Colui che serve

padre Gian Franco Scarpitta

Giovedì Santo (Messa in Cena Domini) (18 aprile 2019)

“Io sono in mezzo a voi come colui che serve” esclama Gesù ai suoi discepoli e accompagna quest'espressione con una serie di atti allusivi e in se stessi categorici nell'espressione.

Ci si trova innanzitutto in una sala convenientemente adornata e predisposta appartenente a qualcuno che Gesù doveva ben conoscere, visto che è proprio lui a indicarla (Mt 26, 17 - 19) e lì si sta consumando un banchetto di commiato. Per i Sinottici è esattamente quello della vigilia di Pasqua, per Giovanni, come afferma Ratzinger, si tratterebbe di una cena in antivigilia della Festa. In ogni caso vi è sempre un riferimento alla Pasqua in questa serata in cui si banchetta insieme, perché tutto è predisposto con particolare attenzione, come si conviene in tutte le cene che esaltano una ricorrenza religiosa. C'è però un particolare: secondo l'usanza del tempo molto probabilmente sarebbe dovuto comparire un servitore, oggi diremmo un cameriere o comunque un addetto con il ruolo di servire a tavola i commensali. Questo ruolo lo assume invece Gesù, non solamente nell'amministrazione del pasto.

Prima che questo cominci, compie un atto a dir poco insolito e raccapricciante considerando la mentalità dell'epoca, forse fra quelli mai visti nella teologia e nella letteratura di ogni tempo: si alza da tavola e, cintosi un asciugamano alla vita, versata dell'acqua in un catino, si china a lavare i piedi a ciascuno dei suoi discepoli e ad asciugarli. Il che è la massima espressione del dono di sé, concesso risolutamente e senza riserve; l'abbassamento più impensabile che si possa concepire in ordine al servizio e soprattutto la concretezza indiscussa dell'amore con cui Gesù (è lo stesso testo che parla) aveva amato i suoi discepoli fino alla fine.

Se un simile atto si dovesse identificare come ignominioso, riprovevole e ridicolo, l'amore ha per l'appunto del riprovevole e del ridicolo, perché Gesù non omette di farlo e non si pone condizionamento alcuno nell'eseguirlo. Anzi su questo gesto fonda poi una pedagogia: se proprio io, che voi chiamate maestro, lavo i piedi a voi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri, essere cioè capaci di eroismo fino al punto di servirvi mutuamente fino all'inverosimile, perché esista fra di voi nient'altro che vicendevole amore spontaneo fatto di concretezza e di incontrovertibile verità. L'amore si evidenzia nei piccoli doni fatti di cuore e senza riserve, nell'esercizio della generosità irrazionale e inaudita, nella deliberazione di scelte che hanno dell'assurdo al comune occhio umano, ma cosa c'è di più eloquente di un gesto allusivo come quello della lavanda dei piedi, semplice e allo stesso tempo grandioso? Esso esprime la realtà totalizzante dell'amore che scaturisce dal cuore di una persona ed è il riflesso esteriore di un'interiorità sincera e genuina, che rifugge ogni esibizionismo e qualsiasi parvenza. E che è di sprone all'impostazione di un nuovo criterio di vita impostato nel mutuo servizio dedicato e responsabile gli uni verso gli altri.

La cena si svolge secondo le consuetudini locali, sempre con un'eccezione simile a quella sopraricordata: è lo stesso Signore che prende il pane da tavola e lo spezza distribuendolo a tutti gli astanti e la ripartizione del pane è già essa stessa un elemento di servizio e di autodonazione: Gesù si offre senza riserve e risolutamente ai suoi, senza chiedere nulla in cambio, ben coscio che di li a poco dovrà lasciarli. Poi, distribuendo il pane esclama: “Questo è il mio corpo”. Attenzione, gli esegeti osservano che Gesù non dice “Questo pane è il mio corpo”. Il termine “questo” (usato anche per il vino) è un neutro che si riferisce non al pane ivi presente, ma appunto al suo stesso corpo fisico, alla sua carne. Se Cristo dicesse “questo pane è il mio Corpo” il pane sarebbe solamente un simbolo o una metafora ma non si tramuterebbe sostanzialmente in Lui. Resterebbe insomma pane. Invece “questo è il mio Corpo” indica che quel pane ha mutato la sostanza: anche se appare pane fisico con tutti i suoi attributi in realtà è diventato il suo stesso Corpo, la sua carne insomma la vita che viene data per noi. Che nelle lingue orientali significa “Questo sono io.”

