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TESTO Sarà sempre come ciò che hai dentro

Marco Pedron  

XX Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) (15/08/2008)

Vangelo: Mt 15,21-28 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Mt 15,21-28

In quel tempo, 21partito di là, Gesù si ritirò verso la zona di Tiro e di Sidone. 22Ed ecco, una donna cananea, che veniva da quella regione, si mise a gridare: «Pietà di me, Signore, figlio di Davide! Mia figlia è molto tormentata da un demonio». 23Ma egli non le rivolse neppure una parola. Allora i suoi discepoli gli si avvicinarono e lo implorarono: «Esaudiscila, perché ci viene dietro gridando!». 24Egli rispose: «Non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa d’Israele». 25Ma quella si avvicinò e si prostrò dinanzi a lui, dicendo: «Signore, aiutami!». 26Ed egli rispose: «Non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini». 27«È vero, Signore – disse la donna –, eppure i cagnolini mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni». 28Allora Gesù le replicò: «Donna, grande è la tua fede! Avvenga per te come desideri». E da quell’istante sua figlia fu guarita.

Dopo l'attraversata del lago di Genezareth (14,34) Gesù si sposta in territorio pagano. Possiamo pensare che Gesù si sposti verso un luogo dove non è molto conosciuto. Così si può riposare, può starsene tranquillo, può essere uno "qualunque", può recuperare forze ed energie.

Anche Gesù aveva i suoi tempi di recupero. A volte se ne andava da solo in montagna (14,25), a volte se ne andava lontano dalla gente, per non essere soffocato dalle aspettative degli altri.

Gesù aveva dei limiti, e lo sapeva. Sapeva di non poter convertire tutti; sapeva di non poter arrivare a tutti; sapeva, come tutti gli uomini, di avere dei limiti fisici (fame, sonno, ecc) e interiori. Per questo aveva bisogno di tempo per sé, per il Padre, di tempo per ricentrarsi e per ritrovarsi.

Se ti guardi attorno di bisogno ce n'è sempre: c'è chi soffre, chi sta male, chi è disperato. E per quanto fai, non basta mai. E più sei disponibile e più la gente, giustamente, ti chiede (sei disponibile!). Allora bisogna imparare a dire: "Signori, basta! Mi dispiace, non ce la faccio! Non posso! No! Mi prendo una pausa, una vacanza, un'ora per me". E bisogna farlo prima di esaurirsi, prima di andare in depressione.

E' vero che la gente, che il capo, gli altri, hanno a volte delle aspettative abnormi, eccessive; ma è anche vero che possiamo sempre dire: "Sì" oppure: "No". E' vero che in casa c'è sempre da fare, ma per quanto fai non basterà mai e a ben pensarci, c'è sempre qualcos'altro da fare e che dev'essere migliorato. E' vero che al lavoro c'è sempre da fare, ma a ben guardare ce ne sarebbe sempre dell'altro. E' vero che i tuoi amici hanno bisogno, ma a ben vedere avrebbero bisogno ancor di più della tua presenza, del tuo esserci e della tua attenzione.

Se ci esauriamo è colpa nostra perché non abbiamo messo dei limiti. Non ci siamo rispettati, non abbiamo rispettato la nostra natura umana limitata.

Anche perché quando siamo al limite, quando varchiamo il limite, quando facciamo di più di quello che possiamo fare cosa succede? Succede che fondiamo.

Vi ricordate le Abarth? C'erano le auto modello abarth, con un motore, cioè, "molto spinto". Sapete cosa succedeva alle abarth? Che fondevano! Andavano troppo oltre i propri limiti e le proprie capacità e poi "fondevano". E quando andiamo oltre il limite, cosa succede? Succede che siamo nervosi, irritabili, irrequieti, che ci basta un attimo per"scattare". E chi ci rimette? In genere o spesso, chi non c'entra. Ci rimettono i nostri figli, il nostro partner, chi amiamo su cui scarichiamo tutto.
Anche Gesù rispettava i suoi limiti.

Anche tu impara a rispettare i tuoi limiti. Se vai oltre i tuoi limiti non è perché ami tanto gli altri ma perché non ami te stesso e non ti rispetti. Allora a me viene qualche dubbio sul tuo amore per gli altri visto che non ami te stesso.

Il primo grande problema della chiesa fu: ma Gesù è solo nostro o è di (per) tutti? Alcuni (anche Pietro) dicevano: "No, Gesù è solo nostro; è venuto solo per noi e per i giudeo cristiani". Altri, invece (ad esempio Paolo) dicevano: "No, Gesù è per tutti".

