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PREGHIERA
141. Signore aiutami a dire "sì" 1
Ho paura a dirti di "sì", Signore.
Non so ancora che cosa vuoi e dove mi vuoi portare. Ho paura che tu mi voglia condurre proprio là dove io non voglio andare.
Ho paura che tu mi spinga per strade a me non gradite, di firmare una carta in bianco, di dirti un "sì" che poi reclama altri "sì"...
Mi fai paura, Signore, anche se sento di amarti.
Ho paura del tuo sguardo, perché esso è irresistibile. Ho paura della tua esigenza, perché sei un Dio geloso. Ho paura del tuo amore, perché sei troppo misterioso e impegnativo.
E con queste paure, mi dibatto in contraddizioni e in angosce a non finire.
Sono incerto sulle mie scelte, insicuro nelle mie decisioni, e sempre più insoddisfatto di ciò che sono e di ciò che faccio.
Ma che cosa vuoi da me, Signore?
Dio terribile, che cosa vuoi ancora?
Tu mi dici:
Piccolo, voglio ridimensionare la tua vita.
Fino ad ora, sei stato tu a decidere.
Più o meno, hai sempre fatto quello che volevi, e poi pretendevi che io ti seguissi, cercando una convalida alle tue decisioni.
Ma non puoi continuare così.
Devi capire che hai invertito le parti: hai giocato quel ruolo di protagonista che spetta gelosamente a Me.
Non lo debbo dire "sì" a te, ma tu a Me.
A me spettano l'iniziativa e tutte le scelte che ti riguardano.
Io devo essere il centro di ogni tua cosa e, soprattutto, del tuo cuore.
Mi devi seguire docilmente.
Mi devi consegnare la tua volontà.
Mi devi dare tutto.
Ho bisogno del tuo "sì", come ebbi bisogno del "sì" di Maria per venire, come uomo, sulla terra.
Dimmi un sì come me lo disse Lei: deciso, incondizionato, fidente, affettuoso.
Fidati di me.
Signore, aiutami a comprendere che tu non hai bisogno delle mie sufficienze; a capire che io non sono poi tanto importante e necessario.
Fammi capire che a nulla giova continuare a discutere, a contestare, a resisterti.
Infondimi forza e decisione perché possa aderire al tuo progetto.
E perché venga il tuo regno e non il mio, perché sia fatta la tua volontà e non la mia, aiutami a dire "Si", ma subito,
e con amore.
abbandono in Diorapporto con Dioabbandonovocazionechiamataprogetto di Dio
inviato da Anna Lollo, inserito il 28/07/2004
PREGHIERA
142. Preghiera del sacerdote la domenica sera 4
Michel Quoist, Preghiere
Signore, stasera, sono solo.
A poco a poco, i rumori si sono spenti nella chiesa,
le persone se ne sono andate,
ed io sono rientrato in casa,
solo.
Ho incontrato la gente che tornava da passeggio.
Sono passato davanti al cinema che sfornava la sua porzione di folla.
Ho costeggiato le terrazze dei caffè, in cui i passanti,
stanchi, cercavano di prolungare la gioia di vivere una domenica di festa.
Ho urtato i bambini che giocavano sul marciapiede,
i bambini o Signore,
i bambini degli altri, che non saranno mai i miei.
Eccomi, Signore
solo.
Il silenzio mi incomoda,
la solitudine mi opprime.
Signore, ho 35 anni,
un corpo fatto come gli altri,
braccia nuove per il lavoro,
un cuore riservato all'amore,
ma ti ho donato tutto.
È vero, tu ne avevi bisogno.
Io ti ho dato tutto ma è duro, o Signore.
È duro dare il proprio corpo: vorrebbe darsi ad altri.
È duro amare tutti e non serbare alcuno.
È duro stringere una mano senza volerla trattenere.
È duro far nascere un'affetto, ma per donarlo a Te.
È duro non essere niente per sé per esser tutto per loro.
È duro essere come gli altri, fra gli altri, ed esser un'altra.
È duro dare sempre senza cercare di ricevere.
È duro andare incontro agli altri, senza che mai qualcuno ti venga incontro.
È duro soffrire per i peccati degli altri, senza poter rifiutare di accoglierli e portarli.
È duro ricevere i segreti, senza poterli condividere.
È duro sempre trascinare gli altri e non mai potere, anche solo un'istante, farsi trascinare.
È duro sostenere i deboli senza potersi appoggiare ad uno forte
È duro essere solo,
solo davanti a tutti,
Solo davanti al Mondo.
Solo davanti alla sofferenza,
alla morte,
al peccato.
Figlio, non sei solo,
io sono con te,
Sono te.
Perché avevo bisgono di un'umanità in più
per continuare la Mia Incarnazione e la Mia Redenzione.
Dall'eternità Io ti ho scelto,
ho bisogno di te.
Ho bisogno delle tue mani per continuare a benedire,
Ho bisogno delle tue labbra per continuare a parlare,
Ho bisogno del tuo corpo per continuare a soffrire,
Ho bisogno del tuo cuore per continuare ad amare,
Ho bisogno di te per continuare a salvare,
Resta con Me, Figlio mio.
Eccomi, Signore;
ecco il mio corpo,
ecco il mio cuore,
ecco la mia anima.
Concedimi d'essere tanto grande da raggiungere il Mondo,
tanto forte da poterlo portare,
tanto puro da abbracciarlo senza volerlo tenere.
Concedimi d'essere terreno d'incontro,
ma terreno di passaggio,
strada che non ferma a sé,
perché non vi è nulla di umano da cogliervi
che non conduca a te.
Signore, stasera, mentre tutto tace e nel mio cuore sento
duramente questo morso della solitudine,
mentre il mio corpo urla a lungo la sua fame di piacere,
mentre gli uomini mi divorano l'anima ed io mi sento incapace di saziarli,
mentre sulle mie spalle il mondo intero pesa con tutto il suo peso di miseria e di peccato,
io ti ripeto il mio sì, non in una risata, ma lentamente, lucidamente, umilmente.
Solo, o Signore davanti a te,
nella pace della sera.
I fedeli sono esigenti verso il loro prete. Hanno ragione. Ma devono sapere che è duro essere prete. Chi si è donato nella piena generosità della sua giovinezza rimane un uomo, ed ogni giorno in lui l'uomo cerca di riprendere quel che ha donato. È una lotta continua per restare totalmente disponibile al Cristo e agli altri.
Il prete non ha bisogno di complimenti o di regali imbarazzanti: ha bisogno che i cristiani, di cui ha in modo speciale la cura, amando sempre più i loro fratelli, gli provino che non ha dato invano la sua vita. E poiché rimane un uomo, può aver bisogno una volta d'un gesto delicato di amicizia disinteressata... una domenica sera in cui è solo.
Seguitemi ed io vi farò pescatori di uomini. (Mc 1,17)
Non voi avete scelto me, ma io ho sceto voi e vi ho destinati ada ndare a portare frutto, un frutto che rimanga. (Gv 15,16)
Dimentico del cammino percorso, mi protendo in avanti, corro verso la meta, per conseguire lassù il premio della vocazione di Dio nel Cristo Gesù. (Fil 3,13-14)
sacerdoziopretesacerdotesolitudineoffertà di sédonazione
inviato da Anna Barbi, inserito il 27/07/2004
TESTO
Melinda Tamàs-Tarr, Osservatorio Letterario, Ferrara e l'Altrove
Le melodie delle voci angeliche
risuonan ancora nel mio cuore
come un dolce accordo finale
a mezzanotte della masse di Natale.
Nel mio povero animo festoso
nasce un inspiegabile sentimento
come se fosse un sussurro del Cielo
per gridar fortemente al Mondo intero:
«È nato il piccolo Bambino Santo
il Salvatore nostro: Gesù Cristo...»
Come da piccola, anche adesso
L'aspetto con gran raccoglimento
calcolando le ore ed ogni minuto
che mi separano dal grande evento.
In tutti gli anni nel periodo d'Avvento
i miei genitori raccontavan col mistero
la storia della nascita di Gesù Bambino
che venne al nostro mondo cattivo
a liberarci e portarci un giorno
dal Buon Padre Eterno nel Suo Impero...
Alla notte della Vigilia in ogni anno
festeggiamo il Suo compleanno
con lo stesso spirito dei Re Magi
ed anche noi riceviamo alcuni doni.
Quando si sente il melodico tintinnio
s'entra nella stanza in cui splende l'albero
ch'è pieno di luci e tante decorazioni,
sotto c'è il Presepe con i nostri regali.
Che magia si sente nel nostro animo
davanti a questo splendido albero
ed i nostri occhi si fermano sul viso
dell'unico festeggiato: Bambin Divino...
Tutto questo è un bel mondo fatato:
s'ha paura anche a prender un respiro
per non rompere quest'incantesimo
che ha assediato il nostro spirito,
si ha l'impressione del Gran Paradiso
d'esser circondati d'un coro angelico...
È arrivato il momento della preghiera
poi recitare una sacra canzoncina
in cui lodiamo il piccolo Bimbo Santo...
«È arrivata finalmente l'aspettata notte,
ed in alto splendono le luci delle stelle,
l'albero del nostro Gesù bambino
l'hanno portato gli Angeli del Cielo.
Ti ringraziamo Bambino di Betlemme
per il grand'amore del Tuo Cuore
e con il coro d'Angeli del Cielo
il Tuo Santo Nome oggi lodiamo.
Anche se passerà questo natale
Resta sempre con noi, per favore,
Ti ringraziamo d'amare ancora
questa nostra piccola famiglia!...»
