Commento su Giovanni 3,16-18

fr. Massimo Rossi

Santissima Trinità (Anno A) (7 giugno 2020)

L'icona occidentale della Trinità è rappresentata dal Padre che sorregge la croce ove è inchiodato il corpo senza vita di Gesù; lo sguardo del Padre è rivolto al Figlio; la colomba dello Spirito Santo, con le ali spiegate, fa da trait-union tra gli occhi del Padre e il capo reclinato del Crocifisso.

Proviamo a riflettere sulla scena immortalata dal pittore, in particolare sul significato teologico di questa icona, la quale, ripeto, costituisce “il modo occidentale” di concepire la Trinità; diversamente da quella più famosa, di Rublev, che ritrae tre angeli seduti a tavola, ove i soggetti sono sostanzialmente identici: lo sguardo (impassibile) non tradisce alcuna emozione, un fermoimmagine privo di azione. La nostra Trinità - passatemi l'espressione - è invece piena di forza espressiva, di movimento,... Le braccia possenti di Dio reggono il corpo del figlio appena spirato, mentre lo Spirito che li lega in un vincolo di amore assoluto, mantiene la posizione a colpi di ali... C'è dentro tutta la Rivelazione: l'amore di Dio Padre, impersonato dallo Spirito volante non si ferma neanche di fronte alla morte, ma continua a spirare immutato e immutabile.

Un fatto sembra chiaro: la morte sta dentro la Trinità, contrastata, sì, dalla vita nello Spirito, immortale, ma presente, (la morte) a perpetua memoria. I giorni della Passione sono passati, ma il mistero della sofferenza resta, non per spaventarci, ma per richiamarci ancora e sempre sul dramma della Pasqua, ove morte e vita nuova convivono, come le facce di una stessa medaglia. “Mors et vita duello conflixere mirando...” si canta a Pasqua.

Il nostro Dio sa ciò di cui abbiamo bisogno, non per sentito dire, ma per esperienza diretta.

La Sua esperienza della morte non ha tuttavia spento il flusso dell'Amore. In questo si manifesta la dimensione infinita di Dio: ferito dalla morte del Figlio, il Suo amore è più forte, e vince!

In questa linea, il Vangelo di Giovanni sottolinea che Dio ha mandato suo Figlio, non per condannare il mondo, ma per salvarlo. Se Dio è amore, come continua a dichiarare il quarto evangelista - quasi un basso ostinato - “Amore” mal si declina nei termini di una condanna.

Invece, il binomio Amore-salvezza è perfetto! Talmente perfetto che quasi ci spiazza: alla nostra logica sfugge la ratio di un amore - quello di Dio - che ama tutti, soprattutto i peccatori, senza condizioni. Su quest'ultimo particolare non ci è facile lasciar correre... Qualche piccola condizione all'amore di Dio, inteso come perdono intrinseco, e indiscriminato, quasi scriteriato - anzi, senza ‘quasi' - (qualche piccola condizione) noi la metteremmo... Per esempio, la condizione che ci si converta. La questione è delicatissima e lascia divisi sul fronte della misericordia, nucleo centrale della fede cristiana.

Il mio problema - credo sia il problema di tutti - è quello di credere nel valore infinito dell'amore di Dio, ma, nel contempo, immaginare che da questo amore possano rimanere esclusi coloro che volontariamente - quanto volontariamente non si sa! - non vi corrispondono, rifiutando di cambiare vita. È vero, Dio non esclude apriori nessuno... siamo noi ad autoescluderci (dall'amore di Dio)... Resta il fatto che chi rimanesse fuori dalla salvezza - pochi, o tanti che fossero, ne basterebbe anche uno solo - costituisce un limite oggettivo all'amore di Dio; nel senso che Dio non è stato in grado di salvarlo - ripeto, non per cattiva volontà di Lui -; dunque l'Amore di Dio incorre in un limite, il rifiuto dell'uomo. E il principio dell'Amore infinito comincia a vacillare. Almeno per quel caso, almeno per quei casi - spero pochi! - l'Amore di Dio non sarà stato efficace. Amore infinito? Amore onnipotente? O non piuttosto, Amore finito, amore impotente...

La questione rimane aperta, e forse non ha soluzione, almeno secondo la nostra mentalità...

Non siamo capaci di liberarci dal concetto retributivo “giusto-sbagliato”...

E questo bemolle che inseriamo nel disegno di salvezza divino, ci mantiene ancora a distanza dallo stesso Amore (di Dio).

La severità di questa pagina del quarto Evangelo è mitigata in parte dallo stesso Giovanni, il quale, nella sua Prima Lettera, al capitolo 3, versetto 20: “Qualunque cosa il nostro cuore ci rimproveri, Dio è più grande del nostro cuore.”

Ma questi sono ragionamenti...

Noi che oggi riflettiamo sulla Trinità, siamo sensibili all'Amore di Dio, e rispondiamo ogni giorno a questo Amore! a volte ci riusciamo meglio, a volte peggio...

Ma una cosa, almeno, l'abbiamo capita: possiamo anche allontanarci da Dio! e Dio sa quante volte lo abbiamo fatto! e anche noi lo sappiamo... Ma mai, mai ci siamo allontanati così tanto da smarrire la strada del ritorno.

Siamo in chiusura: tornando all'icona della Trinità, che noi credenti abbiamo scelto come modello ideale dell'amore umano, anche noi sentiamoci chiamati ad integrare il mistero della (nostra) morte nel più ampio mistero della (nostra) vita.

Consideriamo che la morte non si oppone alla vita; casomai alla nascita; la morte fa parte della vita, ce lo insegna la natura; e questo legame vitale non fa problema, fino a quando non ci tocca da vicino.

La sfida che tutti dobbiamo affrontare e che ci impedisce di godere fino in fondo della vita, è il binomio morte-fine, dove il secondo termine (del binomio) “fine” è inteso nel genere femminile, “la fine”, e non maschile “il fine”... Proviamo a scriverlo: “la morte è il fine della vita”, come titolo di un compito a casa... Gesù ci ha creduto: “Ora l'anima mia è turbata; e che debbo dire? Padre salvami da quest'ora? ma per questo sono giunto a quest'ora! Padre, glorifica il tuo nome. Venne allora una voce dal cielo: L'ho glorificato e di nuovo lo glorificherò!” (Gv 12,27-28). Mi piace pensare che in quell'icona, il Padre stia sussurrando proprio queste parole al Figlio: Ho glorificato il mio nome e di nuovo lo glorificherò.

E noi sappiamo bene che cosa vuol dire, non è vero?