole - che G. Bernanos metteva sulla bocca dell’anziano parroco di Torcy, in dialogo con il giovane curato di campagna - mi sono tornate alla mente quando, qualche giorno fa', ho cominciato a preparare questa lectio. In verità, nel rileggere la famosa sentenza di Gesù: “Date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”, mi sembrava di non dover provare alcuna paura di rimanerne scottato. Avevo anzi l’impressione di poter tranquillamente prendere tra le mani un ferro non più incadescente, ma talmente raffreddato dall’uso da appartenere ormai al comodo prontuario dei pensieri citabili: imprescindibili, inoppugnabili e - a forza di essere “sloganizzati” - praticamente innocui!

In effetti questa massima di Gesù è stata stracitata nei più svariati contesti e nelle più disparate situazioni. Fu intesa come “separazione” tra la sfera temporale e quella spirituale, per evitare ogni interferenza tra le due; venne utilizzata per fondare l’“alleanza” tra il trono e l’altare, a loro reciproco sostegno e mutuo soccorso; e fu perfino interpretata come legittima “commistione” tra le due sfere, con la sacralizzazione dello stato o con la temporalizzazione della Chiesa.

Quando ci troviamo di fronte ad un versetto del vangelo logorato dall’uso, due attenzioni ci possono salvaguardare dal rischio di annacquare la parola di Dio: l’attenzione al testo e al contesto.

2. Il contesto è quello degli ultimi giorni di Gesù a Gerusalemme. La tensione è al massimo, il cerchio si va stringendo: ora i farisei sferrano l’ultimo attacco al maestro galileo e per “intrappolarlo” - scrive testualmente Matteo - si coalizzano con i loro cordiali nemici, gli erodiani. Condiscono il subdolo quesito sul tributo con un complimento altisonante, ma non gli ci vuole molto a Gesù per capire che si tratta di una... mela avvelenata. I farisei erano dei nazionalisti e, pur non appartenendo all’ala rivoluzionaria formata dagli zeloti, fomentavano il malumore fiscale contro quei “cani bastardi” dei romani; gli erodiani, invece, erano dei collaborazionisti e appoggiavano il potere occupante. La trappola è tesa: come farà stavolta rabbi Jeoshua a non farsi incastrare? Se risponderà “no”, si metterà contro l’autorità di Roma, e gli erodiani lo potranno deferire al tribunale di Pilato come ribelle e sovversivo; se risponderà “sì”, si alienerà il favore del popolo ostile all’occupazione straniera, e si ritroverà isolato. La domanda è davvero perfida, tanto più che, rivolta al fondatore dei Dodici, va tradotta così: Tu che “non guardi in faccia a nessuno” - tant’è vero che hai preso tra i tuoi discepoli sia Matteo, esattore di tributi a Cesare, sia Simone lo zelota, il rivoluzionario che sognava l’insurrezione - tu che “non hai soggezione di nessuno”, da che parte stai: con Israele o con Roma? Con il popolo o con Pilato?

Sappiamo la risposta di Gesù. Ma la dobbiamo rileggere facendo attenzione a due dettagli apparentemente marginali. Primo, Gesù non usa il verbo dei suoi provocatori, il verbo “dare”. Non dice “date”, ma “rendete”, cioè “restituite” a Cesare... Come a dire: ci sono tante cose che non sono davvero nostre: e anche di salute, benessere, istruzione e lavoro, anche del pane quotidiano siamo in debito con la società e con lo stato, insomma con Cesare. “E se Cesare sbaglia, il mio tributo sarà correggerlo; e se ruba, gli porterò il tributo della mia coscienza che gli ricorda i suoi doveri” (E. Ronchi).

Ma la novità più provocante, Gesù la introduce con l’altra metà della sentenza: “e (rendete) a Dio quello che è di Dio”. Quella e di congiunzione è esatta, ma va presa in senso letterario, non reale. Salda le due mezze proposizioni come membri di un unico periodo, ma non divide a metà ciò che dev’essere restituito. Insomma, Gesù non dice: “fifty-fifty: il 50% a Cesare, l’altro 50% a Dio”. Per questo con la TILC e alcuni esegeti (Barbaglio, Maggioni) sembra preferibile rendere quella e con un ma: “Restituite (pure) all’imperatore quel che è dell’imperatore, ma quello che è di Dio restituitelo a Dio”. Dunque non più: o Cesare o Dio, ma neanche: un po’ a Cesare e un po’ a Dio.

Con quel “ma a Dio”, l’accento cade sulla seconda parte della risposta di Gesù. Perché solo Dio è l’assoluto, a lui solo appartiene tutto; solo Cristo è il Signore di tutti, anche di Cesare! Non si deve mai dimenticare che l’ideologia imperiale considerava il re un Dio in terra, come infatti recitava il denaro da versare in tributo: “Tiberio Cesare, figlio del divino Augusto, pontefice massimo”.

3. Assolutizzare il relativo e relativizzare l’Assoluto: questi sembrano i due rischi mortali che noi corriamo oggi. Scriveva De Lubac: “Non riconoscendo ciò che è relativo e storico, è vero che non si ottiene altro che uno pseudo-assoluto, uno pseudo-eterno, una liberazione in sogno; ma, d’altra parte, è ugualmente certo che non riconoscendo l’eterno e l’assoluto, non resta tra le mani che uno pseudo-storico, uno pseudo-temporale, una via che non porta alla liberazione”.

Ma ora, anziché appesantire il commento al vangelo con elucubrazioni che in questo contesto potrebbero apparire sottili e pedanti, riportiamo una testimonianza concreta.

Una giovane dal cognome VIP qualche anno fa si è convertita ed è entrata in una congregazione religiosa di vita attiva. Ora sta pensando di passare ad un ordine di vita contemplativa e ha ottenuto il permesso di fare una esperienza in clausura. Proprio il giorno che entrava in carmelo, mi ha scritto: “Anche se non esistesse Dio, la vita di tante sorelle della mia congregazione avrebbe un grande valore e una piena giustificazione agli occhi del mondo, ma la vita di una monaca di clausura, proprio per la sua inutilità, stoltezza e inefficacia secondo la mentalità corrente, diventa testimone dell’Assoluto di Dio e di quell’unico necessario di cui in realtà il mondo ha sempre più bisogno”.

Ma oggi il mondo ha bisogno che questa testimonianza dell’Assoluto gli venga non solo dai monaci, ma anche dai cristiani laici. Laici che appartengono, certo, alla famiglia, al lavoro, alla società, ma che innanzitutto appartengono a Dio che li ha donati alla famiglia, al lavoro, alla società. Laici che non sognano una vita “esentasse”, ma vivono nel mondo per costruirlo, per trasformarlo, per animarlo, facendosi carico della crescita della società civile, assumendosi l’impegno della cultura, la gestione delle risorse economiche, il servizio alle istituzioni politiche. Di queste realtà penultime il laico cristiano assume la responsabilità secondo la loro propria natura, con la sintassi loro interna, ma nella prospettiva delle cose ultime; non con un tributo pagato da servo, né con il soldo del mercenario, ma con una collaborazione libera e responsabile; non dividendo la vita, un po’ a Dio e un po’ al mondo, ma donandola a Dio per la vita del mondo.

Insomma, come “servi di Dio e di nessun altro” (Don Milani).

Commento di mons. Francesco Lambiasi

tratto da "Il pane della Domenica. Meditazioni sui vangeli festivi"
Ave, Roma 2007

 

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