II^ classificata al Concorso «Natale a Vada 1995» dell'Accademia Italiana «Gli Etruschi», 1995. Dalla p. 233 dell'Antologia «La gatta sul divano», Edizione Lisi, 1996. e dall'Osservatorio Letterario - Ferrara e l'Altrove.
inviato da Melinda TamàS-Tarr, inserito il 27/07/2004
RACCONTO
Tetro e ogivale è l'antico palazzo dei vescovi, stillante salnitro dai muri, rimanerci è un supplizio nelle notti d'inverno. E l'adiacente cattedrale è immensa, a girarla tutta non basta una vita, e c'è un tale intrico di cappelle e sacrestie che, dopo secoli di abbandono, ne sono rimaste alcune pressoché inesplorate. Che farà la sera di Natale - ci si domanda - lo scarno arcivescovo tutto solo, mentre la città è in festa? Come potrà vincere la malinconia? Tutti hanno una consolazione: il bimbo ha il treno e pinocchio, la sorellina ha la bambola, la mamma ha i figli intorno a sé, il malato una nuova speranza, il vecchio scapolo il compagno di dissipazioni, i1 carcerato la voce di un altro dalla cella vicina. Come farà l'arcivescovo? Sorrideva lo zelante don Valentino, segretario di sua eccellenza, udendo la gente parlare così. L'arcivescovo ha Dio, la sera di Natale. Inginocchiato solo soletto nel mezzo della cattedrale gelida e deserta a prima vista potrebbe quasi far pena, e invece se si sapesse! Solo soletto non è, non ha neanche freddo, né si sente abbandonato. Nella sera di Natale Dio dilaga nel tempio, per l'arcivescovo, le navate ne rigurgitano letteralmente, al punto che le porte stentano a chiudersi; e, pur mancando le stufe, fa così caldo che le vecchie bisce bianche si risvegliano nei sepolcri degli storici abati e salgono dagli sfiatatoi dei sotterranei sporgendo gentilmente la testa dalle balaustre dei confessionali.
Così, quella sera il Duomo; traboccante di Dio. E benché sapesse che non gli competeva, don Valentino si tratteneva perfino troppo volentieri a disporre l'inginocchiatoio del presule. Altro che alberi, tacchini e vino spumante. Questa, una serata di Natale. Senonché in mezzo a questi pensieri, udì battere a una porta. "Chi bussa alle porte del Duomo" si chiese don Valentino "la sera di Natale? Non hanno ancora pregato abbastanza? Che smania li ha presi?" Pur dicendosi così andò ad aprire e con una folata divento entrò un poverello in cenci.
"Che quantità di Dio!" esclamò sorridendo costui guardandosi intorno, "Che bellezza! Lo si sente perfino di fuori. Monsignore, non me ne potrebbe lasciare un pochino? Pensi, è la sera di Natale".
"E' di sua eccellenza l'arcivescovo" rispose il prete. "Serve a lui, fra un paio d'ore. Sua eccellenza fa già la vita di un santo, non pretenderai mica che adesso rinunci anche a Dio! E poi io non sono mai stato monsignore."
"Neanche un pochino, reverendo? Ce n'è tanto! Sua eccellenza non se ne accorgerebbe nemmeno!"
"Ti ho detto di no... Puoi andare... Il Duomo è chiuso al pubblico" e congedò il poverello con un biglietto da cinque lire.
Ma come il disgraziato uscì dalla chiesa, nello stesso istante Dio disparve. Sgomento, don Valentino si guardava intorno, scrutando le volte tenebrose: Dio non c'era neppure lassù. Lo spettacoloso apparato di colonne, statue, baldacchini, altari, catafalchi, candelabri, panneggi, di solito così misterioso e potente, era diventato all'improvviso inospitale e sinistro. E tra un paio d'ore l'arcivescovo sarebbe disceso.
Con orgasmo don Valentino socchiuse una delle porte esterne, guardò nella piazza. Niente. Anche fuori, benché fosse Natale, non c'era traccia di Dio. Dalle mille finestre accese giungevano echi di risate, bicchieri infranti, musiche e perfino bestemmie. Non campane, non canti.
Don Valentino uscì nella notte, se n'andò per le strade profane, tra fragore di scatenati banchetti. Lui però sapeva l'indirizzo giusto. Quando entrò nella casa, la famiglia amica stava sedendosi a tavola. Tutti si guardavano benevolmente l'un l'altro e intorno ad essi c'era un poco di Dio.
"Buon Natale, reverendo" disse il capofamiglia. "Vuol favorire?"
"Ho fretta, amici" rispose lui. "Per una mia sbadataggine Iddio ha abbandonato il Duomo e sua eccellenza tra poco va a pregare. Non mi potete dare il vostro? Tanto, voi siete in compagnia, non ne avete un assoluto bisogno."
"Caro il mio don Valentino" fece il capofamiglia. "Lei dimentica, direi, che oggi è Natale. Proprio oggi i miei figli dovrebbero far a meno di Dio? Mi meraviglio, don Valentino."
E nell'attimo stesso che l'uomo diceva così Iddio sgusciò fuori dalla stanza, i sorrisi giocondi si spensero e il cappone arrosto sembrò sabbia tra i denti.
Via di nuovo allora, nella notte, lungo le strade deserte. Cammina cammina, don Valentino infine lo rivide. Era giunto alle porte della città e dinanzi a lui si stendeva nel buio, biancheggiando un poco per la neve, la grande campagna. Sopra i prati e i filari di gelsi, ondeggiava Dio, come aspettando. Don Valentino cadde in ginocchio.
"Ma che cosa fa', reverendo?" gli domandò un contadino. "Vuoi prendersi un malanno con questo freddo?"
"Guarda laggiù figliolo. Non vedi?"
Il contadino guardò senza stupore. "È nostro" disse. "Ogni Natale viene a benedire i nostri campi."
" Senti " disse il prete. "Non me ne potresti dare un poco? In città siamo rimasti senza, perfino le chiese sono vuote. Lasciamene un pochino che l'arcivescovo possa almeno fare un Natale decente."
"Ma neanche per idea, caro il mio reverendo! Chi sa che schifosi peccati avete fatto nella vostra città. Colpa vostra. Arrangiatevi."
"Si è peccato, sicuro. E chi non pecca? Ma puoi salvare molte anime figliolo, solo che tu mi dica di sì."
"Ne ho abbastanza di salvare la mia!" ridacchiò il contadino, e nell'attimo stesso che lo diceva, Iddio si sollevò dai suoi campi e scomparve nel buio.
Andò ancora più lontano, cercando. Dio pareva farsi sempre più raro e chi ne possedeva un poco non voleva cederlo (ma nell'atto stesso che lui rispondeva di no, Dio scompariva, allontanandosi progressivamente).
Ecco quindi don Valentino ai limiti di una vastissima landa, e in fondo, proprio all'orizzonte, risplendeva dolcemente Dio come una nube oblunga. Il pretino si gettò in ginocchio nella neve. "Aspettami, o Signore " supplicava "per colpa mia l'arcivescovo è rimasto solo, e stasera è Natale!"
Aveva i piedi gelati, si incamminò nella nebbia, affondava fino al ginocchio, ogni tanto stramazzava lungo disteso. Quanto avrebbe resistito?
Finché udì un coro disteso e patetico, voci d'angelo, un raggio di luce filtrava nella nebbia. Aprì una porticina di legno: era una grandissima chiesa e nel mezzo, tra pochi lumini, un prete stava pregando. E la chiesa era piena di paradiso.
"Fratello" gemette don Valentino, al limite delle forze, irto di ghiaccioli "abbi pietà di me. Il mio arcivescovo per colpa mia è rimasto solo e ha bisogno di Dio. Dammene un poco, ti prego."
Lentamente si voltò colui che stava pregando. E don Valentino, riconoscendolo, si fece, se era possibile, ancora più pallido.
"Buon Natale a te, don Valentino" esclamò l'arcivescovo facendosi incontro, tutto recinto di Dio. "Benedetto ragazzo, ma dove ti eri cacciato? Si può sapere che cosa sei andato a cercar fuori in questa notte da lupi?"
inviato da Manuel Toniato, inserito il 27/07/2004
RACCONTO
145. Perché suonano le campane
C'era una volta, in una grande città, una chiesa davvero splendida. Dall'ingresso principale si riusciva a malapena a scorgere l'altare di pietra che si trovava all'altro capo. Di fianco alla chiesa si levava un campanile, simile a una torre, così alto nel cielo che la punta si distingueva soltanto quando il tempo era molto limpido.
Lassù nella torre vi erano delle campane che si diceva fossero le più belle e le più sonore del mondo, ma nessun essere vivente le aveva mai sentite!
Erano le campane speciali di Natale: potevano far udire i loro rintocchi solo la notte di Natale e, per di più, soltanto quando fosse stato deposto sull'altare il più grande e il più bel dono al Bambino Gesù. Purtroppo, da molti anni non si era avuta un' offerta così splendida da meritare il suono delle grandi campane.
Tuttavia, ogni vigilia di Natale, la gente si affollava davanti all'altare portando doni, cercando di superarsi gli uni con gli altri, gareggiando nell'escogitare offerte sempre più straordinarie. Nonostante la chiesa fosse affollata e la funzione splendida, lassù nella torre di pietra si udiva soltanto fischiare il vento.
In un villaggio abbastanza lontano dalla città viveva un ragazzo di nome Pedro, insieme al suo fratellino. Essi avevano sentito parlare delle famose offerte della vigilia di Natale, e per tutto l'anno avevano fatto progetti per assistere alla grande e sfarzosa cerimonia, e per la Messa di mezzanotte.
Il mattino precedente il giorno di Natale, all'alba, mentre cadevano i primi fiocchi di neve, Pedro e il fratellino si misero in cammino. Al calar della notte, avevano già quasi raggiunto la porta della città quando, per terra davanti a loro, scorsero una povera donna che era caduta nella neve, troppo stanca e malata per cercare rifugio da qualche parte. Pedro si inginocchiò cercando di alzarla, ma non vi riuscì.
«Non ce la faccio, fratellino» disse Pedro. «È troppo pesante. Devi proseguire da solo».
«lo? Da solo?» esclamò il fratellino. «Ma allora tu non ci sarai alla funzione di Natale».
«Non posso fare altrimenti» disse Pedro. «Guarda questa povera donna. Il suo viso è simile a quello della Madonna nella finestra della cappella. Morirà di freddo se l'abbandoniamo. Sono andati tutti in chiesa, ma io starò qui e mi prenderò cura di lei fino alla fine della Messa. Allora tu potrai condurre qui qualcuno che l'aiuti. Ah, fratellino, prendi questa monetina d'argento e deponila sull'altare: è la mia offerta per il Bambino Gesù. Su, ora, corri!».
