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TESTO Commento su Luca 12,32-48 (forma breve: Luca 12,35-40)

CPM-ITALIA Centri di Preparazione al Matrimonio (coppie - famiglie)  

XIX Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) (12/08/2007)

Vangelo: Lc 12,32-48 (forma breve: Lc 12,35-40) Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Lc 12,32-48

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: 32Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno.

33Vendete ciò che possedete e datelo in elemosina; fatevi borse che non invecchiano, un tesoro sicuro nei cieli, dove ladro non arriva e tarlo non consuma. 34Perché, dov’è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore.

35Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese; 36siate simili a quelli che aspettano il loro padrone quando torna dalle nozze, in modo che, quando arriva e bussa, gli aprano subito. 37Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli. 38E se, giungendo nel mezzo della notte o prima dell’alba, li troverà così, beati loro! 39Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora viene il ladro, non si lascerebbe scassinare la casa. 40Anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo».

41Allora Pietro disse: «Signore, questa parabola la dici per noi o anche per tutti?». 42Il Signore rispose: «Chi è dunque l’amministratore fidato e prudente, che il padrone metterà a capo della sua servitù per dare la razione di cibo a tempo debito? 43Beato quel servo che il padrone, arrivando, troverà ad agire così. 44Davvero io vi dico che lo metterà a capo di tutti i suoi averi. 45Ma se quel servo dicesse in cuor suo: “Il mio padrone tarda a venire” e cominciasse a percuotere i servi e le serve, a mangiare, a bere e a ubriacarsi, 46il padrone di quel servo arriverà un giorno in cui non se l’aspetta e a un’ora che non sa, lo punirà severamente e gli infliggerà la sorte che meritano gli infedeli.

47Il servo che, conoscendo la volontà del padrone, non avrà disposto o agito secondo la sua volontà, riceverà molte percosse; 48quello invece che, non conoscendola, avrà fatto cose meritevoli di percosse, ne riceverà poche. A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto; a chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più.

Forma breve (Lc 12,35-40):

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: 35Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese; 36siate simili a quelli che aspettano il loro padrone quando torna dalle nozze, in modo che, quando arriva e bussa, gli aprano subito. 37Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli. 38E se, giungendo nel mezzo della notte o prima dell’alba, li troverà così, beati loro! 39Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora viene il ladro, non si lascerebbe scassinare la casa. 40Anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo».

La notte della liberazione, desti al tuo popolo, Signore, una colonna di fuoco, come guida in un viaggio sconosciuto e come un sole innocuo per il glorioso migrare...

Nella storia della salvezza, che è storia di liberazione, c'è sempre una tensione dialettica tra notte e giorno. E l'autore del libro della Sapienza (e la sapiente riflessione della Chiesa non manca di richiamare questa condizione esistenziale) ce lo ricorda nella prima lettura di questa 19a domenica del tempo ordinario.

Nell'inconscio di ognuno di noi nella notte si scatenano le paure più profonde che, nei modi più diversi, tutti cerchiamo di esorcizzare. Le forze oscure del male, dei ricordi dolorosi, dell'angoscia senza nome, della morte, si scatenano e cercano di sopraffarci; creano dentro di noi una sorta di esasperazione dei problemi, dei timori nascosti: i genitori preoccupati per i figli, ad ogni età; i figli alla ricerca di un'affettività che spesso si rivela difficile e genera notti insonni... Poi arriva il giorno e con esso la luce e la radiosità dileguano la notte e scacciano il timore. Dio conosce questa nostra debolezza umana e, Lui nel quale non c'è notte, illumina anche le nostre notti. E come dà agli Israeliti una colonna di fuoco, guida per un viaggio sconosciuto, allo stesso modo dà ad ognuno di noi una luce per camminare nelle tenebre.

Eppure la nostra fede (fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono, come ci ricorda la Lettera agli Ebrei) è spesso tenebrosa, talvolta oscura come la notte più buia.

Campeggia, in questo brano della seconda lettura, la solida gigantesca figura di Abramo. Un campione ("il" campione) della fede. Per fede, Abramo partì per una destinazione sconosciuta senza sapere dove l'errare nomade lo avrebbe condotto. Il suo progetto era nascosto nella Promessa. Potrebbe essere la storia delle nostre famiglie. Spesso esse si sfasciano per mancanza di progetto: quante volte ai fidanzati che incontriamo ripetiamo la necessita di avere un progetto...! Ma spesso esse si sfasciano anche per un eccesso di progetto: si vuole programmare tutto, fino nei minimi particolari, e se poi la realtà non corrisponde al progetto, subentra la stanchezza, la delusione e allora, i più dicono, è meglio lasciar perdere...

Per fede, Abramo offrì Isacco, il figlio atteso dalla promessa di Dio, e l'angoscia di tale offerta è indicibile con parole umane... Un figlio che, sempre per fede, era sbocciato dal seno avvizzito di Sara. Forse Dio non ci chiederà mai una prova di fedeltà come quella richiesta ad Abramo, ma dolcemente ci chiede di non considerare "nostri" i figli, di lasciare che essi siano dopo averli fatti essere.

