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Marco Pedron  

XXV Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) (21/09/2008)

Vangelo: Mt 20,1-16 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

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In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: 1Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. 2Si accordò con loro per un denaro al giorno e li mandò nella sua vigna. 3Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano in piazza, disoccupati, 4e disse loro: “Andate anche voi nella vigna; quello che è giusto ve lo darò”. 5Ed essi andarono. Uscì di nuovo verso mezzogiorno, e verso le tre, e fece altrettanto. 6Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che se ne stavano lì e disse loro: “Perché ve ne state qui tutto il giorno senza far niente?”. 7Gli risposero: “Perché nessuno ci ha presi a giornata”. Ed egli disse loro: “Andate anche voi nella vigna”.

8Quando fu sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: “Chiama i lavoratori e da’ loro la paga, incominciando dagli ultimi fino ai primi”. 9Venuti quelli delle cinque del pomeriggio, ricevettero ciascuno un denaro. 10Quando arrivarono i primi, pensarono che avrebbero ricevuto di più. Ma anch’essi ricevettero ciascuno un denaro. 11Nel ritirarlo, però, mormoravano contro il padrone 12dicendo: “Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo”. 13Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: “Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro? 14Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te: 15non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?”. 16Così gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi».

Gesù si sta dirigendo verso Gerusalemme, la sede politica e religiosa dell’ebraismo, e lungo la strada racconta una parabola. Gesù la dice per gli ebrei che si ritenevano i prediletti, i prescelti da Dio fin dall’antichità. Loro erano il popolo di Dio e a loro spettava una ricompensa maggiore, un trattamento di favore rispetto agli altri.

Gesù, però, con il suo modo di fare, cioè di rivolgersi ai pubblicani, ai peccatori e ai pagani, scardinava questa prospettiva. Gesù era venuto per tutti e questo non piaceva affatto agli ebrei.

Con questa parabola Gesù voleva dire: se Dio vuole salvare tutti, perché siete invidiosi? Se Dio è buono, se Dio ama tutti, perché siete gelosi? Volete Dio tutto per voi? Dio dovrebbe preferire voi agli altri?

Ogni figlio è unico per una madre, ma lei li ama tutti. Una madre ama il figlio realizzato e quello no, quello avvocato e quello in prigione, quello prete e quello divorziato.

La parabola racconta: è tempo di vendemmia e un padrone esce per prendere operai a giornata, com’era usanza a quel tempo. Infatti quando c’erano dei lavori da fare si andava nella piazza del paese e si prendevano i lavoratori che c’erano. Il padrone si accordava con loro per “un denaro”, che era la ricompensa per il lavoro di un giorno. Il padrone poi continua ad uscire e a chiamare alla sua vigna. Esce in diversi orari: alle nove, a mezzogiorno, alle tre e alle cinque, e chiama.

Alla fine della giornata arriva l’ora di essere pagati: quelli dell’alba ricevono un denaro come stabilito; anche gli altri ricevono lo stesso; quelli delle cinque ricevono un denaro come quelli delle nove. Secondo voi è giusto? È giusto che i primi abbiano lavorato nove ore e ricevano come quelli che ne hanno lavorato una? Non vi fa rabbia? Non vi viene da dire: “Ma come!?”.

È giusto? “No”. Non secondo la nostra giustizia. La nostra giustizia dice: “I meriti vengono commisurati in base a quanto ho fatto”. Ma Dio ragiona diversamente. Dio non dà secondo i meriti, Dio ama.

Un denaro era la somma minima con la quale si poteva vivere. Se il padrone avesse dato agli ultimi quello che spettava loro, questi e le loro famiglie non avrebbero avuto di che vivere. Allora il padrone non guarda a quanto hanno lavorato, a quanto avrebbero meritato, a quello che spetterebbe loro, ma a quanto hanno bisogno. Questo per noi è illogico. La giustizia di Dio non è la giustizia economica, razionale: “Hai lavorato tot, prenderai tot. Se non hai potuto lavorare così tanto da sfamarti è un problema tuo”. La giustizia di Dio è la giustizia dell’amore, del cuore: “Tutti hanno diritto di vivere. Se tu non hai potuto lavorare di più, pazienza. Ciò che conta è che tu viva”.

