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Marco Pedron  

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XX Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) (17/08/2008)

Vangelo: Mt 15,21-28 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Mt 15,21-28

In quel tempo, 21partito di là, Gesù si ritirò verso la zona di Tiro e di Sidone. 22Ed ecco, una donna cananea, che veniva da quella regione, si mise a gridare: «Pietà di me, Signore, figlio di Davide! Mia figlia è molto tormentata da un demonio». 23Ma egli non le rivolse neppure una parola. Allora i suoi discepoli gli si avvicinarono e lo implorarono: «Esaudiscila, perché ci viene dietro gridando!». 24Egli rispose: «Non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa d’Israele». 25Ma quella si avvicinò e si prostrò dinanzi a lui, dicendo: «Signore, aiutami!». 26Ed egli rispose: «Non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini». 27«È vero, Signore – disse la donna –, eppure i cagnolini mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni». 28Allora Gesù le replicò: «Donna, grande è la tua fede! Avvenga per te come desideri». E da quell’istante sua figlia fu guarita.

Il vangelo racconta di una madre che è in ansia per la sorte della figlia.

Il vangelo racconta spesso di ragazzi che devono diventare uomini o donne e che sono bloccati, posseduti o morti (Mt 15,21-28; Mc 5,35-43; 9,14-27; Lc 7,11-17).

In tutti questi racconti si vede l'ansia, la preoccupazione e la paura dei padri e delle madri nel lasciar andare i propri figli. Si vede la paura di perderli e la paura che si perdano. I padri e le madri del vangelo, come i padri e le madri di ogni tempo, vorrebbero proteggerli da tutto, preservarli da ogni pericolo, garantirgli la felicità.

In tutti questi racconti si vede l'ansia, la preoccupazione e la paura dei figli nell'andare. C'è la paura di questi ragazzi di diventare grandi: la paura di fare la propria strada e di prendersi le proprie responsabilità; di farsi la propria vita, di mettersi in prima linea e di lasciare il nido caldo e protettivo; la paura di deludere o di non essere approvati; la paura di ritrovarsi da soli con le proprie scelte e di non avere qualcuno dietro che li tiri fuori dalle situazioni difficili.

Il vangelo chiama "possessione" questa cosa: le persone che vorrebbero uscire – e questo sarebbe la naturalità delle cose – e che si trovano come imprigionate da un'altra forza (ecco il demonio che la possiede), che si trovano legate. Da una parte la vita le chiama ad andare (e fa paura questo!) ma dall'altra il clima familiare, l'educazione, i genitori, le trattengono, le soffocano, impediscono loro di esprimere le loro risorse o accentuano la loro paura.

Il miracolo è uscire da queste gabbie perché lì dentro si soffoca e si muore. E aggiunge il vangelo: "E non è neppure facile uscire da questo essere posseduti e ritrovare la propria libertà". Certe malattie sono il risultato di questo passaggio non avvenuto. Questa è anche la situazione di questa figlia che il vangelo racconta. In tutti i tipi di rapporto può bloccarsi questo percorso di liberazione: tra figli e genitori, ma anche tra sposi o tra amici. Possessione è quando accanto alla nostra fatica di crescere, di prendere in mano la nostra vita e di prenderci le nostre responsabilità, di fare un passaggio nella vita, di lasciare qualcosa per prendere qualcos'altro, qualcuno, invece di aiutarci ad uscire, ci trattiene: "Rimani qui, non te ne andare, se te ne vai mi farai soffrire".

Allora noi siamo imbrigliati: da una parte c'è chi ci amiamo, c'è chi abbiamo paura di ferire, di far star male. Ci sentiamo in colpa perché andandocene sappiamo che lo faremo soffrire, sappiamo che si sentirà un po' solo, ma dall'altra sentiamo la forza della vita che ci chiama a diventare ciò che dobbiamo diventare, a diventare noi stessi, a seguire la strada della Vita, a fiorire, a svilupparci e ad evolvere.

