Pregiudizi razziali anche nella Bibbia

mons. Roberto Brunelli

XXVIII Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) (13 ottobre 2019)

Anche nella nostra società sedicente evoluta, l'accentuata immigrazione di stranieri che caratterizza i nostri tempi manifesta l'accentuarsi dei pregiudizi razziali. Peraltro, essi sono vecchi come il mondo: e la Bibbia ne dà la prova. Gli antichi ebrei, convinti che Dio fosse unicamente il "loro" Dio, guardavano con indifferenza, quando non con sottile disprezzo, gli appartenenti ad altri popoli; se trascurati da Dio - questo il loro sotteso ragionamento - dovevano essere rozzi e malvagi. Eppure la Bibbia smentisce spesso simili convinzioni: ad esempio nei due casi presentati dalle letture di oggi.


La prima (2Re 5,14-17) porta all'VIII secolo avanti Cristo. Il profeta Eliseo guarisce "a distanza" il comandante dell'esercito siriano, colpito dalla lebbra: è uno straniero, non sapeva nulla del Dio d'Israele, ma quando il prodigio glielo fa scoprire manifesta pubblicamente la sua riconoscenza. Secondo caso: Gesù (Luca 17,11-19) risana "a distanza" dieci lebbrosi; però soltanto "uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un samaritano". Non è l'unico passo del vangelo in cui i samaritani, detestati dagli ebrei in quanto stranieri ed eretici, emergono migliori di loro: basti ricordare la parabola detta appunto del "buon" samaritano, perenne ammonimento sul fatto che non è la razza a determinare la qualità degli uomini.


I due episodi presentano molte somiglianze: in entrambi i beneficiati sono lebbrosi, sono stranieri, sono guariti a distanza; ma soprattutto, sono riconoscenti. Il fatto mette in evidenza, tra i guariti da Gesù, l'ingratitudine degli altri nove. "Quando incontriamo qualcuno che ci deve riconoscenza ce ne ricordiamo subito. Quante volte invece incontriamo qualcuno verso il quale abbiamo un debito di gratitudine e non ci pensiamo", ha scritto Goethe. Ed è tanto più vero riguardo a Colui al quale più di chiunque altro dobbiamo gratitudine, perché da lui abbiamo ricevuto tutto: la vita, con ogni buona cosa che la vita ci ha portato e ci porta, come l'intelligenza e l'istruzione, la possibilità di mangiare tutti i giorni, di avere una casa e un vestito e di curarci se ci ammaliamo, la capacità di amare ed essere amati, un mondo da ammirare per l'infinità di cose belle che racchiude. Soprattutto, da Dio abbiamo ricevuto incomparabili doni spirituali, riassumibili nella sua amicizia e nella possibilità di raggiungerlo, un giorno.


 Spesso ci si dimentica di tutto ciò; tutto ci pare dovuto, o insignificante perché ovvio, scontato. Ecco perché nella preghiera spesso ci limitiamo a chiedere, chiedere ancora, chiedere dell'altro. Sarà allora il caso di ricordare il senso autentico della domenica cristiana. "Ricordati di santificare le feste", recita uno dei comandamenti; già prima di Gesù, la festa comportava di non lavorare, per avere il tempo e le disposizioni d'animo adatte ad elevare la mente a Dio con sentimenti di riconoscenza. Con Gesù, la festa ha mantenuto lo stesso significato, ma enormemente arricchito: la riconoscenza trova la sua espressione più alta nella Messa, il cui nome proprio, non a caso, è Eucaristia, cioè "ringraziamento". Nella Messa, sacerdote e fedeli riconoscono di avere ricevuto tutto da Dio e, come si dovrebbe anche nei rapporti tra gli uomini, contraccambiano come possono. Di nostro avremmo ben poco da dargli; ma - stupore - lui stesso ci ha messo nelle mani il dono da offrirgli, ed è il dono più grande, il suo stesso Figlio per noi morto e risorto.

Quale meraviglia, quale generosità! Dio ci colma di doni, compreso quello da offrire a lui; da parte nostra occorre soltanto la volontà di farlo. E se lo facciamo, se anche noi ci riconosciamo graziati, si realizza anche per noi quanto Gesù ha detto all'unico dei dieci lebbrosi tornato a ringraziarlo: "Alzati e va'; la tua fede ti ha salvato".