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TESTO Commento Giovanni 10,27-30

don Daniele Muraro  

IV Domenica di Pasqua (Anno C) (29/04/2007)

Vangelo: Gv 10,27-30 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

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27Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. 28Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. 29Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. 30Io e il Padre siamo una cosa sola».

Il commento segue lo schema predisposto dall'autore per ogni anno liturgico, che potete trovare cliccando qui.

Siamo arrivati alla quarta domenica di Pasqua che è la domenica del Buon Pastore. Gesù parla apertamente e si definisce il Messia mandato da Dio Padre. Uno dei compiti del Messia Salvatore sarebbe stato quello di essere la guida del suo popolo. L'immagine del pastore serve proprio ad illustrare questa funzione. Sappiamo che Gesù è anche profeta, il più grande dei profeti, perché porta la Parola di Dio, anzi Egli stesso è la Parola di Dio per il mondo, e Gesù è sacerdote, che offre la sua vita per la salvezza degli altri.

Di questi tre compiti di Gesù in quanto nostro Salvatore, cioè di essere sacerdote, re e profeta, oggi la liturgia mette in evidenza il secondo: la sua funzione regale, di guida e di capo. Gesù però non ha in mente qualcosa di militare o anche solo di politico: davanti al governatore Pilato che era preoccupato di conservare il potere romano sulla Palestina, Gesù già prigioniero afferma: "Il mio regno non è di questo mondo Se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù".

Gesù comunque non nega di essere Re, anzi dice chiaramente che Egli non ha l'aspirazione a diventarlo, ma lo è già a tutti gli effetti.

Pilato gli disse: "Dunque tu sei re?". Rispose Gesù: "Tu lo dici; io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce".

Pilato rimase così impressionato dalle parole di Gesù che fece scrivere un cartiglio da collocare sopra la testa di Gesù crocifisso con la dicitura: "Gesù Nazareno Re dei Giudei". La targa era scritta nelle tre lingue principali dell'epoca, ebraico, latino e greco. Non era solo una forma di dileggio, perché di fronte alle proteste dei capi ebrei il governatore romano rimase fermo nella decisione. E' sempre san Giovanni che riporta l'episodio: vista la scritta "I sommi sacerdoti dei Giudei dissero allora a Pilato: "Non scrivere: il re dei Giudei, ma che egli ha detto: Io sono il re dei Giudei". Rispose Pilato: "Ciò che ho scritto, ho scritto".

In tante parabole Gesù parla di Dio suo Padre come Re e dunque Egli in quanto Figlio unico, mandato nel mondo, ha diritto allo stesso titolo. Dio Padre è un Re che perdona al servo chi gli è in debito, ma alla condizione che anche il servo sia disposto a perdonare al servo come lui. Dio Padre è un Re che organizza la festa di nozze per il suo Figlio e chiama a raccolta nella sala del banchetto gente da tutte le parti senza distinzioni di qualifiche e dignità.

In quanto buon Pastore Gesù dunque dimostra di avere la stessa autorità di Dio suo Padre per quanto riguarda la salvezza e il benessere dell'umanità. E' Dio stesso che affida a Gesù la cura del gregge e nelle sue mani le pecore si trovano sotto una custodia sicura. Solo Gesù è in grado di assicurare all'umanità assetata e affamata ciò di cui ha bisogno, una vita tranquilla, senza pericoli e senza ostacoli. Tutto questo avviene perché Gesù conosce le sue pecore e le pecore stesse sono dotate come di un istinto per riconoscere la sua voce e distinguerla da tante altre voci che fanno il verso a quella del vero padrone, ma non sono capace di assicurare i beni necessari al gregge.

A questo punto siamo in grado di apprezzare meglio l'immagine tradizionale del gregge e del pastore, di cui si serve Gesù per descrivere il suo rapporto con le persone. Chiamando i suoi fedeli pecore sue Egli non intende privare della responsabilità personale quelli che lo seguono, ma vuole sottolineare il rapporto che deve esistere fra Lui che conosce la strada della vita e chi si trova alla ricerca delle sorgenti della felicità.

Il pastore ha cura del suo gregge e lo difende dagli assalti del lupo, il mercenario invece che esercita la sua funzione solo per interesse di fronte al pericolo si spaventa e scappa; non è un pastore e a lui le pecore non interessano. Gesù dimostra di avere una idea certamente sovrumana del pastore e del suo rapporto con il gregge in quanto sono davvero pochi i quei pastori che lottano fino a dare la vita per la difesa e il benessere del gregge.

Liberato il campo dalla possibile obiezione sulla convenienza di sul primo polo di questa immagine lontana, per descrivere la bontà e la sollecitudine di Gesù nei confronti degli uomini, cioè quella del pastore, possiamo concentrarci un attimo sul secondo polo della rappresentazione, le pecore o il gregge. Se Gesù è il buon Pastore, noi siamo le sue pecore.

L'attribuzione della qualità di pecora come si può capire fin dal principio non intende essere per nulla offensiva o dequalificante, ma ci istruisce sui risvolti della condizione umana. In quanto creature soggette a tante necessità, gli uomini, come singoli e come comunità, hanno sempre bisogno di trovare una guida che li conduca fuori dalle secche della storia e ottenga loro felicità e benessere.

La mitezza delle pecore ci può essere di consolazione perché è come una garanzia di innocenza e incapacità a nuocere: in fondo nella nostra umanità non siamo così cattivi. Tuttavia questa stessa debolezza ci avverte che l'umanità ha sempre avuto la tentazione di cercare in un capo esterno la soluzione alle sue difficoltà. Sorge allora il problema a chi affidarsi.

Noi come cristiani abbiamo una guida esterna, ma anche interiore. Lo Spirito santo con i suoi doni ci viene conferito apposta per illuminare e rendere acuta la nostra coscienza. In particolare oggi mi voglio riferire al terzo dono dello Spirito santo nella Cresima, ossia al Consiglio.

Non basta sapere le cose e vederci dentro, occorre anche prendere le decisioni giuste. I dono del Consiglio ci soccorre in questo sforzo che facciamo. Il consiglio fa parte della ricerca e interviene nelle questioni ardue permettendoci di mettere in pratica la volontà di Dio in cui sta la nostra felicità.

Il consiglio è un dono che si aggiunge alla ragione umana. Chi non lo possiede non può rispondere alle esigenze quotidiane della volontà di Dio, perché non è interiormente diretto da Dio. Al massimo egli potrà individuare il bene umano e regolarsi su di esso in base al loro buon volere, ma la perfezione cristiana è altra cosa. Chi ha il dono del consiglio è guidato da Dio nelle circostanze piccole e grandi della vita pratica, e perciò egli non solo agisce bene, ma agisce santamente: "Benedico il Signore che mi ha dato consiglio" dice il salmo 16 e continua:

Io pongo sempre innanzi a me il Signore, / sta alla mia destra, non posso vacillare.

Di questo gioisce il mio cuore, / esulta la mia anima / anche il mio corpo riposa al sicuro,
perché non abbandonerai la mia vita.

E poi: "Mi indicherai il sentiero della vita, / gioia piena nella tua presenza, / dolcezza senza fine alla tua destra."

Lasciamoci dunque guidare da Gesù e che parla in noi attraverso il suo Spirito e il dono grande del Consiglio e non avremmo a temere e nemmeno a pentirci delle nostre scelte.

 

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