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TESTO

41. La pace è finita, andate a Messa   1

Tonino Bello, Affliggere i consolati

Il frutto dell'eucaristia dovrebbe essere la condivisione dei beni. I nostri comportamenti invece sono l'inversione di questa logica. Le nostre messe dovrebbero smascherare i nuovi volti dell'idolatria. Le nostre messe dovrebbero metterci in crisi ogni volta. Per cui per evitare le crisi bisognerebbe ridurle il più possibile. Non fosse altro che per questo. Dovrebbero smascherare le nostre ipocrisie e le ipocrisie del mondo. Dovrebbero far posto all'audacia evangelica. Non dovrebbero servire agli oppressori.

Bonhoeffer diceva che non può cantare il canto gregoriano colui che sa che un fratello ebreo viene ammazzato. Non si può cantare il canto gregoriano quando si sa che il mondo va così.

Tante volte anche noi, presi da una fede flaccida, svenevole, abbiamo fatto dell'eucaristia un momento di compiacimenti estenuanti, che hanno snervato proprio la forza d'urto dell'eucaristia e ci hanno impedito di udire il grido dei Lazzari che stanno fuori la porta del nostro banchetto.

Se dall'eucaristia non parte una forza prorompente che cambia il mondo, che dà la voglia dell'inedito, allora sono eucaristie che non dicono niente.

Se dall'eucaristia non si scatena una forza prorompente che cambia il mondo, capace di dare a noi credenti l'audacia dello Spirito Santo, la voglia di scoprire l'inedito che c'è ancora nella nostra realtà umana, è inutile celebrare l'eucaristia. Questo è l'inedito nostro: la piazza. Lì ci dovrebbe sbattere il Signore, con una audacia nuova, con un coraggio nuovo. Ci dovrebbe portare là dove la gente soffre oggi. La Messa ci dovrebbe scaraventare fuori.

Anziché dire la messa è finita, andate in pace, dovremmo poter dire la pace è finita, andate a messa. Ché se vai a Messa finisce la tua pace.

eucaristiamessasolidarietàcambiamento

inviato da Eleonora Polo, inserito il 27/06/2019

TESTO

42. Natale non è Babbo Natale?   1

Giuseppe Impastato S.I.

Non è un telegramma di auguri (Buon Natale e Buone Feste).
Non è una dichiarazione che siamo perdonati (vabbè, scurdàmuci o passato e arrivederci a tutti in paradiso).
Natale non è una promessa elettorale che ci sarà un condono tombale per tutti (tranquilli, non preoccupatevi più) e che tutti i guai che abbiamo combinati sono con un solo tocco magicamente scomparsi (pim pum pam, tutto a posto).
Natale non è una vaporosa o fantasmagorica apparizione in un sogno dove tutto il mondo (abracadabra) è divenuto meraviglioso.
Natale non è una visita di cortesia o di obbligo (toccata e fuga e chi s'è visto s'è visto).

Natale è una presenza,
una presenza povera per distruggere il fascino della ricchezza,
una presenza inerme per distruggere il mito della potenza,
una presenza mite per svilire la tentazione della prepotenza.
una presenza costante, definitiva, di un Dio che amerà senza pretese, senza ripensamenti e senza rimpianti.

Natale è una incarnazione, cioè: il Figlio di Dio è venuto tra noi,
e ormai è uno di noi, uno come tutti gli altri,
che abita come noi in questo sporco fastidioso mondo,
che viene per noi,
per essere cammino di luce e indicarci una via,
per essere energia e forza per cambiare il mondo,
per essere vittoria su ciò che è morte e donare amore.

Nessuno può dirgli: ma tu chi sei? che ci fai qui?
Che ci vieni a raccontare? che ne sai dei nostri guai?
che cosa rappresenti per noi? chi ti ha chiesto di venire?

Avevamo un progetto e un sogno: essere come Dio.
Ma non siamo riusciti a realizzarli.
Ora con Lui progetto e sogno sono realizzabili.

Ma Dio ora realizza il suo progetto e il suo sogno: diventare Uomo!
Ma se ha scelto la nostra vita, vuol dire che è bella!
Coraggio! La vera rivoluzione è iniziata; scegliamo Gesù!

NataleDio con noipresenzaincarnazione

inviato da Giuseppe Impastato S.I., inserito il 29/12/2018

TESTO

43. Zaccheo sul sicomoro

Giuseppe Impastato S.I.

Ora tocca a lui, a Gesù.
Sento una indicibile nostalgia.
Stamattina mi ha preso un colpo
quando un amico mi disse:
"Sai, c'è Gesù, il Maestro, a Gerico.
E tra poco passerà da queste parti,
per andare a Gerusalemme".
Mi ha preso un colpo, e non so come,
mi è venuta una gran voglia di vederti!
Ma che? sto parlando come se fosse qui!

Mi sono messo a correre. Una spinta,
non so come sia successo.
Ti volevo vedere. E, come dicevo,
mi son messo a correre,
come quando ero bambino.
Che figuraccia, correre come i ragazzini!
Avresti dovuto vedere le facce
di clienti e conoscenti.
Ma io ho continuato, perché non m'interessa
quello che può dire la gente.

Ce l'ho fatta ad arrampicarmi.
Ho sete di te, e mi brucia questa sete
di vederti. Mi basterà vederti?
Non so.
Ho paura di ciò che potrà capitarmi.
Me ne starò qui, abbastanza nascosto,
per vederlo senza farmi vedere.
Ora tocca a te, Gesù.

Il cuore mi dice che oggi
sarà un giorno indimenticabile.
Perché sono stanco,
stanco di maneggiare denaro,
di rendere la gente più arrabbiata,
di vedermi l'odio di tutti in faccia.

Mi son fatto una posizione, sì.
Tutti mi rispettano, mi temono.
Ma io non ce la faccio più a rubare,
a esigere, a fare i conti, a controllare,
ad arricchirmi. Sono diventato anche io
spietato, come i romani. Gentaglia!