E mentre il bambino si avviava verso la chiesa, Pedro sbatté gli occhi per trattenere le lacrime di delusione che gli rigavano le guance. Poi passò un braccio dietro al capo della povera donna che si lamentava debolmente e cercò di sorriderle.
«Coraggio, signora», le disse, «tra poco arriverà qualcuno».
Nella grande chiesa, la funzione di quella vigilia di Natale fu più splendida che mai! L'organo suonò e i fedeli cantarono e, alla fine della funzione, poveri e ricchi avanzarono orgogliosamente verso l'altare per offrire i loro doni. A poco a poco, sull'altare, si accumularono oggetti splendidi d'oro, d'argento e d'avorio intarsiato; dolci elaborati nei modi più impensati; stoffe dipinte e broccati.
Ultimo, in un gran fruscio di seta e tintinnar di spade, il re del paese percorse la navata. Portava in mano la corona regale, tempestata di pietre preziose che mandavano barbagli di luce tutt'intorno.
Un fremito di eccitazione scosse la folla.
«Senza dubbio questa volta si sentiranno suonare le campane a festa!» mormoravano tutti.
Il re depose sull'altare la splendida corona. La chiesa piombò in un silenzio profondo. Tutti trattennero il respiro, con le orecchie tese per ascoltare il suono delle campane.
Ma soltanto il solito freddo vento sibilò sul campanile.
I fedeli scossero la testa increduli. Qualcuno cominciò a dubitare che quelle strane campane avessero mai potuto suonare. «Forse si sono bloccate per sempre!» sosteneva qualche altro.
La processione era terminata e il coro stava per iniziare l'inno di chiusura, quando all'improvviso l'organista smise di suonare paralizzato. Perché d'un tratto dalla cima della torre si era levato il dolce suono delle campane. Un suono ora alto ora basso, che fluttuava nell'aria riempiendola di festosa sonorità.
Era il suono più angelico e piacevole che mai si fosse udito.
La folla restò un attimo eccitata e silenziosa. Poi, tutti insieme, si alzarono volgendo gli occhi all'altare per vedere quale meraviglioso dono aveva finalmente risvegliato le campane dal loro lungo silenzio. Ma non videro altro che la figura di Fratellino che silenziosamente era scivolato lungo la navata per deporre sull'altare la monetina d'argento di Pedro.
condivisionenataleoffertacaritàsolidarietàpovertàamore
inviato da Patrizia Traverso, inserito il 10/07/2004
TESTO
Desmond Tutu, traduzione Guiomar Parada
Oggi la maggior parte del Terzo Mondo è tenuta in ostaggio da una schiavitù altrettanto orribile, nelle sue conseguenze devastanti, di quella del passato. La maggior parte del Terzo Mondo è stremato sotto il peso del più invalidante e stremante debito internazionale. Le statistiche sono impressionanti: in Etiopia 100.000 bambini muoiono ogni anno di malattie facili da prevenire, mentre il governo spende per ripagare il debito quattro volte quello che spende per la spesa sanitaria.
Spesso ci è difficile capire le statistiche e gli giriamo le spalle. E' tutto così impersonale. Proviamo a personalizzarlo un poco. Immaginate il vostro piccolo, non vaccinato contro il morbillo o la difterite, che lentamente si spegne davanti ai vostri occhi senza che voi possiate fare alcunché, perché non ci sono medicinali a disposizione.
I paesi poveri sono costretti alla povertà, all'ignoranza, alla malattia, alla fame e alla morte. Le risorse che dovrebbero essere impegnate per costruire strade e dighe, per le scuole e per pagare i maestri, per comperare libri e per l'assistenza sanitaria, sono deviate, con conseguenze disastrose, per ripagare debiti che non diminuiscono, ma anzi aumentano per via dei crescenti tassi d'interesse e della svalutazione delle valute di questi paesi poveri. Anche se economicamente fosse una cosa logica, e non lo è, certamente non è logico dal punto di vista morale.
I paesi poveri non sono in grado di spezzare le catene che li hanno schiavizzati in maniera così rovinosa. Noi che seguiamo il Falegname di Nazareth sappiamo che quando si dà da mangiare agli affamati e da vestire ai poveri, lo si fa per Lui ed Egli ci ha esortato a perdonare i nostri debitori per essere perdonati dal nostro Padre in cielo. Ma più chiaramente siamo vincolati dalla lezione del Capitolo 25 del Levitico, che decreta che ogni 50 anni gli schiavi siano messi in libertà, che i debiti siano cancellati e che la proprietà ipotecata ritorni ai proprietari legittimi senza vincoli, per dare una opportunità alle persone di ricominciare da capo, di iniziare nuovamente, nello spirito della nostra fede che è la fede di sempre nuovi inizi quando si è perdonati. Le cancellazioni del debito si sono già verificate nel passato; nei confronti della Germania dopo la guerra, e gli Usa hanno cancellato 7 miliardi di dollari all'Egitto a seguito dell'operazione Desert Storm.
I paesi poveri, sollevati dal vincolo del debito, potrebbero sviluppare economie robuste che potrebbero diventare anche vigorosi mercati di consumo. Siamo fatti per essere uniti. In Africa diciamo che "una persona è una persona attraverso altre persone". Siamo legati da una delicata rete di interdipendenza. Crediamo nell'ubuntu, la mia umanità è dentro alla tua umanità. Ubuntu parla di generosità, di compassione, di ospitalità, di condivisione. Io sono perché voi siete. Se io vi disumanizzo, allora, che lo voglia o no, mi disumanizzo anch'io. Liberare il Terzo Mondo da questa nuova forma di schiavitù vi permetterà di rendere migliore la vostra propria umanità e camminerete a testa alta, anche voi liberati.
(l'autore è premio Nobel per la pace)
povertàricchezzagiustiziaingiustiziafame nel mondomondialitàcaritàamoredebitosfruttamentoschiavitùlibertà
inviato da Giosuè Lombardo, inserito il 27/08/2003
TESTO
Nella preghiera eucaristica ricorre una frase che sembra mettere in crisi certi moduli di linguaggio entrati ormai nell'uso corrente, come ad esempio l'espressione "nuove povertà".
La frase è questa: "Signore, donaci occhi per vedere le necessità e le sofferenze dei fratelli...". Essa ci suggerisce tre cose.
Anzitutto che, a fare problema, più che le "nuove povertà", sono gli "occhi nuovi" che ci mancano. Molte povertà sono "provocate" proprio da questa carestia di occhi nuovi che sappiano vedere. Gli occhi che abbiamo sono troppo antichi. Fuori uso. Sofferenti di cataratte. Appesantiti dalle diottrie. Resi strabici dall'egoismo. Fatti miopi dal tornaconto. Si sono ormai abituati a scorrere indifferenti sui problemi della gente. Sono avvezzi a catturare più che a donare. Sono troppo lusingati da ciò che "rende" in termini di produttività. Sono così vittime di quel male oscuro dell'accaparramento, che selezionano ogni cosa sulla base dell'interesse personale. A stringere, ci accorgiamo che la colpa di tante nuove povertà sono questi occhi vecchi che ci portiamo addosso. Di qui, la necessità di implorare "occhi nuovi". Se il Signore ci favorirà questo trapianto, il malinconico elenco delle povertà si decurterà all'improvviso, e ci accorgeremo che, a rimanere in lista d'attesa, saranno quasi solo le povertà di sempre.
Ed ecco la seconda cosa che ci viene suggerita dalla preghiera della Messa. Oltre alle miserie nuove "provocate" dagli occhi antichi, ce ne sono delle altre che dagli occhi sono "tollerate". Miserie, cioè, che è arduo sconfiggere alla radice, ma che sono egualmente imputabili al nostro egoismo, se non ci si adopera perché vengano almeno tamponate lungo il loro percorso degenerativo. Sono nuove anch'esse, nel senso che oggi i mezzi di comunicazione ce le sbattono in prima pagina con una immediatezza crudele che prima non si sospettava neppure. Basterà pensare alle vittime dei cataclismi della storia e della geografia. Ai popoli che abitano in zone colpite sistematicamente dalla siccità. Agli scampati da quelle bibliche maledizioni della terra che ogni tanto si rivolta contro l'uomo. Alle turbe dei bambini denutriti. Ai cortei di gente mutilata per mancanza di medicine e di assistenza. Anche per queste povertà ci vogliono occhi nuovi. Che non spingano, cioè, la mano a voltar pagina o a cambiare canale, quando lo spettacolo inquietante di certe situazioni viene a rovinare il sonno o a disturbare la digestione.
E infine ci sono le nuove povertà che dai nostri occhi, pur lucidi di pianto, per pigrizia o per paura vengono "rimosse". Ci provocano a nobili sentimenti di commossa solidarietà, ma nella allucinante ed iniqua matrice che le partorisce non sappiamo ancora penetrare. La preghiera della Messa sembra pertanto voler implorare: "Donaci, Signore, occhi nuovi per vedere le cause ultime delle sofferenze di tanti nostri fratelli, perché possiamo esser capaci di aggredirle". Si tratta di quelle nuove povertà che sono frutto di combinazioni incrociate tra le leggi perverse del mercato, gli impianti idolatrici di certe rivoluzioni tecnologiche, e l'olocausto dei valori ambientali, sull'altare sacrilego della produzione. Ecco allora la folla dei nuovi poveri, dagli accenti casalinghi e planetari.
Sono, da una parte, i terzomondiali estromessi dalla loro terra. I popoli della fame uccisi dai detentori dell'opulenza. Le tribù decimate dai calcoli economici delle superpotenze. Le genti angariate dal debito estero. Ma sono anche i fratelli destinati a rimanere per sempre privi dell'essenziale: la salute, la casa, il lavoro, la partecipazione. Sono i pensionati con redditi bassissimi. Sono i lavoratori che, pur ammazzandosi di fatica, sono condannati a vivere sott'acqua e a non emergere mai a livelli di dignità. Di fronte a questa gente non basta più commuoversi. Non basta medicare le ustioni a chi ha gli abiti in fiamme. I soli sentimenti assistenziali potrebbero perfino ritardare la soluzione del problema. Occorre chiedere "occhi nuovi".