Mi ritrovo incastrato: vorrei andare ma una forza mi trattiene, mi ferma, mi possiede. Lasciare il nido è già molto difficile: a casa, nel nido si stava bene, tutto era assicurato e si era protetti. Nella pancia della mamma si sta così bene! Lasciarla è un vero trauma ma bisogna farlo. Ma viene un giorno in cui gli uccelli non possono più stare nel nido perché sono troppo grandi, perché se non se ne vanno non diventeranno indipendenti e non ce la faranno a vivere, a volare.

Cioè: è già molto difficile e ci fa così paura uscire dal luogo di protezione che è la casa (o fare certe scelte di uscita), perché non sappiamo se ne avremo le forze, abbiamo tutte le paure del mondo, non ci sentiamo (e non lo siamo!) ancora pronti: se poi qualcuno ci trattiene lì, il salto è ancora più rischioso!

Nel vangelo Gesù ha appena discusso con i farisei su che cosa sia puro e cosa non lo sia. I farisei ne facevano una questione formale, di regole, di leggi. E Gesù aveva tagliato corto: "Non sono le cose o i comportamenti puri o impuri è il cuore, è l'intenzione con cui fai le cose che le rende tali".

Essere in chiesa non è bene o male, non sei bravo perché sei qui. Dipende dal tuo cuore, da ciò che hai dentro, da ciò che vivi, dalle tue intenzioni. E questo vale per tutte le cose.

E poi aggiungeva: "Se un cieco guida un altro cieco entrambi cadono nei fossi". Per dire: "Molti dei vostri sacerdoti sono ciechi, non vogliono vederci e guidano anche voi nel baratro. Aprite gli occhi!". E siccome questa gente perbene e così religiosa non voleva vederci, Gesù se ne andava perché non voleva perdersi in inutili conversazioni o disquisizioni, lui voleva la conversione del cuore. Se uno non vuole vedere, non vedrà.

E dove va Gesù? Va proprio in un territorio pagano, a Tiro e Sidone. E – che ironico che è il vangelo! – guarda caso proprio qui troverà la fede.

Lungo la strada Gesù incontra questa donna che gli chiede aiuto, ma Gesù neppure si degna di ascoltarla e continua per la sua strada. Non vi dà fastidio? Non sarebbe più bello che Gesù la accogliesse subito, che la ascoltasse come faceva con tutti, che fosse buono con lei. E invece no!

Potessimo imparare da Gesù. Quando qualcuno ha un problema spesso noi ci prodighiamo per risolverlo. Facciamo bene ma non sempre.

Perché a volte le persone non vogliono guarire, non vogliono cambiare, vogliono solo non soffrire più. Se noi interveniamo subito facciamo noi ciò che dovrebbero fare loro. E' un po' come quei genitori che fanno i compiti del figlio. Ma che senso ha? Il genitore sa già fare quelle cose, non è lui che deve imparare. E' più sano che li faccia male il figlio, che li sbagli, piuttosto che li faccia bene io genitore. Non vi pare? Perché il giorno in cui non ci saremo più, chi glieli farà?

Inoltre le persone confondono il pio desiderio di uscire dalle situazioni dal reale desiderio, dal volerlo davvero. Quante persone sono venute e hanno detto: "Voglio che qualcuno mi aiuti perché voglio uscire da questa situazione"?. Allora gli si fa una proposta, gli si propone una guida e gli si dice di ritornare fra una o due settimane se lo vogliono ancora. La maggior parte non è tornata. Desideravano, gli sarebbe piaciuto ma non lo volevano davvero.

Non basta desiderare di cambiare, di uscire da certe situazioni, avere l'intenzione di. Bisogna essere consapevoli, accettare ciò che vuol dire tutto questo e agire. Tutti quelli che "si fanno" dicono che non lo faranno più. Lo desiderano ma non è sufficiente. Tutti quelli che bevono dicono che l'ultimo bicchiere è stato davvero l'ultimo.

Se Gesù l'avesse esaudita subito, questa donna si sarebbe inginocchiata? Avrebbe cioè desiderato con tutto il cuore di guarire, sarebbe, insomma, stata disposta a tutto pur di guarire da quella situazione?