Certe volte mi sono vergognato
vedendo piangere i miei fratelli ebrei.
Già, fratelli. Sono stato un carnefice.
Ho fatto disperare. Io, sì, disperare.
Quanti mi hanno implorato,
quanti mi hanno maledetto.
Qualche volta avrei voluto restituire i soldi,
fare la spesa per le famiglie sfortunate.
Ma c'era sempre qualche sodato romano
accanto, a controllarmi.
Ma ora non ce la faccio più.

Eccolo!!! Arriva. E' proprio lui.
Che occhi attenti, che occhi buoni.
Non guarda come guardo io.
Guarda dentro, guarda con amore.
Ora capisco come la gente gli vada dietro.
Mi avevano detto che la gente ascolta,
lo segue, cambia vita. E' proprio vero.
Che faccio ora? Scendo dall'albero?
Mi piacerebbe invitarlo a casa mia.

"Zaccheo, scendi. Subito".
Dice a me? Conosce il mio nome!
Come se sappia tutto di me!
“Scendi subito! Oggi devo fermarmi da te”
Ma certo! Era quello che sognavo.
Ho fatto bene a venire qui.
"Gesù, sono onorato di averti a casa mia".

Ora sono contento. Finalmente.
Contento come quand'ero bambino.
Ora posso cambiare. Potrò guardare tutti negli occhi.
Mi guardano tutti, sorpresi.
"Subito! Devo... fermarmi... A casa tua!"
E' un sogno!
Zaccheo, corri.

incontrare Gesùzaccheoattesamisericordia

inviato da Giuseppe Impastato S.I., inserito il 29/12/2018

TESTO

44. Attendere è declinazione del verbo amare

Ermes Ronchi, https://www.avvenire.it

Avvento: tempo per desiderare e attendere quel Dio che viene con una metafora spiazzante, come un ladro. Che viene nel tempo delle stelle, in silenzio, senza rumore e clamore, senza apparenza, che non ruba niente e dona tutto. Si accorgono di lui i desideranti, quelli che vegliano in punta di cuore, al lume delle stelle, quelli dagli occhi profondi e trasparenti che sanno vedere quanto dolore e quanto amore, quanto Dio c'è, incamminato nel mondo. Anche Dio, fra le stelle, come un desiderante, accende la sua lucerna e attende che io mi incammini verso casa.

avventoattesavigilanza

inviato da Francesco De Luca, inserito il 29/12/2018

TESTO

45. Avvento: attesa e vigilanza

John Powell

Il Signore ci chiede di essere vigilanti e pronti perché non possiamo conoscere in anticipo l'ora di Dio, l'ora in cui Dio viene a visitarci con un intervento speciale. Sono ormai abbastanza anziano e saggio da pensare che non posso forzare quest'ora di Dio.

Dio verrà da me e da te, a modo suo e quando vorrà. A volte siamo tentati di comportarci come coloro che addestrano gli animali con i cerchi. Chiediamo a Dio di venire e di saltare attraverso i nostri cerchi proprio come vogliamo noi! Ma, alla fine, scopriamo che Dio non è un animale ammaestrato. Dio sceglie i suoi momenti e suoi mezzi. La nostra parte è solo di essere pronti per questi momenti speciali. A volte, l'ora di Dio sembra giungere proprio nel momento in cui non ce la facciamo più. Ad ogni modo, la nostra fiducia in Dio ci dice che Dio verrà, al momento migliore e nel modo migliore. Io devo permettere a te di essere te stesso, e tu devi permettere a me di essere me stesso.

E noi dobbiamo permettere a Dio di essere Dio.

avventoattesavigilanzarapporto con Diopreghiera

inviato da Francesco De Luca, inserito il 29/12/2018

TESTO

46. Betlemme città del pane... Pane nostro

Gianni Fanzolato

Pane nostro, né tuo, né mio, ma nostro, è di tutti.
Nasci in cielo, perché seminato nel cuore di Dio,
ma fiorisci nei prati del mondo dove tutti possono sfamarsi.

Il tuo nome sacro e fragrante sarà onorato e santificato,
se verrà moltiplicato e presente in tutte le mense del mondo.
Se anche un bambino dell'Africa, che non ha neanche acqua
per bere, potrà assaporare la delizia del tuo caldo sapore di pane.

Quando la tua presenza onorerà il desco del povero e del ricco,
e sarai pane di vita in tutti gli altari del mondo per lenire la nostra
fame di Dio, che è grande, allora il tuo regno è una splendida realtà.

E' volontà di Dio che ti condividiamo, che ti spezziamo, rinnovando
il miracolo che un giorno Cristo ha fatto con cinquemila affamati.
Continua a seminare nel tuo cuore questo seme di vita, così in Asia,
Africa, America ed Europa ogni giorno ci darai la pianta con pane per tutti.

Gesù, se imparassimo una buona volta ad essere generosi, a pensare
a chi non ha niente, ci sarebbero perdonati molti peccati, perché
molto abbiamo amato. Il mondo sarebbe una foresta verde piena di vita.

Scuotici, svegliaci, Signore per non lasciarci nella tentazione
dell'egoismo e della chiusura, e liberaci dal male che distrugge
l'umanità. Se il pane ci sarà per tutti, la vita fiorirà come un campo
appena arato e seminato e ci sarà festa per tutti i tuoi figli, che ami.

Loreto, S. Natale 2018, P. Gianni Fanzolato

paneeucaristianatalecondivisioneegoismopadre nostrogenerosità

inviato da P. Gianni Fanzolato, inserito il 29/12/2018

TESTO

47. Il chicco di frumento   1

Bruno Ferrero, Bollettino Salesiano, giugno 2016

Un chicco di frumento si nascose nel granaio.
Non voleva essere seminato.
Non voleva morire.
Non voleva essere sacrificato.
Voleva salvare la propria vita.
Non gliene importava niente di diventare pane.
Né di essere portato a tavola.
Né di essere benedetto e condiviso.
Non avrebbe mai donato vita.
Non avrebbe mai donato gioia.
Un giorno arrivò il contadino.
Con la polvere del granaio spazzò via anche il chicco di frumento.

semeegoismosacrificiogenerositàdono

inviato da Qumran2, inserito il 29/12/2018

TESTO

48. Il segreto del maestro

don Tonino Bello, Scrivo a voi... Lettere di un vescovo ai catechisti, EDB

Carissimi catechisti,

ogni volta che tornavo nel mio paese, andavo a trovarlo. Ultimamente si era incurvato e gli tremavano le mani. Ma per me è rimasto sempre il maestro di un tempo. Tornavo da lui per un dovere di gratitudine. Ma soprattutto condotto dalla speranza. Chi sa, mi dicevo, che non abbia, come nelle fiabe che ci raccontava in quarta elementare, una noce misteriosa da farmi schiacciare nei momenti difficili!