Gesù si trova in terra completamente pagana. Tiro e Sidone erano situate nella regione pagana per eccellenza (Ger 47,4; Mt 11,21-22). Gesù si trova lì per invitare anche i non circoncisi (cioè i non ebrei) alla tavola del suo regno. La circoncisione era il segno distintivo dell'alleanza di Israele con Dio (Gn 17,9-14).

La donna che incontra è una ellenica (Mc), una Cananea (Mt). Gli ellenici erano la classe al potere; erano considerati inferiori dai Giudei ma erano superiori in quanto a soldi e benessere. Da Mc comprendiamo ancor meglio che è una donna ricca e agiata (Mc 7,30 usa il termine kliné "letto", segno di ambiente signorile invece del comune krabatos "giaciglio", tipico delle classi modeste).

La donna si rivolge a Gesù: "Mia figlia è tormentata crudelmente da un demonio" (15,22). Ma Gesù non le rivolge neppure una parola! (15,23).

Gesù si mostra indifferente, crudele di fronte alla richiesta della donna. Gesù le dice: "Non mi interessa; non è un problema mio! Non mi seccare! Non mi rompere!". E' difficile comprendere quest'atteggiamento, che non ci aspetteremo, da Gesù. In ogni caso è Gesù, e Gesù ha fatto anche così. Non è secondo la mia immagine di Gesù (sempre buono, disponibile, terapeuta di tutti, carino, ecc) vederlo che dice: "Che rottura di donna! Lasciami stare! Non me ne frega!".

Possiamo pensare a diverse funzioni di questa sua risposta ma rimane la realtà di una risposta secca e rifiutante.
Per me Gesù lo fa per sottrarsi all'aspettativa della donna.

La donna va da Gesù e gli dice: "Mia figlia sta male, guariscimela tu!". Ma è un controsenso. Perché andare da qualcun altro a chiedere la guarigione quando sei tu che hai la malattia? "Chi è l'ammalato?". "Io". "E perché vieni da me a chiedermi la guarigione?". Se sei tu l'ammalato, sei tu che devi guarire e trovare il cambiamento che ti porta verso la tua guarigione.

Succede spesso che la gente dice: "Io ho questo problema, cosa devo fare?". E' un modo per deresponsabilizzarsi, per non faticare; in fin dei conti per non operare cambiamenti. Ma è il tuo problema e sei tu che devi trovare le tue risposte al tuo problema.

Ancor peggio è quando qualcuno dice: "Ma me l'hai detto tu!". "Primo: non è possibile che io ti dico cosa fare. Al massimo faremo insieme chiarezza, ma mai ti dirò cosa fare. Secondo: ma tu non hai una testa tua? Sei così parassita da fare quello che ti dico io (cosa non vera) per poi scaricare su di me la tua colpa?".

Per me Gesù le dice: "Se la metti così, non ne parliamo neanche". Se tua figlia è ammalata è perché fra te e lei c'è un problema di relazione. Lì devi lavorare e non chiedere a me la soluzione magica.

Gesù addirittura la offende: "Non è bene prendere il pane dei figli per gettarlo ai cagnolini" (15,26). Gesù le dice: "Tu sei un cane e niente pane ai cani!". E' un'offesa forte, dare della "cagna" a questa donna che si presenta a Gesù buttandosi per terra, chiedendo aiuto (15,25), con tutto il suo carico di sofferenza, di dolore, di dramma, di disperazione.

Dobbiamo chiederci: ma perché Gesù è così rigido, duro, "cattivo", spietato? E' proprio necessario? Sì, in certe situazioni, bisogna essere tremendamente "cattivi" altrimenti l'altro non si smuove. In certe casi la situazione è così radicata, fossilizzata, sclerotizzata che solo uno strattone può cambiare qualcosa. In certi casi il costo del cambiamento è così alto e difficile da sostenere, la verità da vedere è così sconvolgente che non si può andare "con le buone", perché per affrontare certe verità bisogna essere molto motivati. Allora si gioca il "tutto per tutto", si è duri, altrimenti si è semplicemente inefficaci.

Se sono buono solo perché ho paura di ferire l'altro e che mi possa poi ritirare il suo amore, allora la mia "bontà" è paura. Se ti amo, per amore, saprò anche metterti di fronte a ciò che non vuoi vedere.