Analoga situazione per il vino, che diventa a tutti gli effetti il suo Sangue. Esso poi inaugura la nuova alleanza con Dio, poiché mentre i sacrifici antichi si servivano del sangue di giovenchi per suggellare alleanze fra Dio e il popolo, è lo stesso Sangue di Cristo che instaura la vera alleanza definitiva, quella per la quale in Cristo Dio espierà tutti i nostri peccati.

“Fate questo in memoria di me” è l'invito a perpetuare nel tempo la gestualità appena descritta e a ripresentare lo stesso Corpo e Sangue del Signore ogni qual volta ci si riunisca “allo spezzare il pane e nelle preghiere”(At 2, 42). Nella celebrazione del “memoriale” di questa cena avviene parimenti che il pane e il vino presenti sulla mensa mutano la loro sostanza in quella del Corpo del Sangue di Cristo e che si ripresenti lo stesso sacrificio che Gesù fece di se stesso sulla croce. Gesù si ripresenta nella sua immolazione spontanea per noi e intanto si lascia “consumare” da noi, come del resto aveva detto Giovanni al cap 6 del suo Vangelo: mangiate la mia carne e bevete il mio Sangue per avere in voi la vita. L'Eucarestia è di fatto la vita di Cristo che si dona a noi che diventa vita della Chiesa e la cui forza irradiante non può non edificare la società e il mondo intero. Al Sacramento per eccellenza in effetti non ci si dovrebbe “abituare”, ma occorrerebbe accostarvisi ogni volta come se esso costituisse una novità, per evitare il rischio che con il passare del tempo lo si assuma con distacco o con poca referenza. Dovrebbe esservi in ciascuno di noi ogni volta lo stesso entusiasmo e la stessa gioia che provano i bambini quando vi approdano per la prima volta nella cosiddetta “Prima Comunione”, con la differenza che loro sono abbacinati il più delle volte dal fascino dei regali e della festa al ristorante; noi siamo invece avvinti dalla gioia del dono unico che Cristo ci fa di se stesso e della festa continua di vita che la sua presenza comporta per noi e per tutti.

E se si tratta del Sacramento della vita non dovremmo omettere di viverlo in pienezza, di farne un criterio di esistenza e di convivenza e una ragione per cui esserne gioiosi apportatori agli altri.

Nella presenza reale e sostanziale, garantita da Gesù “tutti i giorni fino alla fine del tempo” attraverso il ministero di un sacerdote, Gesù ci assicura che è sua premura non lasciarci soli in tutto il nostro percorso di indentità cristiana e di missione e la sua presenza non si limita al solo aspetto di spiritualità e lesina ogni astrattismo infruttuoso e inane. Essa è presenza reale e sostanziale perché è proprio Lui, Corpo, Sangue, Anima, Divinità, a presenziare nelle specie del pane e del vino e proprio Egli stesso è costantemente presente nella forma concreta in qualsiasi luogo vi sia anche una sola particola consacrata. Sarà l'ulteriore dono dello Spirito Santo a far sì che noi ne avvertiamo la presenza, ma nelle parole “Questo è il mio Corpo” e “Questo è il mio Sangue” siamo già appagati in questa inconsapevole ricerca di gioia e di verità apportata dall'unico che ci ha veramente serviti pur essendo un Grande.