Di tutti gli insegnanti che ho avuto, lui era l'unico a provare soggezione di me. Me ne accorgevo dall'imbarazzo con cui, nel discorso con me, passava dal “lei” al “tu”. Mi hanno detto anche che era fiero di avermi avuto come discepolo. Forse però non ha mai saputo che se ancora tornavo da lui era perché avevo il presentimento che mi avrebbe aiutato a risolvere, come un tempo, qualche altro complicato problema, per il quale non mi bastavano più le quattro operazioni dell'aritmetica che lui mi aveva insegnato. Ogni volta che lo lasciavo, sentivo di avergli rubato spezzoni di mistero. Quegli spezzoni che a scuola ci sottraeva volutamente, senza che noi ce ne accorgessimo. Sì, perché lui aveva l'incredibile qualità di non spiegarci mai tutto e per ogni cosa ci lasciava un ampio margine d'arcano, non so se per stimolare la nostra ricerca o per alimentare il nostro stupore.

Perché l'arcobaleno dura così poco in cielo? E cosa fa Dio tutto il giorno? Perché le farfalle lasciano l'argento sulle dita? Perché Gesù ha fatto nascere così il povero Nico, che veniva a scuola sulla carrozzella spinta dalla nonna? Perché si muore anche a dieci anni, come la sua bambina, e noi scolari quel giorno andammo tutti in chiesa a pregare per lei?

Non aveva l'ansia di rivelarci tutto. Non era malato di onnipotenza culturale. E neppure ci imponeva le sue spiegazioni. Qualche volta sembrava fosse lui a chiederle a noi. Ma quando dopo gli acquazzoni di primavera spuntava l'arcobaleno, ci conduceva fuori per contemplarne la tenerezza dei colori. E, mostrandoci le rondini che garrivano in cielo, ci diceva che non dovevamo abbatterle con le nostre frecce di gomma perché Dio, la sera, le conta una ad una. E ci raccontava che le farfalle, l'argento, andavano a prenderlo tra le erbe profumate dei crepacci. E a Nico gli restituiva la gioia di esserci, perché gli scompigliava tutti i capelli, a lui solo, e, durante le passeggiate scolastiche, gli faceva tenere la sua borsa, con la merenda del maestro. E quando morì la sua bambina, lo vedemmo piangere di nascosto.

Forse la grandezza del mio maestro era tutta qui. In questa sua capacità di comunicare messaggi profondi più con il silenzio che con le parole, di lavorare su domande legittime, di non tirare mai conclusioni per tutti, di costruire occasioni di crescita reciproca, di accettare le differenze come un dono, di ritenere i suoi ragazzi titolari di una forte capacità progettuale, di dare più peso alla sfera relazionale che a quella dell'istruzione da trasmetterci, di interpretare la scuola come un gioco, anzi come una festa in cui il primo a divertirsi era lui.

Vorrei augurare a tutti voi che i vostri ragazzi provino per voi gli stessi sentimenti che ho provato io per il mio vecchio maestro delle elementari... statene certi: se restate saldi in Gesù e vi animerà una forte passione di trasmettere la sua Verità, essi, i vostri ragazzi di oggi, un giorno verranno a farvi visita. Sì, perché anche se saranno diventati professori dell'università gregoriana, torneranno da voi per recuperare quei frammenti di mistero, di cui non hanno ancora trovato spiegazione neppure sui libri di teologia.

Vi saluto, don Tonino Vescovo
3 marzo 1991

educareeducatoricatechistiinsegnaretestimoniaremaestridomandescuola

inviato da Anna Barbi, inserito il 29/12/2018

TESTO

49. Lettera a Rut

don Tonino Bello, www.mosaicodipace.it

Carissima Rut, avrei voluto scriverti in ben altra circostanza.
Per approfondire ad esempio le ragioni di quell'universalismo della salvezza che hanno indotto Dio a includere anche te, unica straniera nell'albero della genealogia ebraica di Gesù.
Non ti nascondo infatti che quando nella messa viene proclamata la lista degli antenati di Cristo tramandataci da Matteo, mi sorprende e mi commuove sentir pronunciare il tuo nome di donna fugace come un fremito d'ala. Sembra un nome abbreviato per pudore. O intimidito di comparire in mezzo al ferrigno scrosciare dei nomi di tanti maschioni.

Ti scrivo, invece, perché voglio sfogare con qualcuno la tristezza che mi devasta l'anima in questi giorni, alla vista di tanti stranieri che hanno invaso l'Italia, e verso i quali la nostra civiltà, che a parole si proclama multirazziale, multiculturale, multietnica, multireligiosa e multinonsoché non riesce ancora a dare accoglienze che abbiano sapore di umanità.
So bene che il problema dell'immigrazione richiede molta avvedutezza e merita risposte meno ingenue di quelle fornite da un romantico altruismo. Capisco anche le «buone ragioni» dei miei concittadini che temono chi sa quali destabilizzazioni negli assetti consolidati del loro sistema di vita. Ma mi lascia sovrappensiero il fatto che si stenti a capire le «buone ragioni» dei poveri allo sbando e che in questo esodo biblico non si riesca ancora a scorgere l'inquietante malessere di un mondo oppresso dall'ingiustizia e dalla miseria.
Tu mi sembri, allora, l'interlocutrice più adatta delle mie confidenze, dal momento che, avendo coniugato il verbo accogliere non solo nella forma attiva ma anche nella forma passiva, hai sperimentato la durezza dell'emigrazione nella duplice fase: l'esilio in patria e la ghettizzazione in terra straniera.
Non tutti conoscono la tua storia. Perciò mi scuserai se, nel rievocarne alcuni particolari, sfiorerò la discrezione e farò violenza al tuo riserbo.