"Donaci occhi per vedere le necessità e le sofferenze dei fratelli". Occhi nuovi, Signore. Non cataloghi esaustivi di miserie, per così dire, alla moda. Perché, fino a quando aggiorneremo i prontuari allestiti dalle nostre superficiali esuberanze elemosiniere e non aggiorneremo gli occhi, si troveranno sempre pretestuosi motivi per dare assoluzioni sommarie alla nostra imperdonabile inerzia. Donaci occhi nuovi, Signore.
povertàricchezzagiustiziaingiustiziafame nel mondomondialitàcaritàamoresolidarietàattenzione agli altrisofferenza
inviato da Don Giosuè Lombardo, inserito il 12/08/2003
RACCONTO
Un giorno Satana scoprì un modo per divertirsi. Inventò uno specchio diabolico che aveva una magica proprietà: faceva vedere meschino e raggrinzito tutto ciò che era bello e buono.
Satana se ne andava in giro dappertutto con il suo terribile specchio. E tutti quelli che ci guardavano dentro rabbrividivano: ogni cosa appariva deformata e mostruosa.
Il maligno si divertiva moltissimo con il suo specchio: più le cose erano ripugnanti più gli piacevano. Un giorno, lo spettacolo che lo specchio gli offriva era così piacevole ai suoi occhi che scoppiò a ridere in modo scomposto: lo specchio gli sfuggì dalle mani e si frantumò in milioni di pezzi.
Un uragano potente e maligno fece volare i frammenti dello specchio in tutto il mondo. Alcuni frammenti erano più piccoli di granelli di sabbia ed entrarono negli occhi di molte persone. Queste persone cominciarono a vedere tutto alla rovescia: si accorgevano solo di ciò che era cattivo e vedevano cattiveria dappertutto.
Altre schegge diventarono lenti per occhiali. La gente che si metteva questi occhiali non riusciva più a vedere ciò che era giusto ed a giudicare rettamente.
Non hai, per caso, già incontrato degli uomini così?
Qualche pezzo di specchio era così grosso, che venne usato come vetro da finestra. I poveretti che guardavano attraverso quelle finestre vedevano solo vicini antipatici, che passavano il tempo a combinare cattiverie.
Quando Dio si accorse di quello che era successo si rattristò. Decise di aiutarli.
Disse: "Manderò nel mondo mio Figlio. E' Lui la mia immagine, il mio specchio. Rispecchia la mia bontà, la mia giustizia, il mio amore. Riflette l'uomo come io l'ho pensato e voluto.".
Gesù venne come uno specchio per gli uomini. Chi si specchiava in Lui riscopriva la bontà e la bellezza e imparava a distinguerle dall'egoismo e dalla menzogna, dall'ingiustizia e dal disprezzo.
I malati ritrovavano il coraggio di vivere, i disperati riscoprivano la speranza. Consolava gli afflitti e aiutava gli uomini a vincere la paura della morte.
Molti uomini amavano lo specchio di Dio e seguirono Gesù. Si sentivano infiammati da Lui.
Altri invece ribollivano di rabbia: decisero di rompere lo specchio di Dio. Gesù fu ucciso. Ma ben presto si levò un nuovo possente uragano: lo Spirito Santo.
Sollevò i milioni di frammenti dello specchio e li soffiò in tutto il mondo.
Chi riceve anche una piccolissima scintilla di questo specchio nei suoi occhi comincia a vedere il mondo e le persone come li vedeva Gesù: si riflettono negli occhi prima tutto le cose belle e buone, la giustizia e la generosità, la gioia e la speranza; le cattiverie e le ingiustizie invece appaiono modificabili e vincibili.
benemalepregiudiziSpirito SantoPentecosteincarnazione
inviato da Tiziana Venturi, inserito il 28/06/2003
PREGHIERA
149. Ai suoi amici il Signore dà il pane nel sonno 1
Eccoci, Signore, davanti a te. Col fiato grosso, dopo aver tanto camminato .Ma se ci sentiamo sfiniti, non è perché abbiamo percorso un lungo tragitto, o abbiamo coperto chi sa quali interminabili rettilinei. E' perché, purtroppo, molti passi, li abbiamo consumati sulle viottole nostre, e non sulle tue: seguendo i tracciati involuti della nostra caparbietà faccendiera, e non le indicazioni della tua Parola; confidando sulla riuscita delle nostre estenuanti manovre, e non sui moduli semplici dell'abbandono fiducioso in te. Forse mai, come in questo crepuscolo dell'anno, sentiamo nostre le parole di Pietro: "Abbiamo faticato tutta la notte, e non abbiamo preso nulla".
Ad ogni modo, vogliamo ringraziarti ugualmente. Perché, facendoci contemplare la povertà del raccolto, ci aiuti a capire che senza di te non possiamo far nulla. Ci agitiamo soltanto.
Grazie, perché obbligandoci a prendere atto Dei nostri bilanci deficitari, ci fai comprendere che, se non sei tu che costruisci la casa, invano vi faticano i costruttori. E che, se tu non custodisci la città, invano veglia il custode. E che alzarsi di buon mattino, come facciamo noi, o andare tardi a riposare per assolvere ai mille impegni giornalieri, o mangiare pane di sudore, come ci succede ormai spesso, non è un investimento redditizio se ci manchi tu. Il Salmo 127, avvertendoci che, il pane, tu ai tuoi amici lo dai nel sonno, ci rivela la più incredibile legge economica, che lega il minimo sforzo al massimo rendimento. Ma bisogna esserti amici. Bisogna godere della tua comunione. Bisogna vivere una vita interiore profonda. Se no, il nostro è solo un tragico sussulto di smanie operative, forse anche intelligenti, ma assolutamente sterili sul piano spirituale.
Grazie, Signore, perché, se ci fai sperimentare la povertà della mietitura e ci fai vivere con dolore il tempo delle vacche magre, tu dimostri di volerci veramente bene, poiché ci distogli dalle nostre presunzioni corrose dal tarlo dell'efficientismo, raffreni i nostri desideri di onnipotenza, e non ci esponi al ridicolo di fronte alla storia: anzi, di fronte alla cronaca.
Ma ci sono altri motivi, Signore, che, al termine dell'anno, esigono il nostro rendimento di grazie. Grazie, perché ci conservi nel tuo amore. Perché ancora non ti è venuto il voltastomaco per i nostri peccati. Perché continui ad aver fiducia in noi, pur vedendo che tantissime altre persone ti darebbero forse ben diverse soddisfazioni. Grazie, perché non solo ci sopporti, ma ci dai ad intendere che non sai fare a meno di noi. Perché ci infondi il coraggio di celebrare i santi misteri, anche quando la coscienza della nostra miseria ci fa sentire delle nullità e ci fa sprofondare nella vergogna. Grazie, perché ci sai mettere sulla bocca le parole giuste, anche quando il nostro cuore è lontano da te. Perché adoperi infinite tenerezze, preservandoci da impietosi rossori, e non facendoci mancare il rispetto dei fedeli, la comprensione dei collaboratori, la fiducia dei poveri. Grazie, perché continui a custodirci gelosamente, anzi, a nasconderci, come fa la madre con i figli più discoli. Perché sei un amico veramente unico, e ti sei lasciato così sedurre dall'amore che ci porti, che non ti regge l'animo di smascherarci dinanzi alla gente, e non fai venir meno agli occhi degli uomini i motivi per i quali, nonostante tutto, continuiamo a essere reverendi. Grazie, Signore, perché non finisci di scommettere su di noi. Perché non ci avvilisci per le nostre inettitudini. Perché, al tuo sguardo, non c'è bancarotta che tenga. Perché, a dispetto delle letture deficitarie delle nostre contabilità, non ci fai disperare. Anzi, ci metti nell'anima un così vivo desiderio di ricupero, che già vediamo il nuovo anno come spazio della Speranza e tempo propizio per sanare i nostri dissesti. Spogliaci, Signore, d'ogni ombra di arroganza. Rivestici dei panni della misericordia e della dolcezza. Donaci un futuro gravido di grazia e di luce e di incontenibile amore per la vita. Aiutaci a spendere per te Tutto quello che abbiamo e che siamo. E la Vergine tua madre ci intenerisca il cuore. Fino alle lacrime.
preghierarapporto con Diomisericordia di Diomagnanimitàfine annonuovo annocapodannoapostolato
inviato da Don Giosuè Lombardo, inserito il 28/06/2003
TESTO
Giorgio Gaber, Alla ricerca dell'io
L'appartenenza
non è lo sforzo di un civile stare insieme
non è il conforto di un normale voler bene
l'appartenenza
è avere gli altri dentro di sé.
L'appartenenza
non è un insieme casuale di persone
non è il consenso a un'apparente aggregazione
l'appartenenza
è avere gli altri dentro di sé.
Uomini
uomini del mio passato
che avete la misura del dovere
e il senso collettivo dell'amore
io non pretendo di sembrarvi amico
mi piace immaginare la forza di un culto così antico
e questa strada non sarebbe disperata
se in ogni uomo ci fosse un po' della mia vita
ma piano piano il mio destino
è andare sempre più verso me stesso
e non trovar nessuno.
L'appartenenza
non è lo sforzo di un civile stare insieme
non è il conforto di un normale voler bene
l'appartenenza
è avere gli altri dentro di sé.
L'appartenenza
è assai di più della salvezza personale
è la speranza di ogni uomo che sta male e non gli basta esser civile
è quel vigore che si sente se fai parte di qualcosa
che in sé travolge ogni egoismo personale con un'aria più vitale
che è davvero contagiosa.
Uomini
uomini del mio presente
non mi consola l'abitudine
a questa mia forzata solitudine
io non pretendo il mondo intero
vorrei soltanto un luogo, un posto più sincero
dove un bel giorno magari molto presto
io finalmente possa dire: questo è il mio posto
dove rinasca non so come e quando
il senso di uno sforzo collettivo
per ritrovare il mondo.