L’economia si fonda sulla logica: chi produce, ha soldi e ricchezza. Per questo principio un miliardo di persone si alza alla mattina con la fame e non sa se arriverà alla sera. La nostra giustizia si base sullo sfruttamento di altre persone: andiamo a depauperare le ricchezze minerarie dell’Africa, il petrolio del Golfo (è questo il motivo della guerra, ma non sarà l’ultima!), andiamo a cercare manodopera all’est o in oriente, roviniamo le fonti della vita (l’acqua, l’aria, la terra) per produrre. Poi diciamo: “Noi lavoriamo: è giusto che abbiamo di più!”. “Ma è proprio giusto? È proprio giustizia questa?”. Non c’è giustizia se non è per tutti.

Il mondo ricco dice: ”Noi lavoriamo” e si sente a posto. “E gli altri? Li lasciamo morire di fame perché noi siamo a posto, perché non rubiamo a nessuno?”. “Puoi sentirti a posto se fai così?”. Se mangio significa che ne ho a sufficienza, quindi non rubo, però tu muori di fame: è proprio vero che non rubo? Sarai giusto secondo l’economia, ma non secondo il tuo cuore.

Dio non è giusto secondo la nostra giustizia. Dio è molto di più: è buono. Dio ha cuore. Dio vuole che ciascuno viva, si espanda, possa realizzarsi e abbia il necessario. Pensa se Dio fosse giusto: quando sbagli (e ne fai) ti direbbe: “Hai sbagliato, lo sapevi, adesso arrangiati”. E chi di noi si salverebbe? Chi di noi potrebbe ancora vivere se Lui ci premiasse secondo la nostra giustizia? Non saremmo tutti nel carcere di Dio? Ci sarebbe un paradiso senza nessuno e un inferno con tutti.

Questa parabola fa emergere le motivazioni profonde per cui le persone agiscono. Gli operai della prima ora hanno quanto è giusto: questo hanno pattuito. Ma quando si rivolgono al padrone non sono più mossi dal desiderio di avere quanto spetta loro, ma dal confronto con gli altri. Non guardano più a ciò che hanno ricevuto, ma a ciò che il padrone dà anche agli altri.

I motivi per cui si fanno le stesse cose possono essere molto diversi.

C’è chi ama per averne un ritorno, per essere ricambiato, perché qualcuno faccia altrettanto, perché ha paura di rimanere solo e c’è chi ama perché ha il cuore pieno e traboccante.

C’è chi prega Dio perché ne ha paura, “e se mi manda all’inferno?”, perché faccia Lui ciò che dovremmo fare noi, “perché così mi sento a posto” e c’è chi lo prega perché sente che è l’aria della sua vita, perché ha bisogno di incontrarlo e di sentirlo.

C’è chi è cristiano sentendolo un precetto, un dovere, un’imposizione e c’è chi è cristiano e lo vive con felicità, con gioia e lo sente una grande fortuna.

C’è chi si sposa per amore e chi per paura, per riempire un buco, perché lo fanno tutti o per fuggire di casa.

C’è chi obbedisce per paura di prenderle, di perdere l’approvazione e chi obbedisce perché sente che l’altro dice il vero.

Dio non guarda mai a quello che facciamo, ma a come lo facciamo: tutto si può fare per paura o per amore, per spinta interna dell’anima o per meritarsi attenzione e riconoscimento. In apparenza può sembrare la stessa cosa, ma in realtà i motivi sono opposti.

Dio non resta impressionato dalle cose che facciamo perché lui vede dietro a ciò che facciamo. Mentre noi uomini guardiamo alle opere, alle concretizzazioni, alle cose esterne, Dio vede dentro, vede le motivazioni reali profonde del nostro agire. Quando faccio una cosa posso nascondere il motivo per cui la faccio. Posso nasconderlo anche a me: così molte persone credono di agire per dei motivi e invece sono mossi da altre intenzioni. Ma Dio sa perché agisco. Dio non guarda alla quantità, ma a come faccio le cose. L’amore è il “come” di ogni cosa. Non ciò che fai, ma il come fai le cose dice quanto le ami.