Gesù qui è davvero irritante, scandalizzante, maschilista. La sua risposta è settaria: "Questi li guarisco, voi no, perché non siete dei nostri". Ma che Gesù è questo? Ma non si era appena scontrato con i farisei sulla questione di ciò che è puro e impuro? E non è contraddittorio ciò che fa?

Anche Gesù, in questo vangelo, deve superare un certo pregiudizio della propria tradizione e cultura. Al tempo di Gesù i pagani venivano definiti come dei "cani": noi ebrei siamo il popolo eletto, l'esclusivo di Dio, e gli altri sono di serie B. I Midrash dicono che dare del cane ad uno esprimeva il disprezzo più grande e più astioso (Gesù lo fa!).

Anche Gesù ha dovuto ridiscutere quelle idee date per scontate della propria cultura. Io nasco in una cultura e in un ambiente, ma devo vagliare ciò che mi è stato trasmesso per non vivere di pregiudizi. Libertà è mettere in discussione la propria tradizione, quella familiare e quella religiosa.

Qui Gesù deve ricredersi sulla donna e sui pagani, deve imparare, deve rivedere le proprie posizioni. Anche Gesù ha imparato, non aveva la scienza infusa, non aveva internet in testa per cui sapeva cosa fare in ogni momento; non aveva filo diretto con il paradiso. Alla fine Gesù sembra quasi sorpreso, colpito, meravigliato. Come se dicesse: "O donna, mi hai conquistato, non avrei pensato, non l'avrei detto. Forse mi sono sbagliato sul tuo conto".

Qui cogliamo un'altra delle caratteristiche di Gesù.

Gesù fu un uomo elastico, aperto. Se c'è da cambiare idea (e qui c'era da cambiare!) la si cambia.

Il contrario è chi rimane sempre sulle sue posizioni, chi non si mette mai nell'ottica che le cose possono essere diverse, che i tempi mutano, che le persone e le opinioni cambiano. Chi non cambia mai vive in superficie. Non vuole fare la fatica di cambiare.

La morte è rigidità, staticità, sepoltura, imbalsamare le cose e le persone. La vita è mutazione, scorrere, divenire. Niente è mai tutto uguale. Oggi non è ieri. Quest'estate non è quella dell'anno scorso. Nessun albero è uguale ad un altro. Il mio compagno, papà, figlio, se lo guardo attentamente, non è quello di sei mesi fa. Tutto diviene.

Crescere è lasciarsi mettere in discussione. Chi cambia è sempre giovane. Chi cambia non si annoierà mai. Chi rimane sempre lo stesso è già vecchio. Chi rimane sempre lo stesso troverà scontata questa esistenza.

Ma il personaggio centrale del vangelo è la donna Cananea, una donna straziata dalla sofferenza. E' difficile per noi capire quale fu la situazione storica che qui viene raccontata ma osservando i particolari, la situazione e lo svolgimento, noi possiamo intuire cosa può essere accaduto.

La donna va da Gesù perché sua figlia è ammalata. Si sente in ansia per sua figlia. Questa donna ama sua figlia, non c'è dubbio, ma l'amore non basta. Bisogna vedere come si ama.

La figlia è ammalata e la madre dice: "Pietà di me!". La madre chiede perdono di sé o per sé? O questa madre è stanca di ciò che la figlia le fa', della situazione che le crea, perché il suo modo di comportarsi (della figlia) le creano una vita d'inferno; oppure chiede perdono perché si rende conto che se sua figlia è così lei ne è colpevole, lei c'entra.

Una quindicenne non mangia più (malattia evidente). Diventa magra, smunta. La vita diventa un incubo. Bisogna controllarla, seguirla, starle sempre addosso, vicina, farle mille domande. Si diventa soffocanti, apprensivi, si soffre terribilmente per noi e per lei. Potrebbe essere simile alla situazione di questa donna: non ce la si fa più. Allora si va a chiedere aiuto e si scopre che la prima persona che ha bisogno di aiuto siamo proprio noi (la malattia nascosta). Se la madre cambierà, guarirà, anche la figlia potrà farlo.