C'è un uomo alcolista. Con gli alcolisti bisogna essere terribilmente duri e "cattivi". La moglie gli ha detto: "Se tocchi il bicchiere un'altra volta, anche solo per un goccio, ti butto fuori di casa". Ha bevuto un goccio, solo un goccio e lei lo ha buttato fuori di casa. Bisogna fare così, perché se si concede un goccio oggi, domani è un bicchiere e dopodomani una bottiglia. Ma lui ha capito. L'amore, a volte è "duro", ma è necessario.

La donna, però, capisce. Non si ferma al "no" né alla durezza della risposta. Avrebbe potuto dire: "Beh, se mi rispondi così, vuol dire che non vali niente come maestro. Un vero maestro non risponderebbe così, né si permetterebbe di dire certe cose".

La donna, invece non fa l'offesa e capisce: "E' vero Signore, ma anche i cagnolini si cibano delle briciole della tavola dei loro padroni" (15,27).

Lei, pagana, è ricca, ha cibo e pane in abbondanza. I Giudei sono senza pane e cibo. Eppure anche loro hanno diritto al pane, almeno alle briciole per poter sopravvivere.

Adesso la situazione è rovesciata: i Giudei hanno il pane (la salvezza, Gesù) e lei no. Eppure anche lei ha diritto alla salvezza, a Gesù, tanto come loro.

La donna capisce: è ingiustizia che Gesù non la degni della sua attenzione; è ingiustizia che, mentre lei ricca può permetterselo, altre persone muoiano o soffrano per la fame.

La donna non vede più solo se stessa, il proprio dolore, il proprio problema, il proprio disagio, ma "deve" accorgersi che anche altri, proprio a causa sua, soffrono e stanno male.

Questo vangelo mi aiuta a non assolutizzare il mio male, il mio dolore e i miei problemi. La donna vede il suo dolore ma non vede l'ingiustizia che giornalmente viene fatta. Questo vangelo mi aiuta a guardare a tutte le ingiustizie e a non mettere l'occhio solamente in quelle che capitano a me.

Una donna ha detto: "Ho pregato tanto e il Signore mi ha ascoltato: ha fatto cadere tutte le bombe dall'altra parte della città!".

C'è qualcosa che fa veramente riflettere. La bambina è malata, ma Gesù non guarisce la bambina. Gesù non la tocca, come fa altrove, addirittura neppure la vede.

Ammalata è la figlia, ma guarisce la madre. E' chiaro: è la madre che con il suo modo di rapportarsi alla figlia, l'ha resa così, l'ha ammalata, la resa in queste condizioni. Anzi alla fine le dice: "Ti sia fatto come desideri" (15,28), cioè: "Ti sia fatto com'è nel tuo cuore, dentro di te", "Sarà fatto, avverrà come quello che hai dentro". Per cui curati di ciò che hai dentro (della tua relazione con tua figlia) perché sarà come desideri (come ciò che hai dentro).

E' impossibile per noi dire quale fosse la situazione di quella famiglia, ma possiamo osservare varie cose.

Innanzitutto non c'è il padre. Il padre nella famiglia ha il compito di staccare il figlio dalla fusione con la madre. Nei primi anni di vita è la madre il centro della vita del figlio: lei è accoglienza, casa, rifugio, rifornimento affettivo, amore. Inevitabilmente (e per fortuna!) il figlio si attacca alla madre. Poi interviene il padre che gradualmente stacca il figlio dal legame "unico" madre-figlio così che il figlio possa fare la propria vita e la propria strada.

Ma qui il padre non c'è. Dov'è? Non sappiamo. Ma sappiamo che quando il padre non c'è allora il figlio si trova in una posizione difficile: da una parte sente il richiamo della vita ad andare, a lasciare la casa, dall'altra sente il dolore della madre che si ritrova sola se lui se ne va. Se ci fosse il marito questi potrebbe sostenere sua madre, ma non c'è. Se ci fosse il papà potrebbe insegnargli l'autonomia, l'andare nel mondo. Ma non c'è.

Ciò che insegna un padre non può essere insegnato dalla madre e ciò che insegna la madre non può essere insegnato dal padre. Altrimenti Nostro Signore non ci avrebbe dato due genitori se ne bastava solo uno.

Quello che un genitore non fa non lo può fare l'altro. Il padre dona l'energia e i valori maschili (se li ha!) e la madre l'energia e i valori femminili (se li ha!). Ogni mancanza non può essere sopperita. Ogni mancanza è un buco.