A questo mondo non siamo soli: è normale guardare un po’ gli altri, ma più li guardo e meno guardo me.

Il padrone dice: “Ma non eravamo d’accordo per un denaro? Tu eri contento di lavorare, perché adesso sei arrabbiato? Perché vuoi impedirmi di essere generoso, buono, grande d’animo?”. “Ma ti ho tolto qualcosa? Ti ho defraudato di qualcosa?” dice il padrone all’operaio. “No”. “E allora?”.

Vedete come si confrontano. Se ci fossero stati solo quelli della prima ora, non ci sarebbe stato nessun problema. Sarebbero stati felicissimi: tutti avevano lavorato, avevano guadagnato e sarebbero tornati a casa pienamente soddisfatti. Cos’è che ha rovinato la loro festa e la loro gioia? Il confronto. Non vanno più a casa felici per quello che hanno guadagnato, ma tristi perché gli altri, secondo loro, avevano avuto di più. In realtà hanno tutto quello che gli serve... eppure...

Il confronto ti toglie anche quello che hai: non lo vedi, non lo gusti, non lo vivi più, perché i tuoi occhi non sono su di te a vivere ciò che sei e che hai, ma sugli altri. Il confronto distrugge, ti rovina la vita, ti fa odiare gli altri.

Un uomo che ha una grande villa con piscina, Porsche, aziende, palazzi, entrate economiche a non finire, ha detto: “Con l’entrata in vigore dell’euro è aumentato tutto e non si può più vivere”. “Tutto è relativo”, gli ho risposto. Un uomo così è destinato ad essere insoddisfatto sempre.

Molte persone non guardano a quello che hanno, ma si confrontano con gli altri. Si paragonano agli altri, si confrontano, si misurano con quello che gli altri hanno e possono. Sono continuamente fissati non su ciò che hanno, ma su quello che hanno gli altri.

Paragonarsi con gli altri è una gara persa in partenza. Lascia perdere perché ci sarà sempre qualcuno che è più di te, che ha di più, che la sa più lunga, e comunque non è questo il punto: non sono gli altri il problema, ma sono io .

Chi si paragona in realtà non si accetta. Poiché non crede di valere, si mette alla prova: “Ho più io o gli altri? Sono più intelligente io o gli altri? Sono più bravo... onorabile... cristiano... simpatico... maschio... seducente... bello... figo... io o gli altri?”. Se la risposta è “Io”, allora ci si sente orgogliosi di essere superiori agli altri: “Che forte che sono! Che figo che sono! Ma quante cose so! Nessuno può dire male di me!”. È l’orgoglio.

Se la risposta è “Gli altri”, si cade in depressione o si inizia una rincorsa ad essere/avere di più senza fine o si attacca e si giudica gli altri perché a nostro dire sono e hanno di più e per noi “non è giusto”.

Il punto in ogni caso siamo noi. Siamo noi che non ci andiamo bene; che non sappiamo gustare chi siamo e quello che abbiamo. Ci vorremmo diversi, come gli altri, vorremmo insomma quello che non c’è. Cerchiamo dell’altro perché rifiutiamo quello che c’è. Ma anche se avessimo “quell’altro” cercheremmo qualcos’altro ancora.

La grande illusione è che se avessimo più soldi, più cose, più possibilità, saremmo veramente felici. Ma di tutti coloro che ebbero di più nessuno fu mai felice. La grande illusione è che il giorno in cui saremo diversi, migliori, meno fragili, con un carattere diverso, allora saremo felici. Così la gente passa il tempo a raggiungere quello che non ha e a rincorrere ciò che non possiede. Questo è un gran business: vende bene, benissimo, perché questa idiozia è senza fine.