Vivevi spensierata sulle alture di Moab, al di là del mar Morto, cullando sogni e parlando d'amore con le tue compagne, quando un giorno arrivò nel tuo paese una famiglia di spiantati. Erano stranieri, provenienti dalla terra di Canaan, colpita in quegli anni da una terribile carestia.
Ti impressionò subito la carnagione bruna dei due figli. Uno dei quali si accorse di te.
Ma tu eri ancora ragazzina. Tanto ragazzina, che il cuore si mise a battere di paura quando egli, con i gesti più che con le parole, venne dai tuoi genitori a chiederti come sposa.
Non so se in casa quel giorno accaddero scenate. Ma c'è da supporre che ti rinfacciarono tutta la loro disapprovazione. Che eri il disonore della famiglia. Che non ti avrebbero più riconosciuta come figlia. E che era un infamia girar le spalle tutt'una volta alla propria tradizione, alla propria lingua, alle proprie divinità, per correr dietro a una maledetto sconosciuto. E che, comunque, non avrebbero tollerato mai e poi mai, dopo averti cresciuta come un fiore, di doverti consegnare a uno di quei morti di fame. Accidenti a lui e a tutti quelli della sua razza!
Furono giorni amarissimi, ma alla fine la spuntasti tu, pur pagando caramente il prezzo della tua caparbietà.
Ti vedesti così tagliare tutti i ponti, e alla fine rimanesti sola. Al punto che, quando dopo dieci anni di tribolazione tuo marito morì e morirono anche il fratello e il padre di lui, decidesti di seguire Noemi, la suocera addolorata, che, non avendo più nessuno anche lei in quella amarissima terra straniera, volle rimpatriare.
«Dove andrai tu andrò anch'io; dove ti fermerai mi fermerò; il tuo popolo sarà il mio popolo, e il tuo Dio sarà il mio Dio; dove morirai tu morirò anch'io e vi sarò sepolta».

Varcasti così la frontiera, e cominciò per te la seconda fase della tua esperienza di “diversità”.
Un vero e proprio mestiere non ce l'avevi. Insieme con la qualifica professionale, ti mancava anche il libretto di lavoro, e a Betlemme, dove andasti ad abitare con Noemi, non ti vollero iscrivere nelle liste di collocamento. Sicché, per camparti la vita, essendo il tempo in cui si cominciava a mietere l'orzo, andasti a spigolare furtivamente nelle campagne.
O Dio, non era proprio lavoro nero, ma era certo un lavoro umiliante, perché scartato da tutti ed esposto alle molestie del mietitori.
Meno male che trovasti grazia presso un ricco massaro, un certo signor Booz, il quale ti prese a ben volere e ordinò ai suoi dipendenti: «Lasciatela spigolare anche tra i covoni e non le fate affronto; anzi lasciate cadere apposta per lei spighe dai mannelli; abbandonatele, perché essa le raccolga, e non sgridatela».
Ti andò veramente bene. Anzi meglio di così la sorte non poteva arriderti, dal momento che il massaro cominciò ad avere del tenero per te e addirittura ti volle sposare, tra la meraviglia di tutte le donne di Betlemme che creparono d'invidia. E brava la Moabita!

Carissima Rut, qualcuno potrebbe dire che, a proposito di immigrati, la tua vicenda non fa testo, perché, essendosi conclusa con la fatidica frase «e vissero felici e contenti», sembra appartenere più al genere delle telenovele che ai resoconti del telegiornale o ai servizi di Samarcanda, laddove le storie degli extracomunitari si intridono spesso di lacrime e di morte.
Io, invece, penso che nelle pieghe della tua avventura possiamo leggere il giudizio di Dio su questa impressionante transumanza di gente alla deriva.
La tua storia, insomma, ci interpella non solo con la forza esemplare del paradigma, ma anche con la sollecitazione di risposte intelligenti di fronte al fenomeno della presenza degli stranieri nel nostro territorio.
Anzitutto, ci dice che la fusione di etnie diverse è possibile: anzi, appartiene a quel pacco di progetti che costituiscono la sfida più drammatica per la sopravvivenza della nostra civiltà. La comunicazione con le culture altre, insomma non è un'utopia, né uno sterile sospiro di sognatori.

Quando alle porte della città si celebrarono le tue nozze col massaro di Betlemme, gli anziani rivolsero a Booz tuo marito uno splendido augurio, che vale tutto un trattato sulla integrazione al razziale: «Il Signore renda la donna, che entra in casa tua, come Rachele e Lia, le due donne che fondarono la casa di Israele».
In secondo luogo, la tua storia ci provoca a vincere gli istinti xenofobi che ci dormono dentro. Che si ammantano di ragioni patriottiche. Che scatenano all'interno delle nostre raffinatissime città, inqualificabili atteggiamenti di rifiuto, di discriminazione, di violenza, di razzismo. E che implorano dalle istituzioni con martellante coralità, rigorosi provvedimenti di forza.
Siamo vittime di una insopportabile prudenza, e scorgiamo sempre angoscianti minacce dietro l'angolo.
Perché lo straniero mette in crisi sostanzialmente due cose: la nostra sicurezza e la nostra identità.
Da una parte, infatti, ci toglie il lavoro, ci contende la casa, ci riduce gli spazi, entra in competizione con noi, decostruisce l'articolazione dei nostri interessi economici. Dall'altra, sembra attentare ai nostri connotati, sfida la compattezza del nostro mondo spirituale, relativizza i nostri altari, sfibra il deposito delle nostre tradizioni.

Ebbene, la tua storia ci fa capire che la segregazione è la risposta più sbagliata al problema razziale, così come rappresenta una iattura simmetrica il tentativo di voler assorbire nelle stratificazioni della nostra cultura i tratti emergenti della «diversità» altrui, senza lasciarne neppure la traccia. Solo la progressiva intersezione di aree di valori sarà capace di creare il terreno, calcando il quale nessuno debba sentirsi in esilio.

Grazie, dolcissima Rut, per questo tuo incredibile messaggio di universalità che lasci cadere dai tuoi covoni.
Dietro i quali, alla ricerca dei tratti di un mondo più solidale, siamo venuti anche noi a spigolare.