Il vangelo suggerisce che l'origine o la causa della malattia abbia il fondamento nella madre. Quando lei guarisce anche la figlia guarisce.

E come da questa donna è venuta la malattia, così viene anche la guarigione.

Leggendo questo vangelo mi è venuta agli occhi una situazione reale. Padre, madre e figlia. Il padre inesistente: tutto lavoro e amici del bar. La madre insicura, timida e impaurita da tutto. La figlia è l'unica cosa che ha, sulla quale ha potere e dalla quale è riamata. C'è un rapporto del tutto particolare, speciale tra loro due. Questa sua figlia è il suo futuro, il suo orgoglio, la sua ambizione, il suo sostegno, la sua speranza. Insomma tutto quello che ha. Allora tutta l'ansia del mondo e la preoccupazione sono su di lei. Ma è proprio tutto questo amore la malattia della figlia. Ma è proprio questa iper-protezione che crescendo fa reagire la figlia: si ribella a sua madre, la prende in giro, fuma, ha piercing dappertutto e manifesta comportamenti devianti. La figlia sta tentando di ribellarsi a sua madre, di dirle che lei è lei, e che sua madre è sua madre, che sono due persone diverse e distinte. Ma sua madre si sente offesa e anzi le risponde: "E' questa la tua riconoscenza con tutto il bene che ti voglio?". Sua madre adesso le "passa tutto", la va bene ogni cosa, perché ha paura di perderla. Tutta compita e con aria addolorata, è attenta ad ogni sua mossa e le chiede tutto sempre e le fa diecimila raccomandazioni. La figlia la manda regolarmente a quel paese e il circolo vizioso continua.

Da piccola non la faceva giocare fuori in strada perché era troppo pericoloso. Alle attività parrocchiali non la mandava perché: "Cosa non si impara in quelle settimane!". A scuola la accompagnava sempre "perché potrebbe trovare qualche sconosciuto". E siccome la figlia aveva mille paure ("Ma per forza, non le dai un briciolo di autonomia!"), la madre si sentiva ancor più investita dal starle vicino.

Ad un certo punto la figlia si ribella e rifiuta la madre. La madre si sente tradita e le pare di non riconoscere più la "sua figlioletta" tutta ubbidiente, carina e brava. Le pare che davvero abbia un demonio.

Ma fu proprio questo tormento la salvezza di entrambe: la madre capì che non poteva vivere in funzione della figlia. Capì, dopo una serie di incontri, che poteva tentare di dare un po' di fiducia a sua figlia, che forse non era così pazza, malata, falsa e cattiva con lei, come le sembrava. Capì che sua figlia poteva iniziare a pensare da sola a sé e che tutta la sua ansia era soffocante per la figlia. Capì che sua figlia le stava comunicando qualcosa.

Dopo un po' di tempo lasciò il marito e trovò un po' di sicurezza e stima in sé. E diventando autonoma lei, anche la figlia non ebbe più bisogno di odiarla per trovare un po' di aria, di spazio vitale. Riuscirono a recuperare il rapporto e anche le devianze della figlia rientrarono. Erano guarite entrambe! Era venuta da me per sua figlia, perché aveva un problema e invece capì che il problema ce l'aveva lei. E tornò a vivere non più per sua figlia ma per lei. E cambiando il suo comportamento, il suo animo, anche la figlia guarì.

Questo è l'atto di amore più grande: quando un genitore si accorge di aver sbagliato nel modo in cui ha amato suo figlio e, riconoscendo tutto questo e grazie a tutto questo, cambia vita. In quel momento il figlio diventa involontariamente un maestro, un dono, per il suo genitore. Perché i nostri figli sono i nostri specchi e guardandoli noi possiamo vederci. Perché i nostri figli, se li ascoltiamo, ci smascherano e ci fanno vedere la realtà di ciò che siamo. Perché i nostri figli ci salvano, se abbiamo l'umiltà di non credere già come si fa ad essere genitori.

