Far abitare

diac. Vito Calella

IV Domenica di Avvento (Anno B) (20 dicembre 2020)

L'importanza del “far abitare”.

Il re Davide, una volta consolidato il suo regno, si era preoccupato di far costruire un palazzo comodo e sicuro per lui e la sua famiglia. «Quando si fu stabilito nella sua casa, e il Signore gli ebbe dato riposo da tutti i suoi nemici all'intorno, disse al profeta Natan: “Vedi, io abito in una casa di cedro”» (2Sam 7, 1-2a). È un diritto legittimo assicurarsi una casa sicura per dimorare e sentire tutto il calore degli affetti familiari. Immedesimandoci nel re Davide percepiamo facilmente quanto condizioni le nostre scelte "farsi una casa" per garantire sicurezza a ciascuno di noi e alla nostra famiglia. Avere una dimora sicura, avere una casa che soddisfi le proprie esigenze diventa progetto di vita per tantissima gente. Il tempo di pandemia ha fatto della nostra casa il luogo della dimora sicura durante il lockdown: io sto in casa. Se fuori non ci si può toccare e nemmeno abbracciare, almeno dentro di casa si può gustare l'essenziale della relazione che viene sacrificato con le norme del distanziamento sociale. Abitare nella propria casa ci può far pensare a chi soffre per la mancanza di un focolare domestico accogliente. Pensiamo ai senzatetto, ai clochard, ai profughi di guerra, ai migranti. Portiamo nel cuore la sofferenza dell'isolamento degli anziani e dei nostri fratelli e sorelle affetti da malattie degenerative gravi, costretti ad una disumana separazione dai loro cari a causa di questa emergenza pandemica. A partire dalla sicurezza e dal piacere di avere una bella casa per se stessi, il re Davide si preoccupò di voler costruire una degna dimora, stabile e sicura anche per l'arca dell'alleanza, simbolo della presenza del Dio di Israele in mezzo al suo popolo: «Vedi, io abito in una casa di cedro, mentre l'arca di Dio sta sotto i teli di una tenda» (2Sam 7,2). Maturava in lui il progetto della costruzione del tempio di Gerusalemme, per riservare una stanza sacra alla custodia di quella cassa di cedro che conteneva le tavole delle dieci parole, cioè dei comandamenti consegnati a Mosè sul monte Sinai, in base ai quali si era stabilita l'alleanza del popolo liberato dall'Egitto con il suo Signore. «Natan rispose al re: “Va', fa' quanto hai in cuor tuo, perché il Signore è con te”» (2Sam 7,3).

«Il Signore è con te»: il progetto divino precede sempre quello umano.

La nobile intenzione di Davide di costruire il tempio divenne occasione, per mezzo del profeta Natan, per comunicare a Davide la rivelazione del progetto divino su di lui e sulla sua discendenza. Non era Davide a costruire per primo una dimora per il Dio di Israele, era il Dio di Israele a costruire per primo una casa, cioè una discendenza stabile ed eterna, per Davide: «Così dice il Signore: “Forse tu mi costruirai una casa, perché io vi abiti?” [...] Il Signore ti annuncia che farà a te una casa. Quando i tuoi giorni saranno compiuti e tu dormirai con i tuoi padri, io susciterò un tuo discendente dopo di te, uscito dalle tue viscere, e renderò stabile il suo regno”» (2Sam 7,11b-12). Con un gioco di parole, perché “casa” significa anche “discendenza”, veniva fatta a Davide la promessa divina della discendenza eterna riservata alla sua dinastia. I re discendenti di Davide venivano chiamati «figli di Dio», conforme la parola divina per mezzo del profeta: «Io sarò per lui padre ed egli sarà per me figlio» (2Sam 7, 14). C'era già una relazione filiale che legava il cuore dell'uomo con il suo Dio creatore e liberatore. I re discendenti di Davide si succedettero storicamente a Gerusalemme fino alla distruzione della città da parte dei babilonesi, nel 587 a.C: data che segnò l'inizio dell'esilio in Babilonia. Furono circa 400 anni di continuità di quella promessa: «La tua casa e il tuo regno saranno saldi per sempre davanti a te, il tuo trono sarà reso stabile per sempre» (2Sam 7,16). Con l'esilio quella continuità si era interrotta, la promessa divina sembrava svanita. Non ci fu più un regno davidico in Palestina, nemmeno dopo il ritorno dall'esilio. Il tempio di Gerusalemme fu costruito da Salomone, figlio di Davide. Fu distrutto dai babilonesi e ricostruito dopo l'esilio. Godeva di grande splendore al tempo di Gesù. La genealogia di Gesù, attestata nella versione di san Matteo e san Luca, ci dice che la discendenza della “casa di Davide” continuò ad essere annotata e portava anche a Giuseppe, abitante di un insignificante villaggio della Galilea chiamato Nazaret, già promesso sposo di una giovane donna di nome Maria. La promessa di Dio fatta a Davide divenne la sorgente del messianismo regale. La promessa divina di una discendenza eterna aveva alimentato nel popolo, grazie a tanti altri oracoli dei profeti, l'aspettativa della venuta di un re Messia, liberatore di Israele e instauratore di un regno nuovo governato da un re della casa di Davide. Il Vangelo di questa domenica ci annuncia il compimento di tutte le aspettative di un re messia avvenuto in Maria per iniziativa divina.