Luglio 1991

stranierimigrantimigrazionidiversitàaccoglienzaintegrazionemulticulturalità

inviato da Qumran2, inserito il 29/12/2018

TESTO

50. Il cuore di Dio. Pasqua: questo giorno, ogni giorno

Alessandro D'Avenia, Avvenire, 5 aprile 2015, Pasqua

Riparare i viventi è il titolo di un bel romanzo scritto della bravissima Maylis de Kerengal che in questi giorni mi ha accompagnato.
Mi sembra il titolo perfetto per questa domenica.
La storia parla di un adolescente che, uscito con i suoi amici in una fredda notte in cerca dell'onda perfetta da cavalcare all'alba con i loro surf ruggenti, sulla strada del ritorno ha un incidente ed entra in coma irreversibile. I suoi genitori consentono l'espianto degli organi, anche se è il cuore il vero protagonista della storia. Il cuore che viene estratto dal petto del ragazzo va a riempire quello di una donna in attesa di un organo che la salvi grazie ad un trapianto. Ad un tratto la madre di Simon, il ragazzo morto, si chiede che accadrà al contenuto del cuore di suo figlio: «Che ne sarà dell'amore di Juliette una volta che il cuore di Simon ricomincerà a battere dentro un corpo sconosciuto, che ne sarà di tutto quel che riempiva quel cuore, dei suoi affetti lentamente stratificati dal primo giorno o trasmessi qua e là in uno slancio d'entusiasmo o in un accesso di collera, le sue amicizie e le sue avversioni, i suoi rancori, la sua veemenza, le sue passioni tristi e tenere? Che ne sarà delle scariche elettriche che gli sfondavano il cuore quando avanzava l'onda? Che ne sarà di quel cuore traboccante, pieno, troppo pieno?».

Che ne sarà del nostro cuore, con tutto quello che ha filtrato di amore e disamore in una vita? Ma non è forse questo il senso della grande promessa di Dio: «Vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne» (Ez. 36, 26-7)?
Anche noi eravamo a rischio di vita, anzi eravamo già morti, il nostro cuore aveva subito troppi infarti, non riusciva più ad amare senza rischiare il colpo di grazia. E proprio per un colpo di grazia riceviamo un cuore nuovo, che viene trapiantato gradualmente nella nostra vita nella misura in cui lo vogliamo.
L'uomo nuovo di cui parla Paolo nelle sue Lettere è un uomo dopo il trapianto. Rimane l'uomo vecchio, ma il trapianto irrora gradualmente ogni fibra trasformandola. In noi comincia ad abitare il battito di un Altro, che non muore.
La vita di Dio che non può essere distrutta entra e gradualmente trapianta (ci innesta nella sua vita come si fa in botanica), purifica, trasforma, nella misura di quanto vogliamo. C'è tanto del cuore di Dio nella nostra vita quanto noi vogliamo ne venga trapiantato ogni giorno.

Ad un certo punto della narrazione il medico che condurrà l'operazione di trapianto avverte la paziente perché si prepari: «Il cuore sarà qui fra trenta minuti, è splendido, è fatto per lei, vi intenderete alla perfezione. Claire sorride: ma aspetterà che sia qui prima di togliere il mio, vero?».
Il nostro rimarrà, proprio quello nostro, ma il centro di ogni pensiero, decisione, amore, caduta, tristezza, malinconia, il motore di ogni nostro amore e disamore, non verrà tolto, ma trasformato.

La natura umana è riparata perché il Perfetto Uomo ha attraversato tutto l'umano, ha conosciuto tutto ciò che passa per il cuore dell'uomo e lo ha sentito come fosse suo, anche il peccato, non come atto ma nelle sue conseguenze (dalla tentazione, al dolore, alla morte). E quel cuore che ha cessato di battere sulla croce, quel cuore che ha dato tutto, tanto che, quando il soldato lo trafisse con la lancia, sputò sangue e acqua, il siero che si riversa nella sacca del pericardio quando dopo un infarto la parte densa del sangue si separa da quella più leggera, proprio quel cuore diventa nostro.

Quel cuore in realtà non è vuoto, non è il cuore di un morto, inservibile per un trapianto. È il cuore di un vivo, è il cuore del Vivente, è il cuore della Vita; il cuore che ci consente di avere passione per la vita e di patire per la vita; il cuore che ci concede il trasporto erotico per il creato e le creature e la capacità di patire per il creato e le creature. Il cuore di Dio, spiritualmente trapiantato in noi grazie al Battesimo e riparato dagli altri Sacramenti, batte fortissimo nel petto dei cristiani, che per questo ogni giorno, se vogliono, risorgono.
E quando quel cuore verrà pesato (amor meus pondus meum, il mio amore è il mio peso, dice Agostino) alla fine della vita lo si troverà 'pieno' dell'amore di Dio stesso, perché era il Suo in noi.

Solo lui ripara i viventi e i morenti, perché il Suo cuore non ha conosciuto la corruzione della morte, conosce solo la vita e ciò che dà la vita.
Si dice che, dopo aver bruciato Giovanna D'Arco, i carnefici trovarono intatto il suo cuore in mezzo alla cenere. Quel cuore non poteva essere distrutto, perché la sua materia non apparteneva a questo mondo e il fuoco degli uomini non poteva consumarlo. Era il cuore di Giovanna o quello di Dio?

Se è amore che vogliamo per vivere, è un cuore nuovo che vogliamo. Oggi è il giorno del trapianto.

pasquacuore nuovoconversionerinascitaamoreamare

inviato da Marcello Rosa, inserito il 06/07/2018

TESTO

51. Sfiorare Cristo   1

Don Alessandro Pronzato, Pane per la Domenica, Gribaudi 1983

Infinite volte sfioriamo il Cristo e non ce ne accorgiamo. Non lo riconosciamo. Ha il torto di avere un volto “troppo noto”. Il volto del pezzente, del bambino, del collega, della cuoca, del disoccupato, del marito, della sposa, delle donna delle pulizie, del forestiero, del malato, dell'individuo male in arnese, del carcerato. Noi, che conosciamo sin troppo bene quei volti, non sappiamo riconoscerlo. E lui continua ad essere in esilio. A casa Sua.

cristopovertàamorecaritàsolidarietàultimi

inserito il 06/07/2018

TESTO

52. Giovanotto

Eraldo, Gruppo di preghiera 1978 a San Pietro Savigliano

Giovanotto,
abbiamo bisogno di braccia per un lavoro eccezionale:
portare Cristo nel mondo.

