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TESTO Il segreto del lavoro, mettere il cuore in quello che fanno le mani

padre Raniero Cantalamessa

XXXIII Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) (18/11/2007)

Vangelo: Lc 21,5-19 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

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In quel tempo, 5mentre alcuni parlavano del tempio, che era ornato di belle pietre e di doni votivi, Gesù disse: 6«Verranno giorni nei quali, di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta».

7Gli domandarono: «Maestro, quando dunque accadranno queste cose e quale sarà il segno, quando esse staranno per accadere?». 8Rispose: «Badate di non lasciarvi ingannare. Molti infatti verranno nel mio nome dicendo: “Sono io”, e: “Il tempo è vicino”. Non andate dietro a loro! 9Quando sentirete di guerre e di rivoluzioni, non vi terrorizzate, perché prima devono avvenire queste cose, ma non è subito la fine».

10Poi diceva loro: «Si solleverà nazione contro nazione e regno contro regno, 11e vi saranno in diversi luoghi terremoti, carestie e pestilenze; vi saranno anche fatti terrificanti e segni grandiosi dal cielo.

12Ma prima di tutto questo metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno, consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni, trascinandovi davanti a re e governatori, a causa del mio nome. 13Avrete allora occasione di dare testimonianza. 14Mettetevi dunque in mente di non preparare prima la vostra difesa; 15io vi darò parola e sapienza, cosicché tutti i vostri avversari non potranno resistere né controbattere. 16Sarete traditi perfino dai genitori, dai fratelli, dai parenti e dagli amici, e uccideranno alcuni di voi; 17sarete odiati da tutti a causa del mio nome. 18Ma nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto. 19Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita.

Il Vangelo di questa Domenica fa parte dei famosi discorsi sulla fine del mondo, caratteristici delle ultime domeniche dell'anno liturgico. Pare che in una delle prime comunità cristiane, quella di Tessalonica, vi fossero dei credenti che traevano, da questi discorsi di Cristo, una conclusione sbagliata: inutile affannarsi, inutile lavorare e produrre, tanto tutto sta per passare; meglio vivere giorno per giorno, senza assumere impegni a lungo termine, magari ricorrendo a piccoli espedienti per vivere.

Ad essi risponde san Paolo nella seconda lettura: "Sentiamo che alcuni di voi vivono disordinatamente, senza far nulla e in continua agitazione. A questi tali ordiniamo, esortandoli nel Signore Gesù Cristo, di mangiare il proprio pane lavorando in pace". All'inizio del brano, san Paolo ricorda la regola che egli ha dato ai cristiani di Tessalonica: "Chi non vuole lavorare, neppure mangi".

Questa era una novità per gli uomini di allora. La cultura alla quale essi appartenevano disprezzava il lavoro manuale, lo riteneva degradante per la persona e tale da essere lasciato agli schiavi e agli incolti. Ma la Bibbia ha una visione diversa. Fin dalla prima pagina essa presenta Dio che opera per sei giorni e si riposa nel settimo giorno. Tutto questo, prima ancora che nella Bibbia si parli del peccato. Il lavoro fa dunque parte della natura originaria dell'uomo, non della colpa e del castigo. Il lavoro manuale è altrettanto dignitoso di quello intellettuale e spirituale. Gesù stesso dedica una ventina d'anni al primo (supposto che abbia incominciato a lavorare verso i tredici anni) e solo un paio di anni al secondo.

Un laico ha scritto: "Che senso e che valore ha il nostro lavoro di laici davanti a Dio? È vero che noi laici ci dedichiamo anche a tante opere di bene (carità, apostolato, volontariato); però la maggior parte del tempo e delle energie della nostra vita dobbiamo dedicarle al lavoro. Quindi, se il lavoro non vale per il cielo, ci troveremo ad avere ben poco per l'eternità. Tutte le persone che abbiamo interpellato non hanno saputo darci risposte soddisfacenti. Ci dicono: 'Offrite tutto a Dio!'. Ma basta questo?"

Rispondo: No, il lavoro non vale solo per la "buona intenzione" che si mette nel farlo, o per l'offerta che se ne fa a Dio al mattino; vale anche per se stesso, come partecipazione all'opera creatrice e redentrice di Dio e come servizio ai fratelli. "Con il lavoro, si legge in un testo del Concilio, l'uomo abitualmente provvede alle condizioni di vita proprie e dei suoi familiari, comunica con gli altri e rende servizio agli uomini suoi fratelli, può praticare una vera carità e collaborare con la propria attività al completarsi della divina creazione. Ancor più: sappiamo per fede, che, offrendo a Dio il proprio lavoro, l'uomo si associa all'opera stessa redentiva di Cristo" (Gaudium et >Spes, 67).

Non importa tanto che lavoro uno fa', quanto come lo fa. Questo ristabilisce una certa parità, al di sotto di tutte le differenze (a volte ingiuste e scandalose) di categoria e di rimunerazione. Una persona che ha svolto mansioni umilissime nella vita, può "valere" molto di più di chi ha occupato posti di grande prestigio.

Il lavoro, si diceva, è partecipazione all'azione creatrice di Dio e all'azione redentrice di Cristo ed è fonte di crescita personale e sociale, ma esso, si sa, è anche è fatica, sudore, pena. Può nobilitare, ma può anche svuotare e logorare. Il segreto è mettere il cuore in quello che fanno le mani. Non è tanto la mole o il tipo di lavoro esercitato che stanca, quanto la mancanza di entusiasmo e di motivazione. Alle motivazioni terrene del lavoro, la fede ne aggiunge una eterna: le nostre opere, dice l'Apocalisse, ci seguiranno (Ap 14,13).

Padre Raniero Cantalamessa

 

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