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TESTO Commento su Luca 13,22-30

don Daniele Muraro  

XXI Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) (26/08/2007)

Vangelo: Lc 13,22-30 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Lc 13,22-30

In quel tempo, Gesù 22passava insegnando per città e villaggi, mentre era in cammino verso Gerusalemme. 23Un tale gli chiese: «Signore, sono pochi quelli che si salvano?». Disse loro: 24«Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno. 25Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, voi, rimasti fuori, comincerete a bussare alla porta, dicendo: “Signore, aprici!”. Ma egli vi risponderà: “Non so di dove siete”. 26Allora comincerete a dire: “Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze”. 27Ma egli vi dichiarerà: “Voi, non so di dove siete. Allontanatevi da me, voi tutti operatori di ingiustizia!”. 28Là ci sarà pianto e stridore di denti, quando vedrete Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio, voi invece cacciati fuori. 29Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio. 30Ed ecco, vi sono ultimi che saranno primi, e vi sono primi che saranno ultimi».

Il commento segue lo schema predisposto dall'autore per ogni anno liturgico, che potete trovare cliccando qui.

"Sforzatevi di entrare per la porta stretta!" è questa la risposta di Gesù alla domanda sul numero di quanti si salvano, se sono tanti o pochi. Gesù non si sofferma a soddisfare la curiosità, ma coglie l'occasione per rivolgere a tutti un appello: è sempre l'occasione giusta per pensare alla propria salvezza.

Anche quel misterioso interlocutore di fronte al destino eterno non poteva rimanere spettatore neutrale, ma doveva fare la sua scelta.

A che serve sapere che sono molti quelli che entrano nel Regno di Dio, se io rimango fuori, escluso per sempre? Non c'è alcun silenzio assenso in questo settore. Va corretto perfino il proverbio: non vale "chi tace acconsente", ma piuttosto "chi tace non dice niente". Rimanere muti di fronte alla grazia di Dio è già rifiutare.

A questo proposito sant'Agostino diceva: "Colui che ti ha creato senza di te non ti salverà senza di te... Nessuno si disperi, ma nessuno sia sicuro di sé. È male disperare, ma è anche male presumere". E poi: "Non vuoi essere salvato da Lui? Sarai allora condannato da te stesso!"

A dire il vero non siamo più abituati a sentire certe espressioni e per essere sicuri di aver sentito giusto e comprenderne tutta la portata dobbiamo tornarci sopra: "Non vi conosco, non so di dove siete. Allontanatevi da me, voi tutti operatori di iniquità!". Ripensando ad invettive come queste non si può non rimanere colpiti.

L'immagine poi del pianto e stridore di denti è veramente forte e rende bene l'angoscia di avere perduto il bene principale della propria vita, di avere fallito la meta della propria esistenza e cioè di non avere ottenuto la salvezza.

È il caso serio della fede, quello in cui l'uomo è solo di fronte al proprio destino e non può trovare nessun sostituto perché la parola decisiva la deve pronunciare lui stesso: sì o no, accetto o rifiuto, mi sforzo o mi lascio andare, prego o bestemmio, invoco la grazia di Dio o mi chiudo nel mio egoismo, amo Dio e per amore suo il mio prossimo, oppure odio il mondo e chi l'ha fatto.

Fino a qualche tempo fa mi dicono che si era impressionati dalle prediche e rassicurati dai fatti. Il predicatore dal pulpito minacciava tuoni e fulmini, poi si usciva di chiesa e si ritrovava con sollievo il sole che splendeva ancora.

La svolta se vogliamo chiamarla così, risale a papa Giovanni XXIII che diceva di se stesso, preferisco fare da calorifero, piuttosto che da frigorifero e intendeva dire: stimo meglio scaldare i cuori che gelare le coscienze. Siamo d'accordo.

Che la fede ci apra gli occhi sul caso serio della vita, non significa per forza che questa realtà da prendere sul serio sia anche grave o peggio ancora tragica.

Il pensiero del proprio destino eterno ci può rendere seri, ma non per questo ci deve togliere la serenità, o peggio ancora farci cadere nella disperazione, la situazione non è mai grave nel senso di irreparabile, almeno finché uno confida nella misericordia di Dio.