Non avrai vita comoda in poltrona
o con le pantofole ai piedi,
un letto molleggiato,
non cibi conditi
né scarpe di camoscio.

Non ti preoccuperanno le ore di riposo, né il tempo che farà
ma soltanto il lavoro di avvicinare chiunque non conosce Cristo e dirgli:
Egli è morto per te.

Se tutto questo non ti va
continua per la tua strada...
Hai invece il coraggio?
Vieni con noi.

evangelizzazionetestimonianzaannuncio

inserito il 06/07/2018

TESTO

53. Cosa aspetti a diventare un capolavoro?   3

Abramo era vecchio;
Giacobbe era uno sbruffone;
Lia era brutta;
Mosé era un balbuziente;
Gedeone era povero in canna;
Sansone era un donnaiolo credulone;
Raab era una prostituta;
Davide era un farabutto traditore;
Elia aveva tendenze suicide;
Geremia era depresso;
Giona era intollerante e razzista;
Rut era una povera vedova;
Giovanni Battista era stravagante;
Pietro era impulsivo e vigliacco;
Marta era apprensiva;
La Samaritana aveva fallito cinque matrimoni;
Zaccheo era avido e disonesto;
Tommaso non credeva a niente;
Paolo era un fondamentalista anticristiano;
Timoteo era timido e insicuro;
Tu sei... tu.

Ma Dio che si è servito di tutte persone "poco di buono" per il suo Regno,
farà anche di te un capolavoro, se la smetti di cercare scuse...

vitapotenzialitàfiduciafiducia in Dioautostimapovertàinterioritàforzaprogetto di Dio

5.0/5 (3 voti)

inviato da Qumran2, inserito il 31/05/2018

TESTO

54. Non te ne andare

Didier Rimaud, Gli alberi nel mare, LDC 1975, pagg. 30-31

Non te ne andare giù nel giardino,
Gesù mio Signore,
non te ne andare giù nel giardino,
prima dell'alba!

Se non me ne vado giù nel giardino
a notte fonda,
chi vi guiderà
fino alle stelle del paradiso?
Sì, me ne andrò giù nel giardino
a notte fonda.

Non farti legare quelle tue mani,
Gesù mio Signore,
non farti legare quelle tue mani,
senza aprir bocca!

Se non mi faccio legare le mani
come un bandito,
chi distruggerà
sbarre e prigioni di cui soffrite?
Sì, mi farò legare le mani
come un bandito.

Non ti distendere su quella croce,
Gesù mio Signore,
non ti distendere su quella croce
fino a morire!

Se non mi distendo su quella croce
ad ali aperte,
chi vi salverà
da questo inferno a cui correte?
Sì, starò steso su quella croce
ad ali aperte.

Non ti lasciare spaccare il cuore,
Gesù mio Signore,
non ti lasciare spaccare il cuore,
da chi ti uccide!

Se non mi lascio spaccare il cuore
come un melograno,
chi vi laverà
con acqua e sangue per farvi pure?
Sì, mi lascerò spaccare il mio cuore
come un melograno.

Non farti chiudere in quella tomba,
Gesù mio Signore,
non farti chiudere in quella tomba
che ti hanno aperto!

Se non mi chiudono in quella tomba
come frumento,
chi solleverà
i vostri corpi freddi di morte?
Sì, starò chiuso in quella tomba
ma per dormire.

Cristo è disceso giù nel giardino, alleluia!
Cristo si è fatto legare le mani, alleluia!
Cristo ha voluto soffrire la croce, alleluia!
Cristo ha voluto il cuore spaccato, alleluia!
Cristo è disceso giù nel giardino, alleluia!
Cristo ha dormito nella sua tomba, alleluia!

crocifissocroceredenzionemortepassionerisurrezionevenerdì santosabato santo

inviato da Giuseppe Impastato S.I., inserito il 31/05/2018

TESTO

55. Fare il bene

Baden Powell

Essere buoni è qualche cosa, fare il bene è molto meglio.

benebontàimpegnoresponsabilitàvitasenso della vitaconcretezza

4.0/5 (1 voto)

inviato da Francesco De Luca, inserito il 31/05/2018

TESTO

56. Guida tu la tua canoa

Baden Powell

Quando ero giovane c'era in voga una canzone popolare: «Guida la tua canoa» con il ritornello: «Non startene inerte, triste o adirato. Da solo tu devi guidar la tua canoa». Questo era davvero un buon consiglio per la vita.
Nel disegno che ho fatto, sei tu che stai spingendo con la pagaia la canoa, non stai remando in una barca. La differenza è che nel primo caso tu guardi dinnanzi a te, e vai sempre avanti, mentre nel secondo non puoi guardare dove vai e ti affidi al timone tenuto da altri e perciò puoi cozzare contro qualche scoglio, prima di rendertene conto.
Molta gente tenta di remare attraverso la vita in questo modo. Altri ancora preferiscono imbarcarsi passivamente, veleggiando trasportati dal vento della fortuna o dalla corrente del caso: è più facile che remare, ma egualmente pericoloso.
Preferisco uno che guardi innanzi a sé e sappia condurre la sua canoa, cioè si apra da solo la propria strada. Guida tu la tua canoa.