Ci sono tante con-fusioni che ammalano. Spesso, come questa ragazza, si soffre di confusioni non nostre, di difficoltà di altri, di situazioni in cui ci ritroviamo senza volerlo.

Una madre è troppo debole, troppo insicura, troppo sottomessa. La figlia lo percepisce e, per amore della madre, non esprime tutta la sua forza interna.

Una donna ha vissuto in casa con un padre autoritario e violento. Oggi dopo un po' lascia tutti gli uomini adducendo motivi stupidi. Nel suo profondo ha ancora paura del padre che rivede in ogni uomo. E suo padre oggi s'arrabbia con lei: "Ma come mai non ti va bene nessuno?".

Una ragazza aveva un rapporto bellissimo con il padre. Lui e lei formavano una coppia sola. La madre era presa dalla casa. La figlia non si sposa. Perché? Perché dentro di sé era già sposata (con suo padre) e non c'era spazio per un altro uomo.

Una donna ha vissuto con una madre fragile e indecisa. Così sua figlia con il tempo è diventata madre di sua madre. Se ne prende carico come fosse sua figlia, ma è sua madre. E questa funzione "materna" la fa in tutte le relazioni. E infatti è una persona soffocante perché non è mai stata figlia: si comporta con ansia, con mille attenzioni e premure (eccessive: "Ti toglie l'aria"!) per tutti. Deve recuperare il suo ruolo: figlia di sua madre e madre solo dei suoi figli (non di suo marito o degli altri).

Un ragazzo è diventato partner di sua madre. Il padre se ne è andato con una un'altra donna e lui ha fatto dentro di sé una promessa: "Ci sarò sempre io per te". E' sposato ma sua moglie non è la "prima donna".

Molti genitori fanno i "compagni" dei loro figli: i figli raccontano tutto ai genitori e viceversa. Quando i figli sono adulti può anche funzionare, ma attenzione quando i figli sono piccoli. Dev'essere chiaro che io sono il genitore e lui è il figlio e che il rapporto non è simmetrico, allo stesso livello, altrimenti non c'è più educazione!

La vita di ciascuno è unica. Vuol dire che ciascuno è responsabile della sua vita. Ciascuno ha il suo posto e non si possono confondere i posti o i ruoli. Perché quando si confondono i ruoli, anche se lo si fa per amore, allora nascono le malattie relazionali, fisiche e dell'anima (spirituali).

Ognuno ha il suo posto e se sborda fa danni. Il genitore deve fare il genitore; il figlio il figlio. Il marito è partner della moglie e non figlio né padre.

Quando i ruoli non vengono rispettati allora si sottraggono le persone alle loro responsabilità, alle loro fatiche ma anche alle loro energie.

Allora un figlio, ad esempio, perde i suoi riferimenti. Chi è il padre in casa mia? Chi è la madre? Chi è che controlla? Chi mi dà amore? Chi mi contiene?

Se non ci sono più riferimenti, paletti, figure chiare, allora il bambino soffre di disordine mentale ed affettivo. Se non si rispettano i ruoli, ci carichiamo (o scarichiamo) di compiti e doveri che non sono i nostri e che ci schiacciano, ci distruggono, ci tormentano come se avessimo un demonio.

Potremmo fare l'esempio dell'auto: è il genitore che guida l'auto. I figli se ne stanno dietro e giocano, se la raccontano, ascoltano musica, parlano. Ma chi guida, chi ha il volante, chi decide dove andare è il genitore. Se i ruoli si invertono prima o poi l'incidente è inevitabile.

Noi maschi spesso abbiamo un'immagine della donna (e loro stesse vi si identificano) come di una creatura dolce, malleabile, tenera, domestica e disponibile. Ma questa non è l'immagine della donna, e di molte altre donne del vangelo. La donna di questo vangelo è decisa, forte, cocciuta, determinata.

Va da Gesù e gli grida dietro. E lui se ne va per la sua strada. Cos'avreste fatto voi? Non vi sarebbe già bastato questo rifiuto? Ma lei no, lei continua a seguirlo.