Talvolta scherzando si dice: la situazione è grave, ma non seria; può essere una battuta di spirito, ma il più delle volte è un giudizio da non approvare, perché quando uno ride mentre le cose vanno male vuol dire che ha già trovato a chi dare la colpa. Invece se uno è serio, anche quando le cose vanno bene la cosa può anche non essere grave, vuol dire solo che si sta impegnando nel suo cammino di conversione.

Si sa che gli allenatori di calcio fanno pretattica, non si sbilanciano e non si sentono mai sicuri di niente. Di fronte alla sfida della nostra salvezza, Gesù non ci impone di fasciarci la testa, ma nemmeno ci dice di non pensarci, piuttosto raccomanda a tutti di convertirsi.

Oggi preferiamo essere rassicurati dall'annuncio dell'amore di Dio e della sua misericordia, e in verità questo è consono con il Vangelo che è un messaggio di salvezza, ma ciò non toglie che se le parole sono rassicuranti, impressionanti sono diventati i fatti e questo a motivo del rifiuto di Dio e delle sua volontà che dalla sfera privata ormai è straripato nella dimensione sociale.

Qual è allora il giusto rapporto con Dio? Ci viene in soccorso la quarta beatitudine: "Beati gli affamati e gli assetati di giustizia, cioè proprio del giusto rapporto con Dio, perché saranno saziati."

"Quelli che hanno fame e sete della giustizia" sono le persone che non riescono a rassegnarsi al male, all'ingiustizia, e che innanzi tutto riscontrano questi sintomi dentro di sé, perché l'ingiustizia più grande è quella patisce Dio quando l'uomo si allontana da Lui e lo ignora.

Sono costoro che saranno introdotti al banchetto del Regno di Dio, cioè che troveranno soddisfazione ai loro desideri di bene e di felicità.

L'espressione biblica "avere fame e sete" significa avere un desiderio ardente ed incontenibile di qualcosa e ciascuno sarà ripagato a seconda dell'oggetto della sua ricerca.

Per vedere il risvolto concreto di quanto detto finora torniamo un attimo al principio del ragionamento. Siamo partiti da una porta stretta; c'è chi dubita che di là ci sia qualcosa o qualcuno di buono e neanche prova a passare, c'è chi pensa che la porta sia stata fatta così angusta a bell'a posta per mettere in difficoltà i passeggeri e c'è chi osserva meglio la situazione e scopre che l'accesso è ridotto perché l'entrata è ingombra e dunque bisogna darsi da fare per liberarla.

Ciò che ostruisce il passaggio verso una vita in pace con Dio e con la propria coscienza sono i sacchi di spazzatura dei nostri peccati e delle nostre omissioni e spesso il carico di tutte le trasgressioni passate che ora si sono depositate e sono diventate mentalità incontrastata.

"La vera minaccia per l'uomo consiste nell'autosufficienza ostentata, a prima vista così convincente", ammonisce Benedetto XVI, nel suo ultimo libro. Sembra che "le Beatitudini si contrappongano al nostro desiderio di felicità, alla nostra fame e sete di vita. In effetti esse esigono un'inversione di marcia interiore rispetto alla direzione che prenderemmo spontaneamente. Ma questa conversione fa venire alla luce ciò che è puro, ciò che è più elevato e la nostra esistenza si dispone nel modo giusto".

"Ogni correzione al principio non sembra causa di gioia, ma di tristezza, dopo però arreca un frutto di pace e di giustizia a quelli che per mezzo di essa sono stati addestrati" dice la seconda lettura.

Chi pensa di essere primo, più furbo degli altri, si ritroverà ultimo, e chi invece è stato costretto a rimanere nell'angolo per la sua fedeltà alla legge di Dio e per la sua correttezza nei rapporti umani, quello verrà fatto passare avanti nei primi posti.

Questo è il modo di ragionare di Dio, come Gesù ce lo propone oggi e questa dovrebbe diventare anche la nostra aspirazione: fare non ciò che è giusto per noi, ma ciò che è giusto per Dio. È stato detto bene infatti: "Il cristianesimo non è facile, ma è felice". Sia questa anche la nostra felicità.

 

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