Maria nuovo tempio della dimora del Signore.

Sei mesi prima il compimento della storia della salvezza aveva avuto inizio con l'annuncio dell'angelo di Dio a Zaccaria, avvenuto proprio nel tempio di Gerusalemme. Si sarebbe realizzato con l'aiuto divino il concepimento e la nascita di Giovanni, il precursore del Messia, da parte di due genitori anziani e fino ad allora sterili di prole (Lc 1,5-25). Ora, mediante il racconto dell'annunciazione dell'angelo a Maria, avvenuto a Nazaret, in un luogo insignificante di periferia, in un luogo mai nominato dai profeti e non attestato nelle Sacre Scritture, si realizzava la prima promessa fatta da Dio a Davide per mezzo del profeta Natan: nella corporeità vivente di quella umile e povera giovane vergine veniva ad abitare colui che sarebbe stato riconosciuto e adorato da tutti come «Figlio dell'Altissimo, Figlio di Dio» (Lc 1,32.35). Per questo motivo noi invochiamo Maria, la madre di Dio, anche con il titolo di «arca della nuova alleanza». Questa arca vivente è il grembo materno della vergine. Tutta la persona di Maria è il tempio vivente che custodisce il «Verbo divino fatto carne» (Gv 1,14), «chiamato Gesù» (Lc 1,31b), il quale dalla sua «condizione di Dio» assunse la «condizione di servo» divenendo simile a tutti noi (Fil 2,6-7). Nel deserto la tenda del santuario custodente l'arca era avvolta dalla «nube» della gloria di Dio (Es 40,34-35). Tutta la corporeità vivente della vergine Maria veniva custodita e avvolta dalla nube della potenza divina dello Spirito Santo: «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell'Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio» (Lc 1,35). Le famose parole del “si” di Maria, «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola» (Lc 1,38), possono essere interpretate con un semplice verbo: far abitare.

Far abitare.

Sia questa la parola “chiave” che prepara il nostro cuore a vivere la festa del Natale ormai alle porte.

Scegliamo di far abitare innanzitutto nel nostro cuore e nella nostra mente le parole del Vangelo già disponibili per tutte le genti, per ciascuno di noi, come testimonia per noi l'apostolo Paolo! Diamo gloria al Padre, perché «ha il potere di confermarci nel Vangelo [...]per mezzo di Gesù Cristo» (Rm 16, 25-26).

La stessa «potenza dell'Altissimo», che ha generato il Figlio di Dio nel grembo materno della vergine Maria, ha già preso dimora nel mondo interiore della nostra coscienza. Sta a ciascuno di noi, con la sua libertà, scegliere di “far abitare” lo Spirito Santo in noi come agente principale. Gesù Cristo, il Figlio di Dio, diventerà allora il centro della nostra esistenza, perché saremo illuminati dalla sapienza del Vangelo e centralizzati nell'esperienza pasquale della sua morte e risurrezione grazie al dono gratuito del suo corpo e del suo sangue.

Più facciamo abitare il Cristo al centro dei nostri pensieri, lasciando agire in noi lo Spirito Santo, più ci sentiamo graziati dalla sua fedeltà, nonostante le nostre fragilità e tendenze a far prevalere i nostri interessi egoistici. La nostra gratitudine diventerà preghiera di lode per il suo amore eterno, come abbiamo pregato con il salmo: «È un amore edificato per sempre; nel cielo rendi stabile la tua fedeltà» (salmo 89,3).

Il sentirci amati da figli, sempre riscattati dal suo amore fedele e misericordioso ci chiede di far abitare nella nostra tessitura di relazioni l'ammalato, l'affamato, l'oppresso, l'abbandonato, il senza tetto, il migrante, il pellegrino, l'ultimo più sofferente. La vergine Maria, nell'umiltà della sua condizione umana, rappresenta tutto il resto di Israele, quel popolo di ultimi caduto nella rete della cultura dello scarto, mai dimenticato, mai abbandonato dallo sguardo ospitale e tenero del Padre.