I discepoli la giudicano. Non vi sareste sentiti umiliati e svergognati, offesi e indignati? Non vi sarebbe bastato sentirvi derisi, delle "seccature, degli impicci", per smettere di chiedere? Ma lei non si arrende. Va da Gesù, si butta a terra e implora. E lui le dice ancora di no.

"Ma cosa vuoi da me?". Non vi sarebbe venuto in mente di maledirlo e di non volerne più sapere di lui? Non vi sareste sentiti delusi da quest'uomo che sosteneva che tutti erano uguali? Ma lei continua.

Questa donna non teme il giudizio, non teme l'impopolarità, non teme la derisione. Questa donna è un'eroina, una lupa, una donna selvaggia che non si arrende e che per questa sua energia otterrà ciò che vorrà. E' perché vuole con tutta se stessa la guarigione della figlia (che non avverrà come lei magari pensava!) che l'avrà. E' perché è disposta a tutto, anche di cambiare lei stessa, che sua figlia guarirà.

Nel Padre Nostro Gesù ci raccomanda di pregare: "Sia fatta la tua volontà". Ma qui viene capovolto tutto: "Donna, sia fatta la tua volontà. Ti sia fatto come desideri".

Un uomo ha fatto questo sogno. Era davanti ad un saggio e gli diceva: "Sia fatta la tua volontà". "Non posso - diceva il saggio - perché tu non ci credi!".

C'è una storia che racconta di un uomo che si era perso nel deserto. Esaurita la scorta di viveri e d'acqua, si trascinava penosamente sulle ghiaie roventi. Improvvisamente vide davanti a sé delle palme e udì un gorgoglio d'acqua. Ancora più sconfortato pensò: "Questo è un miraggio. La mia fantasia mi proietta davanti i desideri profondi del mio subconscio. Nella realtà non c'è assolutamente niente". Senza più speranza, vaneggiando, si abbandonò esanime al suolo. Poco tempo dopo lo trovarono morto due beduini. "Ci capisci qualcosa – disse uno all'altro – così vicino all'oasi, con l'acqua a due passi e i datteri che gli cadono in bocca! Com'è possibile?".

Desiderare è volere, è provarci con tutte le forze, è agire, muoversi, è fare tutto ciò che possiamo fare. È come per questa donna non vergognarsi di perdere la faccia, è cambiare idea su di sé ("perché io anche se sono pagana non posso essere esaudita?"), è trovare soluzioni creative (la donna è arguta, furba: "Anche i cagnolini si cibano delle briciole che cadono"), è vincere la paura di essere rifiutati (da Gesù), è piegare il destino, è crederci fino in fondo.
Non se ci credi, ma quanto ci credi?

Perché ci verrà fatto in base a quanto lo desideriamo.

Il grande generale giapponese Nobunaga decise di attaccare anche se aveva solo un soldato per ogni dieci nemici. Era sicuro che avrebbe vinto, ma i suoi soldati erano pieni di dubbi. Mentre erano in camino verso il campo di battaglia si fermarono ad un santuario scintoista. Dopo aver pregato nel santuario, Nobunaga uscì e disse: "Ora getterò in aria una moneta. Se viene testa vinceremo. Se è croce perderemo. Ora il destino rivelerà il suo gioco". Gettò in aria la moneta. Venne testa. I soldati erano così desiderosi di combattere che vinsero facilmente la battaglia. Il giorno dopo un assistente disse a Nobunaga: "Nessuno può cambiare il destino". "Giustissimo – disse Nobunaga – mostrandogli una moneta che aveva testa su entrambe le facce".
Il potere della preghiera? Il potere del destino?

O il potere di una fede che è convinta che qualcosa accadrà, che vuole le cose a tutti i costi, che ci crede fino in fondo, che si mette in gioco e gioca tutte le sue carte?

Pensiero della settimana
Le scelte trasformano il fato in destino.
"Padre nostro sia fatta la tua volontà".
"Figlio mio sia fatto ciò che tu desideri".

 

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