impegnoresponsabilitàvitasenso della vitafelicitàstradadecisione

inviato da Francesco De Luca, inserito il 31/05/2018

TESTO

57. Cosa ti manca per essere felice?   4

Simona Atzori, Cosa ti manca per essere felice? Mondadori

Perché ci identifichiamo sempre con quello che non abbiamo, invece di guardare quello che c'è?
Spesso i limiti non sono reali, i limiti sono solo negli occhi di chi ci guarda.
Dobbiamo fermarci in tempo, prima di diventare quello che gli altri si aspettano che siamo. È nostra responsabilità darci la forma che vogliamo, liberarci di un po' di scuse e diventare chi vogliamo essere, manipolare la nostra esistenza perché ci assomigli.
Non importa se hai le braccia o non le hai, se sei lunghissimo o alto un metro e un tappo, se sei bianco, nero, giallo o verde, se ci vedi o sei cieco o hai gli occhiali spessi così, se sei fragile o una roccia, se sei biondo o hai i capelli viola o il naso storto, se sei immobilizzato a terra o guardi il mondo dalle profondità più inesplorate del cielo. La diversità è ovunque, è l'unica cosa che ci accomuna tutti.
Tutti siamo diversi, e meno male, altrimenti vivremmo in un mondo di formiche.
Non c'è nulla che non possa essere fatto, basta trovare il modo giusto per farlo.
Io tengo il microfono con i piedi, altri con le mani, altri ancora lo tengono sull'asta. Sta a noi trovare il modo giusto per noi.
Io credo nella legge dell'attrazione: quello che dai ricevi. Se trasmetti amore, attenzione, serenità; se guardi alla vita con uno sguardo costruttivo; se scegli di essere attento agli altri e al loro benessere; se conservi le cose che ami e lasci scivolare via quelle negative, la vita ti sorriderà.
Se avessi avuto paura sarei andata all'indietro, invece che avanti. Se mi fossi preoccupata mi sarei bloccata, non mi sarei buttata, avrei immaginato foschi scenari e mi sarei ritirata. Invece ho immaginato. Adesso sono felice, smodatamente, spudoratamente felice. Ed è una gioia raccontarla, questa mia felicità.

felicitàlimitiaccettazionegratitudineprogettorealizzazioneimpegnodiversitàpositività

5.0/5 (1 voto)

inserito il 22/03/2018

TESTO

58. Famiglia luogo di perdono   1

Non esiste una famiglia perfetta. Non abbiamo genitori perfetti, non siamo perfetti, non sposiamo una persona perfetta, non abbiamo figli perfetti. Abbiamo lamentele da parte di altri. Ci siamo delusi l'un l'altro. Pertanto, non esiste un matrimonio sano o una famiglia sana senza l'esercizio del perdono. Il perdono è vitale per la nostra salute emotiva e per la nostra sopravvivenza spirituale. Senza perdono la famiglia diventa un'arena di conflitto e una ridotta di punizioni.
Senza perdono, la famiglia si ammala. Il perdono sterilizza dell'anima, pulisce la mente, libera il cuore. Colui che non perdona non ha pace nell'anima o comunione con Dio. Il dolore è un veleno che intossica e uccide. Mantenere il dolore nel cuore è un gesto autodistruttivo. Colui che non perdona diventa fisicamente, emotivamente e spiritualmente malato.
Ed è per questo che la famiglia ha bisogno di essere un luogo di vita e non di morte, il territorio della cura e non della malattia, lo scenario del perdono e non della colpa.
Il perdono porta gioia dove il dolore produce tristezza e dove il dolore ha causato la malattia.

Testo erroneamente attribuito a Papa Francesco, non se ne conosce la fonte corretta.

famigliaperdonoimperfezioneaccettazionemisericordiacoppiagenitorifiglimatrimonio

3.0/5 (2 voti)

inviato da Qumran2, inserito il 22/03/2018

TESTO

59. Dieci ladri della tua energia   2

Dalai Lama

1. Lascia andare le persone che solo condividono lamentele, problemi, storie disastrose, paura e giudizio sugli altri. Se qualcuno cerca un cestino per buttare la sua immondizia, fa sì che non sia la tua mente.

2. Paga i tuoi debiti in tempo. Nel contempo fai pagare a chi ti deve o scegli di lasciarlo andare, se ormai non lo può fare.

3. Mantieni le tue promesse. Se non l'hai fatto, domandati perché fai fatica. Hai sempre il diritto di cambiare opinione, scusarti, compensare, rinegoziare e offrire un'alternativa ad una promessa non mantenuta; ma non farlo diventare un'abitudine. Il modo più semplice di evitare di non fare una cosa che prometti di fare e dire NO subito.

4. Elimina nel possibile e delega i compiti che preferisci non fare e dedica il tuo tempo a fare quelli che ti piacciono.

5. Permettiti di riposare quando ti serve e dati il permesso di agire se hai un'occasione buona.

6. Butta, raccogli e organizza, niente ti prende più energia di uno spazio disordinato e pieno di cose del passato che ormai non ti servono più.

7. Dà priorità alla tua salute, senza il macchinario del tuo corpo lavorando al massimo, non puoi fare molto. Fai delle pause.

8. Affronta le situazioni tossiche che stai tollerando, da riscattare un amico o un famigliare, fino a tollerare azioni negative di un compagno o un gruppo; prendi l'azione necessaria.

9. Accetta. Non per rassegnazione, ma niente ti fa perdere più energia di litigare con una situazione che non puoi cambiare.

10. Perdona, lascia andare una situazione che è causa di dolore, puoi sempre scegliere di lasciare il dolore del ricordo.

serenitàcrescita personaleaccettazioneperdonosalutelibertà

3.0/5 (2 voti)

inviato da Qumran2, inserito il 19/02/2018

TESTO

60. Auguri di Natale non in serie

don Tonino Bello

Carissimi,
formulare gli auguri di Natale dovrebbe essere la cosa più semplice di questo mondo. Invece, quest'anno sto provando tanta difficoltà. Ho scritto e riscritto cento volte l'attacco di questa lettera, ma mi è parso di dire sempre delle cose estremamente banali. Come sono banali certi presepi bell'e confezionati che si acquistano ai grandi magazzini. Saranno anche attraenti con i loro svolazzi di angeli e con i loro muschi di plastica. Ma sono freddi. Perché fatti in serie.
Ecco: è proprio la «serialità» che mi mette in crisi. Ho l'impressione, cioè, di esporre anch'io la mia merce preconfezionata, e poi lasciare che ognuno si serva da solo, come nei self-service di certi ristoranti.
È qui lo sbaglio: nella pretesa di voler trovare delle formule standard, buone per tutti. Invece, a Natale, non si possono porgere auguri indistinti.