Se il padre non c'è allora potremo pensare che la donna abbia investito tutto sulla figlia. Sarebbe allora una donna che cerca di sopperire a chi non c'è, che non vive neppure la propria vita tanto è presa dalla figlia, che è tutta addossata e concentrata sulla sua (unica) creatura. Ma così facendo la soffoca.

Il demonio della figlia, allora, sarebbe la madre che vive in funzione della figlia. Ma troppo amore è fatale tanto quanto la mancanza d'amore.

Poi si dice "mia figlia" (15,22). Quel "mia" dice un possesso, una proprietà.

La donna sente che sua figlia è un prolungamento di sé, la sente sua, sente che la figlia continuerà o farà ciò che lei non ha fatto o vissuto, e rimette grandi aspettative nella figlia. Usa la figlia per sé.

Una madre ha sofferto tanto perché non le era permesso niente. Così adesso, in sua figlia, si prende la sua rivincita e le lascia ogni libertà. Ma così facendo usa sua figlia.

Un'altra donna si sentiva terribilmente sola. Sua figlia, l'unica, è il tutto che ha. Ma sua figlia si sente il dovere di far felice sua madre, sa che lei è la sua felicità. E' troppo pesante per un figlio!

Un'altra donna porta sua figlia a tutti i concorsi di bellezza: in sua figlia si vede bella e attraente anche lei.

Mt dice che la figlia è "crudelmente tormentata da un demonio" (15,22). Letteralmente il verbo (daimonizomai) vuol dire "essere posseduti, avere un demonio dentro". Ma da cosa è posseduta la figlia? Cos'è che le è entrato dentro e che la rende così inquieta, tormentata, "impossibile" da gestire?

Per la Bibbia un demonio è qualcosa che ti entra dentro per cui tu non sei più tu, per cui tu ti comporti come se fossi un'altra persona, come se un altro dentro di te agisse per te.

Più sotto viene chiarito tutto: "Non è bene prendere il pane dei figli per gettarlo ai cagnolini" (15,26).

E' chiaro: la madre non la nutre come dovrebbe, come la figlia ne avrebbe bisogno. La sua "malattia" non è nient'altro che la protesta per la "fame" d'amore che vive.

La madre ha altri "cagnolini" su cui gettare il suo amore; la madre è troppo presa da sé, dalle sue paure, dal dover apparire una brava madre, che non rifornire affettivamente la figlia. La madre ha bisogno del lavoro per realizzarsi. La madre ha bisogno dello shopping, di tempo per sé, di accontentarsi, perché non trova soddisfazione dall'essere madre. La madre ha bisogno di farsi bella, di apparire sempre giovane e attraente. La madre insomma toglie il pane dell'amore alla figlia che ne rimane senza. Per questo la figlia protesta: ha fame d'amore. Tutto qui.

Ciò che è chiaro è che la figlia soffre perché la madre non la nutre secondo il bisogno della figlia. Ciò che è chiaro è che la figlia sta male perché la madre si rapporta in maniera non sana.

Vi possono essere tantissime variabili per cui i figli soffrono per "mancanza di cibo" materno.

Una bambina nasce proprio quando i suoi genitori stanno vivendo una profonda crisi. Lei percepisce tutto questo e come reazione non mangia. Sente che la mamma è presa da altri problemi e non la può nutrire affettivamente così come ne avrebbe bisogno. Sente che è la madre che ha bisogno di nutrimento (che non arriva dal marito) e per questo lei non mangia.

C'è una donna che ha la sensazione che nessuno la possa veramente amare. In realtà incontra tanti uomini e molti di questi veramente la amano, ma lei ha bisogno sempre di qualcosa di più.

Sua madre aveva paura di perdere suo padre e in quella situazione è nata lei. E' chiaro che nel suo profondo lei si sente usata: è stata lo strumento con cui sua madre ha trattenuto suo padre.

C'è una donna che è stressata dal lavoro e dal suo modo di concepire la vita (la casa dev'essere sempre in ordine, tutto dev'essere a posto, i vestiti sempre ben stirati, ecc). Il figlio piccolo, poi, è irrequieto e non la lascia dormire di notte. Così diventa aggressiva e lo picchia. Poi si sente in colpa e lo colma di attenzioni, di giocattoli e di tutto quello che vuole.

Un'altra donna ha fatto di sua figlia la sua confidente. Si allea con la figlia contro il padre. E' chiaro che il problema con il marito è suo, ma così facendo (due contro uno) si sente nel giusto. Ma cosa potrà pensare quella figlia degli uomini, se sono così come la madre li descrive?