L'appartenenza
non è un insieme casuale di persone
non è il consenso a un'apparente aggregazione
l'appartenenza
è avere gli altri dentro di sé.
L'appartenenza
è un'esigenza che si avverte a poco a poco
si fa più forte alla presenza di un nemico, di un obiettivo o di uno scopo
è quella forza che prepara al grande salto decisivo
che ferma i fiumi, sposta i monti con lo slancio di quei magici momenti
in cui ti senti ancora vivo.
Sarei certo di cambiare la mia vita
se potessi cominciare
a dire noi.
appartenenzacomunitàcomunionerapporto con gli altricomunità
inviato da Don Giovanni Benvenuto, inserito il 28/06/2003
ESPERIENZA
Guaricano, Santo Domingo, 5 Marzo 2003, Le Ceneri
Carissimi bambini,
ho saputo che quest'anno volete impegnarvi a stare vicini ai bambini del Guaricano: i vostri piccoli risparmi della Quaresima li metterete in un salvadanaio perché possano arrivare ai bambini poveri di questo "barrio".
Non vi immaginate come sono contento per questa idea. Non so se raccoglierete molto o poco. Quello di cui sono sicuro è che lo farete, lo state facendo con amore! Credete che il mondo si cambi con grandi cose? No, il mondo si cambia se abbiamo un amore grande.
Forse qualche giorno non comprerete le figurine. O forse un altro giorno rinuncerete a un chewingum. O magari direte a vostra mamma che non vi compri quella maglietta o quei pantaloni che vi piacerebbero tanto e che vi lasci i soldi per metterli nel salvadanaio dell'amore.
Io ho conosciuto l'anno scorso un bambino di qui. Si chiama Giorgi. Eravamo in Avvento. Il suo padrino gli aveva dato all'inizio di dicembre una somma equivalente a 5 euro "per il suo Natale". Giorgi non sapeva cosa fare con quei soldi, ma spesso sognava che si sarebbe comprato una cravatta (i bambini di qui a volte sono molto vanitosi), da mettersi la notte di Natale, per suscitare l'ammirazione di tutte le bambine. Altre volte sognava che si sarebbe comprato una brillantina uscita da poco, e che tutti gli avrebbero fatto i complimenti per i suoi capelli così ben lucidi. Insomma, erano tanti i sogni che faceva che non sapeva come decidersi.
Il giorno 23, quando ormai sapeva che doveva prendere la fatidica decisione di come spendere i suoi 5 euro, si rese conto che sua mamma non stava bene. Aveva un mal di testa così forte che non riusciva a stare in piedi. E in casa non c'erano soldi per comprare le pastiglie (sono molte le famiglie povere, qui). "Neanch'io ce li ho i...", pensò Giorgi, come faceva sempre, ma dovette fermarsi. In realtà adesso quei soldi ce l'aveva. "Ma sono per me", si affrettò a concludere, "me li ha dati il mio padrino".
Quella notte Giorgi non riusciva ad addormentarsi. Si rigirava nel letto, e un po' metteva il ventilatore più forte, un po' gli dava più piano (la maggior parte dei mesi dell'anno non si riesce a dormire senza ventilatore). Pensava e ripensava a quei maledetti 5 euro che lui aveva, e alle sue cravatte e alle ragazzine che gli avrebbero ronzato intorno, e al mal di testa di sua mamma, un maledetto mal di testa che non se ne voleva andare, come sapeva bene perché alla mamma continuavano ad uscire lamenti e sospiri.
Quando finalmente prese sonno erano già le due. Fece un sogno. Gesù bambino lo stava cercando. Ma non lo trovava. E domandava a tutti: "Dov'è Giorgi?" Nel sogno Giorgi era nascosto sotto il tavolo. Sulla sedia al lato del tavolo c'era sua mamma, spossata per il mal di testa. Gesù si avvicinò alla mamma, le passò la mano sulla testa e le disse: "Questa carezza ti farà stare meglio". La mamma si sentì subito bene, abbracciò Gesù e sembrava che non lo volesse lasciare.
In quel momento Giorgi si svegliò. Stranamente non era madido di sudore come altre volte quando faceva sogni strani. Anzi, si sentiva bene e non aveva il sonno che si immaginava. Guardò l'orologio, si accorse che erano le otto di mattina. Sereno, si lavò la faccia e i denti (qui usano lavarseli solo quando si svegliano e quando vanno a letto), si mise una maglietta, i pantaloni e le scarpe, e si incamminò verso la vicina farmacia. Le pastiglie per il mal di testa della mamma costavano 5 euro giusti. Li diede al farmacista (qui purtroppo si possono comprare molte medicine senza ricetta), facendogli un sorriso.
A casa, la mamma dormiva ancora. Giorgi le posò le pastiglie vicino al letto, le diede un bacio, e uscì di nuovo. I nonni lo aspettavano per una commissione che doveva fare loro.
Per la strada, Giorgi si mise le mani in tasca. I 5 euro non c'erano più. Ma nel cuore Giorgi sentiva una contentezza come mai aveva avuto.
Carissimi bambini di San Martino, vi è piaciuta la storiella? Io mi sono sentito molto bene quando Giorgi mi ha raccontato quello che gli è successo. Quell'anno ha vissuto la festa come mai l'aveva vissuta. Perché non aveva pensato a sé, ma a qualcuno che Gesù lo chiamava ad aiutare.
Chiedo al Signore che a tutti i bambini del mondo gli insegni ad essere generosi, come Giorgi. Forse con meno cose. Ma con il cuore pieno di Gesù.
Vi abbraccio! e vi trasmetto i saluti di tutti i bambini del Guaricano! Buona Pasqua!
don Paolo
generositàdisponibilitàamoreQuaresimaegoismoaltruismoNatale
inviato da Don Giovanni Benvenuto, inserito il 06/06/2003
TESTO
Dio ha creato l'acqua
la terra e il cielo,
e li ha adornati
con una creatura
che gli assomigliava.
La pace invece
l'ha affidata al Vento
e il Vento l'ha deposta fra gli alberi,
ed era un libro,
fatto di Parole,
ed era la Parola.
Passò una donna
e lo vide fra le margherite,
sospinta dal Vento
se lo strinse al seno
e abbracciò un bambino,
un libro di Parole,
un bimbo di colori.
E sfogliò quel libro
quella donna,
ogni pagina un colore.
La prima pagina è bianca,
come le nevi eterne delle cime,
perché la pace è in alto,
è pura e immacolata,
perché la pace è Dio.
Rossa è la seconda pagina
come la fiamma del roveto ardente,
perché la pace è fuoco,
brucia, riscalda e fonde,
perché la pace è Dio.
La terza pagina ha il color del prato,
verde come una gemma preziosa,
perché la pace è fatta di speranze,
è ornata da piccoli gesti d'amore,
è come un vasto campo d'erba,
ricamato dai fiori dai mille colori,
perché la pace è Dio.
Azzurra è la quarta pagina del libro,
chiara come l'acqua di sorgente,
serena come un cielo di maggio,
profonda come l'acqua dell'Oceano,
perché la pace sfonda gli abissi
e solca l'infinito,
perché la pace è Dio.
Gialla è la quinta pagina,
come un ricamo d'oro fino,
perché la pace è dono,
è preziosa e vale molto,
è uno scrigno di valori ,
perché la pace è Dio.
La pace è arancione,
un colore vivo,
perché la pace è vita,
acceso, perché la pace è forza,
solare, perché la pace è luce,
perché la pace è Dio.
Di color violetto è la settima pagina,
un colore tra il rosso ed il turchino
tra l'indaco e l'arancio,
perché la pace è festa di colori,
è gioco di luce, è comunione di valori,
perché la pace è Dio.
Chiude il libro la donna
e tra le dita si ritrova
un bimbo di colori,
fiorisce fra le sue mani
la pace vera,
perché è l'Emmanuele,
il Dio con noi.
inviato da Padre Gianni Fanzolato, inserito il 15/04/2003
PREGHIERA
O Dio nostro Padre, ricco di amore e di misericordia, noi vogliamo pregarti con fede per la pace, addolorati e umiliati come siamo a causa degli episodi di violenza che hanno insanguinato e insanguinano Gerusalemme, città il cui nome evoca subito il mistero di morte e di risurrezione del tuo Figlio, di Gesù che ha donato la sua vita per riconciliare ogni uomo e ogni donna di questo mondo con te, con se stessi, con tutti i fratelli. Città santa, città dell'incontro eppure città da sempre contesa, da sempre crocifissa e sulla quale il tuo Figlio, i profeti e i santi hanno invocato la pace.
Noi vogliamo pregarti con fede per la pace in tanti altri paesi del mondo, per i numerosi focolai di lotte e di odio; vogliamo pregarti per gli aggressori e per gli aggrediti, per gli uccisi e gli uccisori, per tutti i bambini che non hanno potuto conoscere il sorriso e la gioia della pace.
E' vero, Signore, che noi stessi siamo responsabili del venire meno della pace, e per questo ti supplichiamo di accogliere il nostro accorato pentimento, di donarci una volontà umile, forte, sincera per ricostruire nella nostra vita personale e comunitaria rapporti di verità, di giustizia, di libertà, di carità, di solidarietà. Ti confessiamo i nostri peccati personali e sociali: il nostro attaccamento al benessere, i nostri egoismi, le infedeltà e i tradimenti a livello familiare, la pigrizia e lo sciupio delle energie vitali per cose vane e frivole, dannose, il nostro voltare la faccia di fronte alle miserie di chi ci sta vicino o di chi viene da lontano. Vivendo così, non abbiamo forse pensato di renderci responsabili della distruzione di quell'edificio invisibile che è la pace. La pace terrestre è riflesso della tua pace che tu ci doni e ci affidi, nasce dal tuo amore per l'uomo e dal nostro amore per te e per tutti i fratelli.
Cambia il nostro cuore, Signore, perché siamo noi i primi ad avere bisogno di un cuore pacifico. Purificaci, per il mistero pasquale del tuo Figlio, da ogni fermento di ostilità, di partigianeria, di partito preso; purificaci da ogni antipatia, da ogni pregiudizio, da ogni desiderio di primeggiare.