Dire buon Natale a te, Ignazio, che vivi immobilizzato da anni, dopo quel terribile incidente stradale che ti ha ridotto a un rudere, è molto diverso che dire Buon Natale a te, Franco, che hai fatto spese pazze per rinnovarti l'attrezzatura sciistica, e il 25 dicembre lo passerai in montagna, dove hai già prenotato l'albergo per la settimana bianca. Tu, Ignazio, la stella cometa del presepe non la vedi neanche, perché non puoi muovere la testa dal guanciale. E, allora, devo descrivertela io, e dirti che essa fa luce anche per te, e assicurarti che Gesù è venuto a dare senso alla tua tragedia e che, nella Notte Santa, anzi, ogni notte della tua vita, egli trasloca dalla mangiatoia per venirti accanto e farsi scaldare da te. Tu, Franco, la stella cometa non la vedi perché non hai tempo per pensare a queste cose, e in testa hai ben altre stelle. E, allora, devo provocartene io la nostalgia, e dirti che le lampade dei ritrovi mondani dove consumi le tue notti e i tuoi soldi, non fanno luce sufficiente a dar senso alla tua vita.

Dire buon Natale a te, Katia, che il 26 andrai all'altare con Cosimo, è molto diverso che dire buon Natale a Rosaria, che il mese scorso ha firmato la separazione consensuale, dopo che Gigi se n'è andato con un'altra. Perché a te, Katia, basterà l'invito a vedere nel presepe la celebrazione nuziale suprema di Dio che prende in sposa l'umanità, e già ti sentirai coinvolta nel mistero dell'incarnazione. A te, Rosaria, invece, che per la prima volta le feste le passerai sola in casa, e che non hai voglia neppure di andare a pranzo dai tuoi, occorrerà tutta la mia discrezione per farti capire che non è molto dissimile il ripudio subito da Gesù nella notte santa. Buon Natale, Rosaria. E buon Natale anche a Gigi, perché, scorgendo nel bambino del presepe il mistero della fedeltà di Dio, torni presto a casa.

Dire buon Natale a te, carissimo Nicola, che mi sei tanto vicino con la tua amicizia ma anche tanto lontano con l'ateismo che professi, è molto diverso che dire buon Natale a te, don Donato, che le parole di santità, tu sei bravo a dirmele più di quanto io non sappia fare con te. Perché tu, don Donato, hai un cuore che trabocca di tenerezza, e quando parli del Verbo che scende sulla terra e diventa l'Emmanuele, cioè il Dio con noi, si vede che ci credi a quello che dici, e daresti la vita perché anche gli altri ponessero lo sguardo su quel pozzo di luce che rischia di accecare i tuoi occhi. Mentre tu, Nicola, davanti al presepe resti impassibile, e il bue e l'asino ti fanno sorridere, e l'incanto di quella notte ti sembra una fuga dalla realtà, e rassomigli tanto a qualcuno di quei pastori (qualcuno ci deve essere pur stato!) che, all'apparizione degli angeli, non si è neppure scomposto ed è rimasto a scaldarsi davanti al fuoco del suo scetticismo. Non voglio forzare la tua coscienza: ma sei proprio sicuro che, quel bambino non abbia nulla da dirti, e che questo mistero (che tu vorresti confinare tra le favole) di Dio fatto uomo per amore, sia completamente estraneo al tuo bisogno di felicità? Auguri, comunque, perché la tua irreprensibile onestà umana trovi nella culla di Betlemme la sua sorgente e il suo estuario.

Dire buon Natale a te, Corrado, che vivi nella casa di riposo, e la sera ti lasci cullare dalle nenie pastorali, e te ne vai sulle ali della fantasia ai tempi di quando eri bambino, e la tua anima brulica di ricordi più di quanto i tratturi del presepe non brulichino di percorelle, e pensi che questo sarà forse il tuo ultimo Natale, e ti raffiguri già il momento in cui Gesù lo contemplerai faccia a faccia con i tuoi occhi... è molto diverso che fare gli auguri a te, Antonietta, che hai vent'anni e tutti dicono che non sei più quella di una volta, e l'altro giorno mi hai confidato che non fai più parte del coro e che forse quest'anno non ti confesserai neppure. Buon Natale, Antonietta. Pregherò perché tu possa trovare cinque minuti per piangere da sola davanti alla culla, e in quel pianto tu possa sperimentare le stesse emozioni di quando la semplice carta stagnola del presepe ti faceva trasalire di felicità.

Un conto è dire buon Natale a te, Gianni, che stai in ospedale e oggi anche i medici se ne sono andati e tu non vedi l'ora che arrivi il momento delle visite per poter parlare con qualcuno, e un conto è dire buon Natale a te, Piero, che in carcere nessuno verrà a trovare dopo che ne hai combinate di tutti i colori perfino a tuo padre e a tua madre. Auguri a tutti e due, comunque, e ai vostri compagni di corsia o di cella: Gesù Cristo vi restituisca la salute del corpo e quella dello spirito.

Buon Natale a te, Carmela, che sei rimasta vedova. A te, Marina, che sei felice perché le cose vanno bene. A te, Michele, che ti disperi perché le cose vanno male. A te, Mussif, e a tutti i profughi albanesi che vivono insieme nella casa di accoglienza. A te, Sahid, che guardi alla televisioni gli spettacoli dell'Unicef sui bambini irakeni e slavi decimati dalla fame, e, per un'associazione di immagini non certo molto strana, pensi ai tuoi figli che hai lasciato in Tunisia.

Dopo che l'ho poggiata sull'altare, profumata d'incenso e grondante ancora di benedizioni divine, voglio dare la mano a tutti, sicuro che nessuno tirerà indietro la sua.

Perché a Natale, felice o triste che sia, fedele o miscredente, miserabile o miliardario, ognuno avverte, chi sa per quale mistero, che di quel bambino «avvolto in fasce e deposto nella mangiatoia», una volta che l'ha conosciuto, non può più fare a meno.

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5.0/5 (1 voto)

inserito il 19/02/2018

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