Una volta nelle famiglie c'erano molti figli. Così poteva capitare che la madre dopo quattro, cinque o sei figli, non ne poteva più. Così chi nasceva non era proprio né ben voluto né molto desiderato.

Per risolvere la situazione Gesù non cura la figlia, ma la madre. E quando la madre è curata, la figlia guarisce. Quando un bambino ha un problema (il vangelo ce lo mostra spessissimo) chi dev'essere curato è il genitore.
E notate: "Da quell'istante sua figlia fu guarita" (15,28).

Ciò che è meraviglioso è che la donna riconosce la verità: "Sì, è vero, tutti hanno bisogno di cibarsi d'amore. Nessuno può rimanerne senza, neppure i cani. E io, forse, senza volerlo ho trascurato mia figlia".

La donna riconosce l'errore; la donna riconosce la sua mancanza. Non l'ha fatto per cattiveria, a posta, di proposito. Forse neppure se ne è resa conto. Di certo lei ama e vuole amare tantissimo sua figlia. Non è in gioco il suo amore; Gesù non giudica il suo sentimento. Gesù non le dice: "Tu non ami tua figlia", ma "il tuo amore (il tuo modo d'amare) la lascia senza amore".

E' quest'umiltà che salva la madre e la figlia. La donna dice: "E' proprio vero, facendo così lascio mia figlia senz'amore. Ma guarda te: io pensavo di darle tanto e invece, non la nutro". E' l'umiltà di accettare di sbagliare e di non sentirsi distrutto come persona.

Quanti problemi dei nostri figli (e nostri!) scomparirebbero se solo avessimo l'umiltà di metterci in gioco, di accettare che sbagliamo il nostro modo d'amare, non perché siamo cattivi o sbagliati, ma per la nostra storia, per i nostri limiti, per l'amore a nostra volta non ricevuto, per le ferite della vita, per pregiudizi e idee false che abbiamo in testa. Non c'è niente di più grande di chi può dire: "E' vero, ho sbagliato!". Salveremo e ci salveremo da tanti dolori e sofferenze.

Noi ci crediamo genitori perfetti. Il nostro mito e il nostro modello è che un figlio possa dire di noi: "Mio padre, mia madre, sono stati perfetti, mi hanno dato tutto e non hanno sbagliato in niente".

In realtà nessun genitore è perfetto perché la vita è per se stessa imperfetta.

Quando ci accorgiamo che i nostri figli soffrono a causa nostra, ci sentiamo in colpa e neghiamo con tutto noi stessi questa verità. Non accettiamo di essere imperfetti. D'accordo non è né bello né piacevole vedere che oltre all'amore abbiamo ferito i nostri figli. Non vorremmo mai vedere questo. Ma questo accade semplicemente perché nessuno sa amare in maniera perfetta. Ognuno fa quello che può. Però si può cambiare, migliorare, crescere, se lo si vuole.

Se accettassimo che noi diamo un sacco d'amore ai nostri figli; se accettassimo che ognuno fa quello che può, fa' quello che è capace, fa quello che è in grado di fare; se potessimo vedere e percepire tutto il bene che doniamo a loro, potremo anche accettare di fare degli errori, e non sarebbe così grave. Potremo accettare che a volte non li nutriamo e non incontriamo i loro veri bisogni, ma possiamo cambiare. Potremo accettare che a volte pensiamo più a noi che a loro, ma che l'importante è esserne consapevoli. Potremo accettare che il nostro amore non è sempre amore, e così cambiare.

Io guardo con profondo rispetto e stima questa donna che ha saputo riconoscere il suo errore: e per questa sua umiltà, sua figlia, è stata salvata ed è guarita. E voglio imparare da lei.

"Gesù, amo mio marito (mia moglie), i miei figli, i miei amici. Se qualcosa del mio rapporto dev'essere cambiato, fammelo vedere, trattami anche con durezza, come quella donna. Non è in gioco tutto l'amore, ma solo la possibilità di amarli ancor di più. Mantienimi sempre umile così che io possa riconoscere dove il mio amore deve crescere".

Pensiero della settimana
Bussarono alla porta. La Paura sentì ed andò ad aprire.
Aprì e... fu divorata dal mostro.
Bussarono alla porta. La Fiducia sentì ed andò ad aprire.
Aprì e... non c'era nessuno.

 

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