I nostri nonni non avevano la tv e neanche l’auto; non c’era la lavatrice e neppure il microonde; il computer non sapevano cos’era e il bagno era fuori di casa. Eppure non saprei dire se siamo più felici di loro.

Un fatto che sembra inventato, ma non lo è, racconta di un uomo appena sposato che cercava donne e intimità nelle chat in internet. La cosa lo prendeva così tanto che passava tutto il tempo a chattare o a fantasticare su possibili incontri. Ciò che è incredibile è che la moglie, dopo un anno, lo ha lasciato perché lui “non aveva tempo per fare l’amore” con lei. Incredibile, ma vero.

Così molte volte, anche noi, rincorriamo l’impossibile dimenticandoci o non accorgendoci del possibile, della realtà, di tutta la meraviglia e le possibilità che abbiamo.

Rinuncia a paragonarti. Paragonarsi risponde alla domanda: “Sono migliore io o tu?”. È una domanda che ha sempre la stessa conclusione. Se sono migliore io, tu perdi e io vinco. Se sei migliore tu, perdo io. In ogni caso c’è sempre uno che vince e uno che perde.

Chi vince si sente qualcuno, non perché lo sia, ma solo perché è più dell’altro. In carcere un uomo chiede ad un altro: “Tu cos’hai commesso?”. “Ho fatto una strage e ho ucciso 143 persone”. “Per fortuna che non sono come te – dice l’altro – io ho solo ucciso mia moglie e i miei figli!”.

Se uno è contento della propria vita non si paragona. Si può confrontare una pera con una mela? È di più la pera o la mela? Ma che senso ha? Sono due frutti diversi, punto e basta. Ma che senso ha paragonarsi, confrontarsi e farsi i conti in tasca?

Confrontarsi vuol dire che la propria vita vale niente, che non piace, che la si ritiene stupida, insignificante o senza valore.

Un uomo fece affliggere su un terreno accanto alla sua casa il seguente cartello: “Questa terra sarà regalata a chiunque dimostri di esser veramente soddisfatto”. Un ricco agricoltore che passava di lì, lesse la scritta e disse fra sé e sé: “Se questo uomo ha tanta voglia di dare via questo pezzo di terra, tanto vale che lo prenda io prima che ci pensi qualcun altro. Io sono ricco e non mi manca nulla, quindi sono la persona giusta”. Così suonò alla porta e spiegò il motivo per cui era lì. “Sei soddisfatto per davvero?”, domandò l’uomo”. “Certo che lo sono”, rispose il ricco agricoltore. “E se sei soddisfatto per davvero, a che ti serve il terreno?”.

Il confronto porta all’invidia per ciò che l’altro ha. Chi si confronta non potrà che essere invidioso. L’invidia non sopporta il potere dell’altro.

In-vidia vuol dire vedere negli altri quello che noi non abbiamo e che vorremmo avere. C’è un grande buco dentro di noi e si crede che, avendo quello che l’altro ha, si possa essere più felici, amabili, riconosciuti, ecc.

Finché guardo fuori non posso guardare dentro. Finché guardo ciò che gli altri hanno, non posso guardare ciò che ho io.

Da ragazzini si invidia gli adolescenti che hanno il motorino ed escono la sera. Da adolescenti si invidia i giovani che hanno l’auto e la fidanzata. Da giovani si invidia chi è sposato, ha la casa e fa quello che vuole. Da sposati si invida chi ha già i figli, e quando li si ha si invidia chi li ha già grandi. Poi si invidia il giorno in cui riavremo il nostro tempo e, invidiando questo e quello, la vita passa.

L’invidia è come aspettare un postino che quando arriverà non avrà nessuna lettera per te.

Gesù dice: “Perché ve ne state qui tutto il giorno oziosi?

Un uomo senza lavoro non solo è un uomo senza soldi, ma è anche senza dignità, è inutile per sé e per la sua famiglia: non può sostenere i suoi figli, non può nutrirli, non può garantirgli da vivere. Chi se ne sta ozioso al mercato, senza lavoro, non è felice, si sente superfluo. La sua vita manca di senso: non può essere utile alla sua famiglia.