Facci comprendere, o Padre, il senso profondo di una preghiera vera di pace, di una preghiera di intercessione e di espiazione simile a quella di Gesù su Gerusalemme. Preghiera di intercessione che ci renda capaci di non prendere posizione nei conflitti, ma di entrare nel cuore delle situazioni insanabili diventando solidali con entrambe le parti in contesa, pregando per l'una e per l'altra. Noi vogliamo abbracciare con amore tutte le parti in causa, fiduciosi soltanto nella tua divina potenza. Se noi preghiamo perché tu dia vittoria all'uno o all'altro, questa preghiera tu non l'ascolti; se ci mettiamo a giudicare l'uno o l'altro, la nostra supplica tu non l'ascolti.
Manda il tuo santo Spirito su di noi per convertirci a te! Non ci illudiamo di superare le nostre inquietudini interiori, i rancori che ci portiamo dentro verso un popolo o verso un altro se non lasciamo spazio allo Spirito di gioia e di pace che vuole pregare in noi con gemiti inenarrabili. E' lo Spirito che ci fa accogliere quella pace che sorpassa ogni nostra veduta e diventa decisione ferma e seria di amare tutti i nostri fratelli, in modo che la fiamma della pace risieda nei nostri cuori e nelle nostre famiglie, nelle nostre comunità e si irradi misteriosamente sul mondo intero sospingendo tutti verso una piena comunione di pace. E' lo Spirito che ci aiuta a penetrare nella contemplazione del tuo Figlio crocifisso e morto sulla croce per fare di tutti un popolo solo.
E tu, Maria, Regina della pace, intercedi affinché il sorriso della pace risplenda su tanti bambini sparsi nelle varie parti del mondo, segnate dalla violenza e dalla guerriglia; veglia sulla tua terra, su Gerusalemme, suscita nei suoi abitanti desideri profondi e costruttivi di pace, desideri di giustizia e di verità. Noi ti promettiamo di non temere le difficoltà e i momenti oscuri e difficili, purché tutta l'umanità cammini nella pace e nella giustizia, così che si avveri pienamente la parola del profeta Isaia: "Ho visto le vostre vie e voglio sanarle [...] Pace, pace ai lontani e ai vicini, dice il Signore, io guarirò tutti".
paceamoreperdonoconflittidialogogiustiziaingiustizia
inviato da Gianmarco Marzocchini, inserito il 01/04/2003
RACCONTO
Tutti, i giorni, finita la scuola, i bambini andavano a giocare nel giardino del gigante. Era un giardino grande e bello coperto di tenera erbetta verde. Qua e là sulla erbetta, spiccavano fiori simile a stelle; in primavera i dodici peschi si ricoprivano di fiori rosa perlacei e, in autunno, davano i frutti. Gli uccelli si posavano sugli alberi e cantavano con tanta dolcezza che i bambini sospendevano i loro giochi per ascoltarli.
- Quanto siamo felici qui! - si dicevano.
Un giorno il gigante ritornò. Era stato a far visita al suo amico, il mago di Cornovaglia, e la sua visita era durata sette anni. Alla fine del settimo anno, aveva esaurito quanto doveva dire perché la sua conversazione era assai limitata, e decise di far ritorno al castello. Al suo arrivo vide i bambini che giocavano nel giardino.
- Che fate voi qui? - esclamò con voce berbera, e i bambini scapparono.
- Il mio giardino è solo mio! - disse il gigante - lo sappiano tutti: nessuno, all'infuori di me, può giocare qui dentro.
Costruì un alto muro tutto intorno e vi affisse un avviso: GLI INTRUSI SARANNO PUNITI.
Era un gigante molto egoista.
I poveri bambini non sapevano più dove giocare. Cercarono di giocare sulla strada, ma la strada era polverosa e piena di sassi, e non piaceva a nessuno. Finita la scuola giravano attorno all'alto muro e parlavano del bel giardino.
- Com'eravamo felici! - dicevano tra di loro.
Poi venne la primavera, e dovunque, nella campagna, v'erano fiori e uccellini. Soltanto nel giardino del gigante regnava ancora l'inverno. Gli uccellini non si curavano di cantare perché non c'erano bambini e gli alberi dimenticarono di fiorire. Una volta un fiore mise la testina fuori dall'erba, ma alla vista dell'avviso provò tanta pietà per i bambini che si ritrasse e si riaddormentò. Solo la neve e il ghiaccio erano soddisfatti.
- La primavera ha dimenticato questo giardino - esclamarono - perciò noi abiteremo qui tutto l'anno.
La neve copriva l'erba con il suo grande manto bianco e il ghiaccio dipingeva d'argento tutti gli alberi. Poi invitarono il vento del nord. Esso venne avvolto in una pesante pelliccia e tutto il giorno fischiava per il giardino e abbatteva i camini.
- E' un posto delizioso - disse - dobbiamo invitare anche la grandine.
E la grandine venne. Tre ore al giorno essa picchiava sul tetto del castello finché ruppe le tegole; poi, quanto più veloce poteva, scorrazzava per il giardino. Era vestita di grigio, e il suo fiato era freddo come il ghiaccio.
- Non riesco a capire perché la primavera tardi tanto a venire - disse il gigante egoista mentre, seduto presso la finestra, guardava il suo giardino gelato e bianco: - Mi auguro che il tempo cambi.
Ma la primavera non venne mai e nemmeno l'estate. L'autunno diede frutti d'oro a tutti i giardini, ma nemmeno uno a quello del gigante. Era sempre inverno laggiù e il vento del Nord, la Grandine, il gelo e la Neve danzavano tra gli alberi.
Una mattina il gigante udì dal suo letto: una dolce musica, risuonava tanto dolce alle sue orecchie che pensò fossero di musicanti del re che passavano nelle vicinanze. Era solo un merlo che cantava fuori dalla sua finestra, ma da tanto tempo non udiva un uccellino cantare nel suo giardino, che gli parve la musica più bella del mondo. La Grandine cessò di danzare sulla sua testa, il Vento del Nord smise di fischiare e un profumo delizioso giunse attraverso la finestra aperta.
- Credo che finalmente la primavera sia venuta - disse il gigante; balzò dal letto e guardò fuori della finestra.
Che vide? Una visione meravigliosa. I fanciulli entrati attraverso un'apertura del muro e sedevano sui rami degli alberi. Su ogni albero che il gigante poteva vedere c'era un bambino. Gli alberi, felici di riavere i fanciulli, s'erano ricoperti di fiori e gentilmente dondolavano i rami sulle loro testoline. Gli uccellini svolazzavano intorno cinguettando felici e i fiori sollevavano il capo per guardare di sopra l'erba verde e ridevano. Era una bella scena.
Solo in un angolo regnava ancora l'inverno. Era l'angolo più remoto del giardino, e vi stava un bambinetto. Era tanto piccolo che non riuscire a raggiungere il ramo dell'albero e vi girava intorno piangendo disperato. Il povero albero era ancora coperto dal gelo e dalla neve e sopra di esso il vento del nord fischiava.
- Arrampicati piccolo - disse l'albero e piegò i suoi rami quanto più poté: ma il bimbetto era troppo piccino. A quella vista il cuore del gigante si intenerì.
- Come sono stato egoista! - disse. - Ora so perché la primavera non voleva venire. Metterò quel bambino in cima all'albero poi abbatterò il muro e il mio giardino sarà, per sempre, il campo di giochi dei bambini.
Era veramente addolorato per quanto aveva fatto. Scese adagio le scale e aprì la porta d'ingresso. Ma quando i bambini lo videro, si spaventarono tanto che scapparono, e nel giardino regnò di nuovo l'inverno. Soltanto il bambinetto non scappò; i suoi occhi erano così colmi di lacrime che non vide venire il gigante. E il Gigante giunse di soppiatto dietro a lui, lo prese delicatamente nella sua mano e lo mise sull'albero. E l'albero fiorì, gli uccellini vennero a cantare e il bambino allungò le braccine, si avvicinò al collo del gigante e lo baciò.
Non appena gli altri bambini videro che il gigante non era più cattivo, ritornarono di corsa e con essi venne la primavera. - Ora questo è il vostro giardino, bambini - disse il gigante e, presa una grande ascia, abbatté il muro.
A mezzogiorno la gente che andava al mercato vide il gigante giocare con i bambini nel giardino più bello che avessero mai veduto. Giocarono tutto il giorno e la sera i bambini salutarono il gigante.
- Dov'è il vostro piccolo amico? - disse: - Il bambino che io ho messo sull'albero?.
Il gigante l'amava più di tutti perché l'aveva baciato.
- Non lo sappiamo - risposero i bambini - se n'è andato.
- Dovete dirgli che domani deve assolutamente venire - disse il gigante.
Ma i bambini risposero che non sapevano dove abitasse e che prima non l'avevano mai veduto, e il gigante si sentì molto triste. Ogni pomeriggio, finita la scuola, i bambini venivano a giocare con il gigante. Ma il bambinetto che il gigante prediligeva non si vide più. Il gigante era molto buono con tutti, ma desiderava il suo piccolo amico e spesso parlava di lui.
- Quanto mi piacerebbe vederlo - diceva sovente.
Gli anni passarono, e il gigante divenne vecchio e debole. Non poteva più giocare; sedeva in una grande poltrona e osservava i bambini mentre giocavano e ammirava il suo giardino.
- Ho molti bei fiori - diceva - ma i bambini sono i fiori più belli.
Una mattina d'inverno, mentre si vestiva, guardò fuori dalla finestra. Ora non odiava più l'inverno perché sapeva che era soltanto la primavera addormentata e che i fiori si riposavano.
Ad un tratto si fregò gli occhi sorpreso e si mise a guardare intensamente. Era una cosa veramente meravigliosa. Nell'angolo più remoto del giardino v'era un albero interamente ricoperto di fiori bianchi. Dai rami d'oro pendevano frutti d'argento, e sotto di essi stava il bambinetto ch'egli aveva amato.
