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XVIII Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) (2 agosto 2020)

COMMENTO ALLE LETTURE

Commento a cura di don Paolo Ricciardi

Mi piacerebbe fare oggi l'elogio del pane.

Un senso misterioso, quasi sacro, accompagna questo nutrimento dell'uomo che significa vita e la cui mancanza richiama invece la fame e l'immagine della morte.

A metà dell'estate il pane ci fa pensare alle cene con gli amici, alle bruschette abbrustolite con tanto di carne, ai pranzi al sacco per le passeggiate in montagna o per godersi un momento di relax contemplando il mare. Penso al pane fresco - perché caldo - uscito dal forno, non a quello riscaldato al microonde; il pane segno della com-pagnia (cum panis).

Oggi il vangelo mostra davanti ai nostri occhi stupiti una folla enorme di più di cinquemila persone di cui Gesù sente compassione e che lui sfama. E tutto nasce da uno sguardo di amore viscerale, lo sguardo di Dio sull'uomo che lo cerca.

Sembra proprio che basti cercarlo e Dio lascia la sua solitudine, il luogo “deserto” della sua inaccessibilità e accorre dall'uomo. L'uomo è povero, affaticato, malato, solo anche in mezzo alla folla, e soprattutto ha fame. È la fame la cui soddisfazione permette di mantenere la vita: una fame di pane e di verità e di compassione.

Una fame che ritorna, si ripresenta come a un appuntamento, un bisogno continuo e perenne.

Gesù risponde alla folla che lo cerca, che gli porta i malati, che lo segue e lo ascolta e che non si accorge che “è ormai tardi”. Oggi questo incontro è per noi e Lui ci sfama...

Gesù sazia il bisogno di verità e di amore, ma sazia anche l'istinto naturale del corpo.

Per essere “discepoli”, forse, occorre avere gli stessi occhi di Gesù, quelli che videro “una grande folla”; e avere lo stesso cuore, quello che “sentì compassione per loro”.

In questo tempo di pandemia siamo stati chiamati tutti a guardare all'umanità che ha bisogno di relazioni autentiche, di respiro di Vita vera. I tanti che si sono impoveriti in questo tempo chiedono pane e ascolto, aiuto materiale e comprensione.

Ma torniamo ancora a quella sera, in riva al lago di Tiberiade. Cinquemila uomini con donne e bambini. Un amore li ha condotti “in un luogo deserto”, al limite della notte: Gesù.

I discepoli, uomini pratici, dicono: “Congeda la folla perché vada nei villaggi a comprarsi da mangiare”. Ma Gesù dice: "Non occorre che vadano; date loro voi stessi da mangiare”.

Due atteggiamenti opposti, riassunti da due verbi: comprare o dare.

Comprare è la mentalità nostra: se vuoi qualcosa, la devi pagare. Non c'è nulla di strano, ma neppure nulla di grande in questa logica dove trionfa l'eterna illusione dell'equilibrio del dare e dell'avere. Il profeta Isaia, annunciando il Regno di Dio, aveva esclamato: “O voi tutti assetati venite all'acqua... comprate e mangiate e, senza denaro, vino e latte. “Perché spendete denaro per ciò che non è pane, il vostro patrimonio per ciò che non sazia?” (Is 55, 1-2).

Gesù va oltre, non dice: “Comprate senza denaro”; introduce invece il suo verbo: “date voi stessi da mangiare”. Non: “vendete, scambiate, prestate”: ma semplicemente, radicalmente: “date”.

Ecco allora il “segno”, quando, partendo da cinque pani, il pane mio diventa nostro, “nostro pane quotidiano”. È strano che questo miracolo di Gesù - l'unico raccontato da tutti e quattro i vangeli - sia passato alla storia come la “moltiplicazione” dei pani e dei pesci, quando non è scritto da nessuna parte che lui moltiplica, come per magia, i pochi elementi che aveva.

Semmai, egli divide, spezza, distribuisce. E si fa aiutare dai dodici, e dai discepoli, che si fanno portatori di pane, in quella giornata in cui avranno faticato come non mai, con forse l'intimo desiderio di congedare quella folla per stare un po' da soli e riposare con Gesù. Mentre invece sono chiamati a mettersi al servizio.

Oserei pensare che forse non c'è stato nessun miracolo di Gesù. Il ragazzo (secondo il passo parallelo di Giovanni) è stato il primo che ha tirato fuori quello che aveva... ma possibile che gli altri cinquemila non avevano proprio niente? Pian piano, ognuno si sarà fatto coraggio, avrà tirato fuori chi un altro pane, chi del pesce, chi del formaggio... e hanno condiviso. Un po' come capita nelle nostre parrocchie quando c'è una festa e si dice a ciascuno di portare qualcosa. All'inizio si teme che non basti per tutti, ma poi avanza sempre.

È una misteriosa regola del Regno: poco pane, condiviso tra tutti, è sufficiente, diventa il pane di Dio. La fame comincia quando io tengo il mio pane per me. In questo nostro mondo il primo miracolo, impossibile e pure necessario, non è moltiplicare ma con-dividere. Ho notato con sofferenza come le persone che non volevano mai impegnarsi si giustificassero nel non avere tempo, ma erano sempre tristi. Mentre chi apriva la propria “bisaccia” era sempre gioioso, e non ho mai capito come avessero il tempo e le energie per tutto e per tutti.

E nulla andrà perduto, nulla è troppo piccolo per non servire alla comunione. Sarà il vero segno di Cristo che ha dato tutto di sé, ha dato se stesso e ora nessuna cosa al mondo potrà separarci dal Suo amore.

Solo così potremo dare pane a chi ha fame, e fame di Dio a chi ha il pane.