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TESTO Fra il credere e il pregare

padre Gian Franco Scarpitta  

XXIX Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) (21/10/2007)

Vangelo: Lc 18,1-8 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

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In quel tempo, Gesù 1diceva loro una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai: 2«In una città viveva un giudice, che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno. 3In quella città c’era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: “Fammi giustizia contro il mio avversario”. 4Per un po’ di tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: “Anche se non temo Dio e non ho riguardo per alcuno, 5dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi”». 6E il Signore soggiunse: «Ascoltate ciò che dice il giudice disonesto. 7E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? 8Io vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?».

Riassumendo quanto ci eravamo detti nelle domeniche precedenti, nella fede si incontrano le risposte esistenziali dell'uomo e sull'uomo, perché la fede ci mette in relazione a Dio che si è fatto uomo egli stesso per noi e per venire incontro alle nostre difficoltà. La fede comporta un atteggiamento di fiducia e di gratitudine nei confronti di Chi viene ad assisterci con la sua grazia, che si esplicita anche attravrerso eventi prodigiosi e anzi rendere grazie a Dio in ogni circostanza è uno dei ricorsi che andrebbe maggiormente coltivato nella nostra vita spirituale.

La fede non equivale al semplice credere in una realtà astratta e straordinaria, comunque lontana dalla nostra materia e dal vissuto: in relazione a Dio che in Cristo viene a trovarci come uomo, essa è anzi una virtù specifica irrinunciabile, meglio denominabile come "virtù teologale" la quale ci introduce nella pienezza della vita stessa di Dio, aiutantoci a vivere la medesima dimensione di vita. Nella fede infatti ci si ADFFIDA incondizionatamente al mistero di Dio rivelato, si obbedisce a Lui con la riverenza del cuore e dell'intelletto, ci si abbandona liberamente a Lui con disinvoltura e con fiducia e ci si dispone a vivere secondo quello che Lui indica; essa insomma è una virtù compromettente tutta la nostra vita, poiché impone che noi doniamo noi stessi senza riserve a Dio in tutti i casi, nel bene e nel male, nella gioia, nel dolore e in ogni altro contesto vitale.

Quando si afferma di non avere più fede in conseguenza di un lutto o di un triste avvenimento ciò in realtà vuol dire che da parte nostra si rifiuta di vivere il nostro rapporto con il Signore mostrando repulsione nei nostri confronti e omettendo di realizzare il nostro affidamento a Lui che in realtà andrebbe sviluppato e accresciuto proprio al presenziare di queste circostanze tristi. Oppure -cosa più sconcertante- questo avviene perché a monte non si nuitriva un concetto di Dio se non nei termini di preghiera ed esaudimento e la fede era solo languida e apparente.

In sintesi, il vero atteggiamento del fedele consiste nell'espressione "credo" che compendia quella più ampia del "Signore mi affido a te; fai di me quello che credi, l confido nel tuo amore e mi accingo a fare la tua volontà" comportando così l'adesione dell'intelletto e della volontà.

Dicevamo che essa è una virtù che introduce nella vita dello stesso Dio e infatti essa ci immedesima nel Dio uomo Gesù Cristo che si affida alla volontà del Padre sempre e comunque, mostandosi in tutto obbediente, soprattutto nell'ora dell'angoscia del Getzemani: "Si compia la tua, non la mia volontà" facendoci anche riscoprire il valore della fiducia coltivata da moltissimi uomini della Bibbia che confidano nel Signore come fautore di ogni forza ed estensore di ogni potenza, anche quella militare che sconfigge gli eserciti avversari, sicché nel suo nome è possibile vincere con mille uomini chi ci sta avversando con diecimila.

La prima Lettura tratteggia in quello spettacolare avvenimento della lotta di Giosuè contro Amalek che la forza dell'esercito di Israele dipende eslcusivamente dall'assistenza divina che si rende esplicita nel gesto di innalzamento o abbassamento delle braccia da parte di Mosè: il Signore sostiene il popolo nella misura in cui un suo intercessore (e per estensione il popolo stesso) ripone la sua fiducia in Lui e questo è sufficiente a descrivere la nostra fede come un affidamento libero e disinvolto alla grazia del Signore che apporta sempre i suoi frutti.

Ma la suddetta avventura dell'orto degli ulivi dimostra in Gesù che la fede può e deve essere coltivata e alimentata dalla speciale relazione intima con Dio che è la preghiera e che attraverso l'orazione si ha un valido elemento per coltivare il nostro credere e il nostro sperare in profondità: la preghiera esprime il nostro atto di fede nella richiesta particolare delle grazie divine per noi stessi e per gli altri che lo stesso Signore mostra di realizzare in quelle poche parole sopra espresse. Il pregare infatti non esclude il chiedere, anche se di fatto condanna il pretendere: esporre a Dio le nostre richieste e le nostre aspirazioni è legittimo e a volte anche doveroso; è tuttavia innecessario che noi si pretenda che Dio intervenga a nostro famore solo nella misura delle nostre preferenze. Qual è allora l'atteggiamento più consono? Nient'altro che quello del rimetterci comunque e in tutti i casi alla sua volontà, secondo la stessa espressione di Gesù Cristo e questo incentiva in noi l'accrescersi della nostra fede per la quale ogni intervento di Dio nei nostri riguardi ha il suo valore.

La preghiera, contrariamente a quanto possa sembrarci, ottiene sempre una risposta divina e non tiene lontano Dio dalle nostre ansie e dalle nostre difficoltà. Piuttosto lo rende partecipe dei nostri problemi per cui Egli si compiace di intervenire a nostro favore, non importa se molte volte questo avviene nelle modalità differenti da quelle che noi comunemente ci aspettiamo; nella pratica dell'orazione infatti si speriementa che Dio è vicino a noi e ci assiste non lesinando nella sua presenza e mostrandosi solidale con il nostro eventuale malessere interiore, ragion per cui il solo pregare anche senza conseguenze apparenti, non si deve escludere dalla nostra vita. Anzi, occorrerebbe pregare anche al di là delle formule prefissate delle varie orazioni devozionali spesso in uso e ricorrere al dialogo personale intimo con Lui che si realizzi anche e soprattutto a parole nostre.

Rivolgersi a Dio in orazione infatti, se pure comporta la richiesta, non consiste direttamente nel domandare quanto piuttosto in primo luogo nel confidarci con Dio e nel familiarizzare con lui nei termini di amicizia e filialità e nel realizzare innanzitutto il nostro rapporto spontaneo con chi ci ama e ci rende oggetto della sua predilezione e qualsiasia forma di vita orante comporta che ci si disponga risolutamente nei riguardi di Dio e solo questo comporta che Egli ci ascolti mostrandosi immeditamente sollecito nei nostri confronti come effettivamente mostra la parabola evangelica di oggi: se un giudice, per quanto arrogante e indifferente, mostra attenzione nei riguardi di una povera vedova almeno per la sua insistenza, quanto più Dio si mostra attento nei nostri riguardi e questo non già perché noi siamo insistenti e recidivi, ma perché motivato dal suo solo Amore di Padre.

In sintesi, la preghiera è una prerogativa che non può che scaturire dalla fede avendo solo in essa il suo carattere sorgivo e la sua ragione di svilupparsi e di accrescersi e la fede è la rampa di lancio di ogni preghiera sentita e reale.

Quale la prima preghiera da rivolgere a Dio? "Signore, accresci la mia fede."

 

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