Il gigante scese di corsa e, tutto acceso di gioia, uscì nel giardino. Si affrettò sull'erba e s'avvicinò al bambino. Quando gli fu vicino si fece rosso di collera e disse:
- Chi ha osato ferirti? - perché il bambino aveva il segno di due chiodi sul palmo delle mani e sui piedi.
- Chi ha osato ferirti? - esclamò il gigante - dimmelo e io prenderò la mia grossa spada e l'ammazzerò.
- No - rispose il bambino - queste sono soltanto le ferite dell'amore.
- Chi sei? - chiese il gigante, e uno strano stupore s'impadronì di lui e s'inginocchiò dinanzi al bambino. Il bambino gli sorrise e disse:
- Un giorno mi lasciasti giocare nel tuo giardino, oggi verrai a giocare nel mio giardino, che è il Paradiso.
Quando nel pomeriggio i fanciulli entrarono di corsa nel giardino trovarono il gigante morto, ai piedi dell'albero tutto coperto di fiori candidi.
bambiniamoretenerezzapazienzaegoismochiusuraaperturagentilezzadonocondivisionebambinisperanzadisperazione
inviato da Anna Lianza, inserito il 29/01/2003
TESTO
155. Un altro natale è possibile 2
Un altro Natale è possibile: ci può essere ancora un Buon Natale!
Con il Natale la vita vince nonostante tutto. Ogni bimbo che nasce è il segno che Dio non si è ancora stancato dell'umanità (Tagore).
Viola, la perla bianca di Chiara nata nel cuore della ricca Brianza ha davanti a sé ottanta anni di vita (se tutto va bene) e una dote iniziale di 25.000 euro.
Njeri, la perla nera di Rachele, nata nella baracca di Korogocho ha davanti a sé quaranta anni di vita (se tutto fila liscio) e una dote inziale di soli 250 euro.
Due mondi, due bimbe, divise da un invisibile muro di vetro. La prima, Viola, fa parte del 20% dell'umanità che si "pappa" l'83% delle risorse mondiali. La seconda, Njeri, fa parte dell'oltre un miliardo di "esuberi umani" che devono accontentarsi dell' 1,4% delle risorse, costretti a vivere con meno di 1 dollaro al giorno: sono gli innocenti di cui si rinnova la strage oggi: e Rachele piange i suoi figli e non vuole essere consolata perché essi non ci sono più.
Milioni di bimbi muoiono di fame, malattie, aids: un bimbo muore di fame ogni due secondi, 11 milioni ne muoiono all'anno per malattie meno gravi di un raffreddore, centinaia di milioni non inizieranno neanche la prima elementare.
Due mondi, due Natali. Il nostro è il Natale dell'opulenza, delle luci, dei regali del consumismo degli affari. E' un business senza fine, è uno shopping anche di domenica. Questo sfavillio di luci natalizie sembra un meraviglioso "acquario" in cui guizzano costosissimi pesciolini esotici. A scrutarlo centinaia di milioni di bimbi dal volto scuro che guardano affascinati l'acquoso ed esotico luccichio. Fino a quando la parete di vetro proteggerà il banchetto degli esotici pesciolini?
Per assicurarci che la parete di vetro sia davvero infrangibile e ci protegga eternamente da quei visi sognanti di bimbi affascinati noi investiamo somme astronomiche in armi: Usa ed Europa nel 2003 programmano di spendere 750 miliardi di dollari.
Un altro Natale non solo è possibile ma è urgente e necessario! Boicottiamo il Natale dei pesciolini esotici: il Natale dei consumi, dei regali, degli affari, un Natale "pagano" che ha ben poco da spartire con quel Bimbo che nasce in una mangiatoia alla periferia dell'impero, fuori dell'acquario anche lui indistinguibile volto nero in mezzo agli altri volti scuri.
Diciamo no al consumismo vieppiù indotto e incentivato e diciamo sì alla festa natalizia della famiglia allargata a nonni, cugini, zii, nipoti ma anche alla famiglia dell'immigrato che lavora per noi o che ci è più vicino.
Diciamo no al decadente e ripetitivo tango di regali, e diciamo sì ad un consumo critico, al regalo fatto in casa con amore e con le proprie mani, o a quello equo e solidale di lavoro fatto "in dignità".
Diciamo no alla stupida pervasività televisiva e diciamo sì alle relazioni umane in famiglia, ritornando a raccontarci gioie e dolori e a riprendere confidenza con l'immaginario, la fiaba prendendo a cuore anche la bellezza del celebrare insieme il fascino del Natale.
Diciamo no alla violenza e alla guerra e diciamolo con fierezza, e diciamo sì alla pace e alla nonviolenza con evidenza mettendo bandiere arcobaleno ai nostri balconi e camminando con uno "straccetto bianco di pace". Solo così il Natale ritornerà ad essere la festa della vita che farà rifiorire la speranza di un altro mondo possibile.
Coraggio, dunque, ci può ancora essere un Buon Natale!
Natalesolidarietàgiustiziaingiustiziasfruttamentomondialitàricchezzapovertàpaceguerraarmi
inviato da Viola, inserito il 29/01/2003
TESTO
156. Vuoi onorare il corpo di Cristo? 2
Vuoi onorare il corpo di Cristo? Non permettere che sia oggetto di disprezzo nelle sue membra, cioè nei poveri, privi di panni per coprirsi. Non onorarlo qui in chiesa con stoffe di seta, mentre fuori lo trascuri quando soffre per il freddo e la nudità. Colui che ha detto: "Questo è il mio corpo", confermando il fatto con la parola, ha detto anche: "Mi avete visto affamato e non mi avete dato da mangiare" e "ogni volta che non avete fatto queste cose a uno dei più piccoli fra questi, non l'avete fatto neppure a me".
Il corpo di Cristo che sta sull'altare non ha bisogno di mantelli, ma di anime pure; mentre quello che sta fuori ha bisogno di molta cura. Impariamo dunque a pensare e a onorare Cristo come egli vuole. Infatti l'onore più gradito, che possiamo rendere a colui che vogliamo venerare, è quello che lui stesso vuole, non quello escogitato da noi.
Che vantaggio può avere Cristo se la mensa del sacrificio è piena di vasi d'oro, mentre poi muore di fame nella persona del povero? Prima sazia l'affamato, e solo in seguito orna l'altare con quello che rimane. Gli offrirai una calice d'oro e non gli darai in bicchiere d'acqua? che bisogno c'è di adornare con veli d'oro il suo altare, se poi non gli offri il vestito necessario? che guadagno ne ricava egli? Dimmi: se vedessi uno privo del cibo necessario e, senza curartene, adornassi d'oro solo la sua mensa, credi che ti ringrazierebbe, o piuttosto non s'infurierebbe contro di te? e se vedessi uno coperto di stracci e intirizzito dal freddo, e, trascurando di vestirlo, gli innalzassi colonne dorate, dicendo che lo fai in suo onore, non si riterrebbe forse di essere beffeggiato e insultato in modo atroce?
Pensa la stessa cosa di Cristo, quando va errante e pellegrino, bisognoso di un tetto. Tu rifiuti di accoglierlo nel pellegrino e adorni invece il pavimento, le pareti, le colonne e i muri dell'edificio sacro. Attacchi catene d'argento alle lampade, ma non vai a visitarlo quando lui è incatenato in carcere. Dico questo non per vietarvi di procurare tali addobbi e arredi sacri, ma per esortarvi a offre, insieme a questi, anche il necessario aiuto ai poveri, o, meglio, perché questo sia fatto prima di quello. Nessuno è mai stato condannato per non aver cooperato ad abbellire il tempio, ma chi trascura il povero è destinato alla geenna, al fuoco inestinguibile e al supplizio con i demoni. Perciò, mentre adorni l'ambiente per il culto, non chiudere il tuo cuore al fratello che soffre. Questo è il tempio vivo più prezioso di quello.
caritàamoresolidarietàgiustiziaricchezzapovertàcultoeucaristia
inviato da Eleonora Polo, inserito il 14/12/2002
PREGHIERA
Ho sentito un prete, che viveva il Vangelo, predicare il Vangelo.
I piccoli, i poveri, son rimasti entusiasti,
I grandi, i ricchi son rimasti scandalizzati.
Ed ho pensato che non bisognerebbe predicare a lungo il Vangelo
perché molti di quelli che frequentano le chiese se ne allontanassero
e quelli che non ci vanno le riempissero.
Ho pensato che è cattivo segno per un cristiano l'essere stimato dalla «gente per bene».
Bisognerebbe, credo, che ci segnassero col dito, dandoci del pazzo e del rivoluzionario.
Bisognerebbe, credo, che ci dessero fastidio, che firmassero petizioni contro di noi,
...che cercassero di farci perire.
Questa sera, o Signore, ho paura.
Ho paura, perché il tuo Vangelo è tremendo. E' facile sentirlo annunziare,
E'ancora relativamente facile non esserne scandalizzato,
ma è ben difficile viverlo.
Ho paura di sbagliarmi, o Signore.
Ho paura di essere soddisfatto della mia piccola vita discreta;
Ho paura delle mie buone abitudini, le prendo per virtù;
Ho paura dei miei piccoli sforzi, mi danno l'impressione di progredire;
Ho paura delle mie attività, mi fanno credere di darmi;
Ho paura delle mie sagge organizzazioni, le ritengo successi;
Ho paura del mio influsso, immagino che trasformi le esistenze;
Ho paura di quello che do, che mi nasconde quello che non dono;
Ho paura, o Signore, perché v'è gente più povera di me,
meno istruita di me, meno evoluta, peggio alloggiata, meno riscaldata,
meno pagata, meno nutrita, meno accarezzata, meno amata.
Ho paura, o Signore, perché non faccio abbastanza per loro, non faccio tutto per loro.
Bisognerebbe che io dessi tutto,
fino a cancellare ogni sofferenza, ogni miseria, ogni peccato nel mondo.
Allora, o Signore, bisognerebbe che io dessi tutto, tutto il tempo,
Bisognerebbe che io dessi la vita.
Eppure non è vero, Signore, non è vero per tutti,
io esagero, bisogna essere ragionevoli.