Fede indica appunto anche fedeltà, che anzi nella lingua latina da fede (fidē s) deriva e che include tutte le virtù dell'amore: fiducia, onestà, lealtà, sincerità. La fede è l'atto decisivo dell'esistenza umana, è il fidarsi nell'altro. Nel matrimonio, senza la fede intesa in questa accezione non si fa molta strada. Fede è il fidarsi del legame che unisce due persone che si amano, il luogo antropologico, etico e teologico dell'amore. Il luogo in cui si celebra il rispetto profondo per il mistero dell'altro, la sua assoluta incatturabilità. Un luogo che non può essere banalizzato da esclusive pretese moralistiche e minimaliste. Come viene narrato nel ciclo di re Artù, l'eroe (il cavaliere) deve attraversare un abisso camminando su una trave invisibile che diventerà visibile solo quando egli vi avrà posato il piede. In questo atto di fidarsi e affidarsi sta tutto il mistero dell'amore. Se interviene la paura, il sospetto, la sfiducia, avviene la tragedia. Ma la fidē s, l'amore che sa affidarsi, scaccia la paura, come dice san Giovanni.

La fede in Dio e la fede coniugale condividono, certo, un unico destino: devono sempre attraversare la notte. Come non crediamo ad un amore senza ripensamenti, senza crisi ricorrenti, così non crediamo in una fede senza dubbi e senza oscurità, perché la fede – e qui siamo nel cuore stesso del suo mistero – transita sempre nella morte e con essa è destinata a scontrarsi. Occorre passare attraverso la morte per trovare la vita, come d'altronde è avvenuto, secondo le dinamiche splendidamente descritte da S.Kirkegaard in "Timore e tremore", per Abramo. Ed anche per Sara, la sua compagna. In amore occorre passare attraverso la morte per poter dire alla persona che ci sta accanto: "Tu non morirai".

Abbiamo incontrato e incontriamo tante coppie che esperimentano, giorno dopo giorno nella fedeltà, questo senso tragico della fede e dell'amore. Fare il "passo del cavaliere" non è facile. Non siamo eroi e spesso fatichiamo ad essere uomini e donne. Ma se riusciamo a fare questo passo, non siamo più gli stessi di prima. Forse ci ritroviamo zoppicanti, come Giacobbe dopo la lotta con l'angelo. Ogni liberazione avviene dopo e grazie ad una lotta spesso difficile e aspra. Ma la tenebra non è mai assoluta, la notte non è mai completamente notte. Anche nelle situazioni più difficili e più tragiche c'è sempre un sia pur flebile intravedimento di luce. A Taizé si canta: «La ténébre n'est point ténébre devant toi: la nuit comme le jour est lumière».In te la tenebra non è tenebra, La notte è chiara come il giorno. No, in Dio non c'è tenebra.

Visto in questa prospettiva, il compito dell'uomo e della donna di fede apparirebbe immane, tragico appunto.

Ma se è vero che non riusciremo mai a raggiungere una fede luminosa, certa – poiché nessun cristiano può mai vantare alcuna certezza ("credo perché voglio credere", ripeteva Santa Teresa di Lisieux, dottore della Chiesa) – è altrettanto vero che per tentare almeno questo cammino dobbiamo porre due precondizioni fondamentali di cui parla oggi l'Evangelo di Luca.

La prima è la vigilanza. "Siate pronti, con le cinture ai fianchi e la lucerna accesa; siate simili a coloro che aspettano il padrone quando torna dalle nozze, per aprirgli subito, appena arriva e bussa: Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli...".

Il linguaggio di Luca è evidentemente esemplificativo, ma "essere svegli" significa astenersi da quelle azioni che potrebbero darci "sonnolenza", addormentare la nostra capacità critica. Ancora una volta, la ricchezza, il desiderio di ottenere tutto e subito, il benessere materiale potrebbero ottundere la nostra capacità di progredire nella fede.

La seconda precondizione è che questo orizzonte della vigilanza non deve essere orientato solo alla dimensione escatologica dell'esistenza, sul compimento definitivo della storia, quanto piuttosto sull'ekklesia, sulle dinamiche proprie della comunità. E qui interviene il messaggio di Gesù rivolto ad ogni persona scoraggiata, ad ogni comunità delusa.: "Non temere, piccolo gregge". Non avere paura.

Il Regno di Dio viene offerto a chi sa essere piccolo e povero. A chi non ha come ambizione le adunate oceaniche, le piazze piene, le folle immense, la nevrosi ossessiva della quantità, il bisogno di poter finalmente esclamare: "Siamo in tanti!". Se la Chiesa vivesse questa tentazione sarebbe fatalmente destinata a mondanizzarsi piuttosto che ad incarnarsi sul modello del Maestro, a fare del colonialismo clericale, piuttosto che vivere una testimonianza silenziosa; sarebbe un club di perfetti e di salvati, più che un popolo di peccatori in cammino, nella tensione continua di realizzare un ecumenismo di cultura più che di facciata.

Ci penserà Lui, il Signore, alla fine dei tempi, a radunare il piccolo gregge e – come nella visione di Ezechiele – sarà "un esercito grande, sterminato" (Ez 37, 10). Ma solo allora.

Traccia per la revisione di vita

1. La nostra fede è certezza da esibire, oppure perenne ricerca?

2. Come "trasmettiamo" la fede in famiglia? Preferiamo imporla, proporla o testimoniarla?

3. Riteniamo che la vita semplice, austera, ci aiuti ad esprimere la nostra lode a Dio?

4. Come pensiamo la Chiesa, come una grande potenza o come un piccolo gregge?

Commento a cura di Luigi Ghia

 

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