Gesù vuole restituire ad ognuno la sua dignità, per questo li chiama. Gesù sente il dramma di queste persone che vagano per la piazza in cerca di lavoro. Gesù rende dignità, voglia di vivere a persone che l’hanno persa. Ma questo non interessa agli altri che guardano solo a sé. Non sanno capire né gioire di ciò che gli ultimi chiamati da Gesù hanno recuperato: la dignità.

Una volta una signora mi disse: “Beh, padre io non vengo più in chiesa. Quello lì una volta era un ladro e adesso viene in chiesa. E io? Io che in tutti questi anni mi sono sempre comportata bene... Allora anch’io potevo fare così, fare la bella vita e poi cambiare alla fine! Allora cosa serve essere cristiani?!”. Aveva mai capito, mai gustato, mai assaggiato la bellezza del Signore quella donna? No, non si era gustata il “suo denaro”. Non aveva mai assaporato la bellezza e la libertà della scelta. Se avesse vissuto ciò che aveva, alla conversione dell’altro, avrebbe detto: “Finalmente!”. “Sì, che bello, anche tu. Sono proprio contenta per te!”. Avrebbe dovuto esultare, invece ha detto: “Anche tu!”. Viveva l’arrivo dell’altro come una diminuzione di sé. Le era stato tolto qualcosa? No, è che aveva vissuto la sua fedeltà (quanto difficile le deve essere stato!) come un premio, come una medaglia: “Guarda come sono brava!”. Quando arriva l’altro che non è stato “fedele” all’insegnamento cristiano, si chiede a cosa era servita tutta la sua fatica. Così non si sente più brava, perché “il denaro”, il premio, viene dato anche a chi non lo è.

Come nel vangelo, quelli della prima ora che hanno il denaro, invece di gustare ciò che hanno, pensano a volerne di più. Chi vuole di più è perché non sa gustare, non è consapevole di quello che ha e vorrà sempre di più e questo non basterà mai.

Chi vuole di più è perché si sente di meno. Il volere di più copre proprio il buco interno che uno sente: mi sento di meno e per essere qualcuno devo volere di più.

Allora: vivi ciò che hai e non invidiare nessuno. Siamo terribilmente infelici non perché ci mancano tante cose, ma perché delle tante cose che abbiamo non sappiamo che farcene, non le gustiamo, non ce le godiamo!

Un uomo vivo gioisce della fortuna o del bene altrui, ma non l’invidioso: sta male, soffre, si rode il fegato e l’anima. (E che stia pure male!).

Alcune persone passano tutta la vita a cercare quello che non hanno.

Altre passano tutta la vita a cercare quello che hanno perso.
Alcune però si gustano quello che hanno.
I primi vivono proiettati nel futuro.
I secondi nel passato, gli ultimi nel presente.
I primi sono sempre in ansia. I secondi sempre tristi.

Gli ultimi sono felici.

Pensiero della settimana

L’orgoglio vuole: essere il primo in una gara o in un gioco; il primo nel cuore, nella stima e nelle attenzioni di qualcuno; il primo a intuire una nuova idea, una barzelletta, un discorso; il primo a dare una notizia che so che attirerà l’attenzione; il primo nella carriera, nel lavoro, nella busta paga, nella simpatia, nel gruppo; il più altruista, il più intelligente, il più brillante, il più bravo, il più bello.

L’umiltà, invece, è la prima ad accettare di arrivare secondi, la prima ad accettare di perdere; la prima ad accettare le proprie debolezze, vulnerabilità e sbagli; la prima a telefonare e a contattare le persone che non lo fanno; la prima a gioire del successo altrui; la prima a chiedere scusa, a spiegarsi, ad ammettere uno sbaglio; la prima a dare una mano senza che ci venga chiesta e la prima a chiedere una mano quando ce n’è bisogno. L’orgoglio crede di essere l’unico al mondo, per questo rimane sempre da solo e tutti lo evitano.
L’umiltà, invece, sa che siamo in tanti,
per questo ha sempre tanto amore e compagnia.

 

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