Figliuolo, non v'è che un comandamento, per tutti:
«Amerai con tutto il cuore, con tutta l'anima, con tutte le forze».
amorepauradonoimpegnosolidarietàegoismogratuitàaltruismo
inviato da Elena Mencarelli, inserito il 14/12/2002
RACCONTO
158. Eliogabalo e matusalemme 1
Bruno Ferrero, Novena di Natale
Il piccolo e zoppo Matusalemme ed Eliogabalo (detto Gabalo) erano due ragazzi poveri della città. Avevano sempre vissuto, dalla nascita, nel collegio dei ragazzi poveri. "Sai che domani è Natale?" chiese Gabalo, un giorno che tutti e due stavano spalando la neve dall'ingresso dell'istituto. "Ah, davvero?" rispose Matusalemme. "Spero proprio che la signora Pynchurn non se ne accorga. Diventa particolarmente antipatica nei giorni di festa!". L'antipatica signora Pynchum era la direttrice dell'istituto dei poveri, ed era temuta da tutti.
Matusalemme proseguì: "Gabalo, tu credi che Babbo Natale ci sia davvero?". "Certo che c'è". "E allora perché non viene mai qui alla casa dei poveri?". "Beh", rispose Gabalo, "noi stiamo in una strada tutte curve, lo sai no? Forse Babbo Natale non riesce a trovarla". Gabalo cercava sempre di mostrare a Matusalemme il lato bello delle cose, anche quando non c'era!
Proprio in quel momento un'automobile investì un povero cane che cadde riverso sulla neve. Gabalo corse subito in suo aiuto e vide che aveva una zampa rotta. Fece una stecca e fasciò strettamente la zampa del cane. Gabalo lesse sul collare che il cane apparteneva al dottor Carruthers, un medico famoso nella città. Lo prese in braccio e si avviò verso la casa dei dottore.
Il dottore aveva una gran barba bianca lo accolse con un sorriso e gli chiese chi aveva immobilizzato e steccato così bene la zampa dei cane.
"Perbacco, io, signore", rispose Gabalo e gli raccontò di tutti gli altri animali ammalati che aveva guarito. "Sei un ragazzo davvero in gamba!" gli disse alla fine il dottor Carruthers guardandolo negli occhi. "Ti piacerebbe venire a vivere da me e studiare per diventare dottore?".
Gabalo rimase senza parole. Andare lontano dalla signora Pynchum e non essere più uno "della Casa dei Poveri", diventare un dottore! "Oh, oh s-s-sì, signore! Oh...". Improvvisamente la gioia svanì dai suoi occhi. Se Gabalo se ne andava, chi si sarebbe preso cura del piccolo e zoppo Matusalemme? "Io... io vi ringrazio, signore" disse. "Ma non posso venire, signore! E prima che il dottore scorgesse le sue lacrime corse fuori dalla casa".
Quella sera, il dottor Carruthers si presentò all'istituto con le braccia cariche di pacchetti. Quando Matusalemme lo vide cominciò a gridare: "E' arrivato Babbo Natale!". Il dottore scoppiò a ridere e, mentre consegnava al ragazzo un pacchetto dai vivaci colori, notò che zoppicava e gli fece alcune domande. Dopo un attimo, il dottor Carruthers disse: "Conosco un ospedale in città dove potrebbero guarirti. Hai parenti o amici?". "Oh, sì", rispose subito Matusalemme, "ho Gabalo!". Il dottore lanciò uno sguardo penetrante a Gabalo. "E' per lui che non hai voluto venire a stare da me, figliuolo". "Beh, io... io sono tutto quello che lui possiede", rispose Gabalo. Il dottore, profondamente commosso, disse: "E se prendessi anche Matusalemme con noi?".
Questa volta a Gabalo non importò che tutti vedessero le sue lacrime, e Matusalemme si mise a battere le mani dalla gioia. Naturalmente non sapeva che sarebbe guarito e che un giorno Gabalo sarebbe diventato un chirurgo famoso. Tutto quello che sapeva era che Babbo Natale aveva trovato la strada per la casa dei poveri e che lo portava via con Gabalo.
Natalepovertàamiciziasolidarietàamore
inviato da Anna Barbi, inserito il 11/12/2002
TESTO
Kahlil Gibran, Il profeta
Allora un contadino disse: Parlaci del Lavoro.
E lui rispose dicendo:
Voi lavorate per assecondare il ritmo della terra e l'anima della terra.
Poiché oziare è estraniarsi dalle stagioni e uscire dal corso della vita, che avanza in solenne e fiera sottomissione verso l'infinito.
Quando lavorate siete un flauto attraverso il quale il sussurro del tempo si trasforma in musica.
Chi di voi vorrebbe essere una canna silenziosa e muta quando tutte le altre cantano all'unisono?
Sempre vi è stato detto che il lavoro è una maledizione e la fatica una sventura.
Ma io vi dico che quando lavorate esaudite una parte del sogno più remoto della terra, che vi fu dato in sorte quando il sogno stesso ebbe origine.
Vivendo delle vostre fatiche, voi amate in verità la vita.
E amare la vita attraverso la fatica è comprenderne il segreto più profondo.
Ma se nella vostra pena voi dite che nascere è dolore e il peso della carne una maledizione scritta sulla fronte, allora vi rispondo: tranne il sudore della fronte niente laverà ciò che vi è stato scritto.
Vi è stato detto che la vita è tenebre e nella vostra stanchezza voi fate eco a ciò che è stato detto dagli esausti.
E io vi dico che in verità la vita è tenebre fuorché quando è slancio,
E ogni slancio è cieco fuorché quando è sapere,
E ogni sapere è vano fuorché quando è lavoro,
E ogni lavoro è vuoto fuorché quando è amore;
E quando lavorate con amore voi stabilite un vincolo con voi stessi, con gli altri e con Dio.
E cos'è lavorare con amore?
E' tessere un abito con i fili del cuore, come se dovesse indossarlo il vostro amato.
E' costruire una casa con dedizione come se dovesse abitarla il vostro amato.
E' spargere teneramente i semi e mietere il raccolto con gioia, come se dovesse goderne il frutto il vostro amato.
E' diffondere in tutto ciò che fate il soffio del vostro spirito,
E sapere che tutti i venerati morti stanno vigili intorno a voi.
Spesso vi ho udito dire, come se parlaste nel sonno:
"Chi lavora il marmo e scopre la propria anima configurata nella pietra, è più nobile di chi ara la terra.
E chi afferra l'arcobaleno e lo stende sulla tela in immagine umana, è più di chi fabbrica sandali per i nostri piedi".
Ma io vi dico, non nel sonno ma nel vigile e pieno mezzogiorno, il vento parla dolcemente alla quercia gigante come al più piccolo filo d'erba;
E che è grande soltanto chi trasforma la voce del vento in un canto reso più dolce dal proprio amore.
Il lavoro è amore rivelato.
E se non riuscite a lavorare con amore, ma solo con disgusto, è meglio per voi lasciarlo e, seduti alla porta del tempio, accettare l'elemosina di chi lavora con gioia.
Poiché se cuocete il pane con indifferenza, voi cuocete un pane amaro, che non potrà sfamare l'uomo del tutto.
E se spremete l'uva controvoglia, la vostra riluttanza distillerà veleno nel vino.
E anche se cantate come angeli, ma non amate il canto, renderete l'uomo sordo alle voci del giorno e della notte.
inviato da Don Giovanni Benvenuto, inserito il 11/12/2002
TESTO
160. Lettera al "fratello marocchino" 1
Fratello marocchino. Perdonami se ti chiamo così, anche se col Marocco non hai nulla da spartire. Ma tu sai che qui da noi, verniciandolo di disprezzo, diamo il nome di marocchino a tutti gli infelici come te, che vanno in giro per le strade, coperti di stuoie e di tappeti, lanciando ogni tanto quel grido, non si sa bene se di richiamo o di sofferenza: tapis!
La gente non conosce nulla della tua terra. Poco le importa se sei della Somalia o dell'Eritrea, dell'Etiopia o di Capo Verde. A che serve? Il mondo ti è indifferente.
Dimmi marocchino. Ma sotto quella pelle scura hai un'anima pure tu? Quando rannicchiato nella tua macchina consumi un pasto veloce, qualche volta versi anche tu lacrime amare nella scodella? Conti anche tu i soldi la sera come facevano un tempo i nostri emigranti? E a fine mese mandi a casa pure tu i poveri risparmi, immaginandoti la gioia di chi li riceverà? E' viva tua madre? La sera dice anche lei le orazioni per il figlio lontano e invoca Allah, guardando i minareti del villaggio addormentato? Scrivi anche tu lettere d'amore? Dici anche tu alla tua donna che sei stanco, ma che un giorno tornerai e le costruirai un tukul tutto per lei, ai margini del deserto o a ridosso della brugheria?
Mio caro fratello, perdonaci. Anche a nome di tutti gli emigrati clandestini come te, che sono penetrati in Italia, con le astuzie della disperazione, e ora sopravvivono adattandosi ai lavori più umili. Sfruttati, sottopagati, ricattati, sono costretti al silenzio sotto la minaccia di improvvise denunce, che farebbero immediatamente scattare il "foglio di via" obbligatorio.
Perdonaci, fratello marocchino, se noi cristiani non ti diamo neppure l'ospitalità della soglia. Se nei giorni di festa, non ti abbiamo braccato per condurti a mensa con noi. Se a mezzogiorno ti abbiamo lasciato sulla piazza, deserta dopo la fiera, a mangiare in solitudine le olive nere della tua miseria.
Perdona soprattutto me che non ti ho fermato per chiederti come stai. Se leggi fedelmente il Corano. Se osservi scrupolosamente le norme di Maometto. Se hai bisogno di un luogo dove poter riassaporare, con i tuoi fratelli di fede e di sventura, i silenzi misteriosi della tua moschea. Perdonaci, fratello marocchino. Un giorno, quando nel cielo incontreremo il nostro Dio, questo infaticabile viandante sulle strade della terra, ci accorgeremo con sorpresa che egli ha... il colore della tua pelle.
extracomunitaristranieriaccoglienzacaritàsolidarietàamore
inviato da Anna Barbi, inserito il 11/12/2002