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TESTO

1. Culture autentiche

Yuval Noah Harari, Da animali a dèi. Breve storia dell'umanità (2014)

Si parla ancora molto di culture "autentiche": ma, se per "autentico" intendiamo qualcosa che si è sviluppato in modo autonomo e che consiste di tradizioni locali antiche, libere da influssi esterni, bisogna affermare che non è rimasta nessuna cultura autentica sulla Terra. Durante gli ultimi secoli, tutte le culture sono state trasformate da influenze globali tanto da renderle quasi irriconoscibili.

Uno degli più interessanti esempi di questa globalizzazione è la cucina "etnica". In un ristorante italiano ci aspettiamo di trovare spaghetti con salsa di pomodoro; in ristoranti polacchi o irlandesi, tante patate; in un ristorante argentino di poter scegliere tra dozzine di tipi di bistecche di manzo; in un ristorante indiano, il peperoncino incorporato in qualsiasi altra combinazione di spezie; e che in un caffè svizzero ci venga proposto un trionfo di cioccolato caldo con sopra una montagna di panna.

Nessuno di questi alimenti è nato in realtà nei paesi citati. I pomodori, i peperoncini rossi e il cacao sono in origine tutti messicani; sono arrivati in Europa e in Asia solo dopo che gli spagnoli hanno conquistato il Messico. Giulio Cesare e Dante Alighieri non hanno mai arrotolato degli spaghetti con le loro forchette (le forchette peraltro non c'erano ancora), Guglielmo Tell non ha mai assaggiato la cioccolata, e Buddha non ha mai caricato il gusto del suo cibo con i peperoncini. Le patate sono arrivate in Polonia e in Irlanda non più di quattrocento anni fa. L'unica bistecca che si poteva ottenere in Argentina nel 1492 era di lama.

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inviato da Qumran2, inserito il 30/06/2017

ESPERIENZA

2. E Rachele piange i suoi figli che non ci sono più (Ger 31,15)

Testimonianza di Rachele, una donna delle montagne boliviane

«Avevo quattro figli e coltivavo, con mio marito Pepe, i nostri campi a mais e fagioli. A causa del cattivo raccolto, determinato da semi transgenici, che una multinazionale aveva dato a lui e ad altri contadini per sperimentare le rese, e a causa della impossibilità di restituire i prestiti che gli avevano fatto gli anni precedenti, Pepe si suicidò. Io, che non avevo diritto a ereditare il campo, andai bracciante da mio cognato cui spettò il campo.

Il primo anno di vedovanza il mio figlio più piccolo, che aveva solo pochi mesi, morì di diarrea. Qualche mese dopo morì la mia figlia maggiore, e non si è mai capito di quale malattia, oppure se di sfinimento, dato che lavorava come me nei campi ed aveva solo otto anni. Fu poi la volta del mio secondogenito che prese il morbillo e non aveva nessuna difesa immunitaria, almeno così dissero al dispensario.

Quell'anno si presentò Compadre Paco che tutti conoscevamo molto bene per la sua ricchezza fatta commerciando coca. Mi offrì di andare in montagna a coltivare coca, mi avrebbe regalato lui un campo, e così il mio figlio superstite ed io avremmo potuto sopravvivere. Lo guardai dritto negli occhi e gli dissi un secco no».

Nella sala della conferenza, che si svolgeva in una città del Nord del mondo, e dove le parole di Rachele erano state ascoltate in un silenzio assoluto, una signora, visibilmente sconvolta, si alzò e quasi urlò: «Ma che madre sei? Perché non ci sei andata?».

Rachele, senza avere neanche la forza di sollevare lo sguardo, continuando a contorcere il manico della sua borsa di pezza, rispose semplicemente: «Perché sarebbe morto tuo figlio!».

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5.0/5 (1 voto)

inviato da Maddalena Rotolo, inserito il 05/02/2006