Il poco che da gioia

dom Luigi Gioia

XXXIII Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) (19 novembre 2017)

Anche solo soffermandosi sul frutto atteso, non è scontato riconoscere la logica evangelica nella parabola dei talenti. Nella parabola del seme, Matteo afferma infatti che il seme gettato sulla buona terra produce il cento, il sessanta, il trenta per uno, mentre in quella dei talenti il padrone non sembra attendere nulla di più dell'uno per uno! Da chi ha ricevuto cinque talenti se ne attendono non cinquecento, ma solo cinque; da chi ha ricevuto due talenti, solo due. Siamo lontani dall'abbondanza che caratterizza i frutti dell'azione di Dio nei fedeli secondo il Nuovo Testamento!

Ma la logica evangelica è difficilmente riconoscibile anche riguardo al tipo di relazione che questa parabola sembra presupporre. Si parla di un padrone e di servi, sembra che si tratti di un contratto ben definito, un do ut des, “ti do perché tu mi dia in ritorno”. Per riprendere una classificazione ben nota nella tradizione spirituale, sembra che essa descriva una relazione da servi o da mercenari, non da figli o da amici. Invece Gesù ci dichiara: Vi ho chiamati amici e non servi e ci insegna a chiamare Dio Padre.

Partiamo allora dalla frase con la quale l'ultimo servitore cerca di giustificare la propria negligenza con il suo padrone: Signore, io so che sei un uomo duro che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo .

E' in causa qui la percezione che questo servitore si fa del suo padrone. Fin dall'inizio lo ha giudicato come un uomo duro, come qualcuno che vuole solo approfittare di lui, sfruttarlo, tendergli un tranello, che gli mente o che comunque sicuramente non cerca il suo vero bene. Non è sorprendente allora che subentri la paura e il riflesso che sempre l'accompagna, quello cioè di nascondersi, di proteggersi, di chiudersi in sé stessi. Ma è soprattutto la frase conclusiva quella che fa più impressione: Ecco ciò che è tuo, dice il servo. C'è la volontà di stabilire una differenza tra il mio e il tuo, di separarsi. C'è un rifiuto di relazione, di cooperazione, di comunione.

Un tale comportamento ci invita a riflettere sull'immagine che ci facciamo del Signore, su come lo percepiamo, su che tipo di relazione abbiamo con lui. C'è una differenza fondamentale tra l'avere paura del Signore -la paura di cui parla l'ultimo servo quando dice Ho avuto paura - e il timore del Signore evocato nella prima lettura tratta dal libro dei Proverbi e dal salmo 127: La donna che teme Dio è da lodare. Oppure: Ecco come è benedetto l'uomo che teme il Signore .

La paura del Signore paralizza, rinchiude in sé, acceca, intristisce, rende meschini e sterili. Il timore del Signore invece rende beati, Beato chi teme il Signore, e fecondi: i figli si moltiplicano come i virgulti d'ulivo. Il timore del Signore rende operosi, forti, coraggiosi, come questa donna della prima lettura che vediamo lavorare volentieri, stendere la mano al povero, suscitare la lode della città.

Vi è un parallelo tra il timore del Signore e la benedizione. Dice il salmo: Ecco come è benedetto l'uomo che teme il Signore. Chi teme il Signore è benedetto, cioè è reso fecondo, è amato, è ricompensato. Chi si riconosce benedetto dal Signore, lo benedice in ritorno, cioè gli rende grazie, lo adora, vive la sua vita in un trasporto di gratitudine che gli da ali, le ali che si acquistano quando ci si sente amati.

Quindi il timore del Signore è una forma di gratitudine: riconosco quanto ho ricevuto da lui, che tutto è dono, e ne gioisco, ne rendo grazie. Il timore del Signore è una forma di gioia: sapermi amato in questo modo, sapermi colmato, vedere quale prezzo ho agli occhi del Signore, dà un senso alla mia vita, una direzione, un dinamismo.

I primi due servitori hanno capito che il loro padrone era in realtà un padre e che i talenti affidati loro non erano un investimento dal quale il padrone sperava di ricavare qualcosa, ma erano un ‘poco'. Il padrone dice: Sei stato fedele nel poco. Ma questo ‘poco' è molto importante, perché questi talenti erano solo l'occasione che il padre offriva loro di mostrare un piccolo segno della loro gratitudine. Il Signore non ci chiede di fare grandi cose, si accontenta di piccoli segni. Come dice il salmo, non cerco cose grandi, superiori alle mie forze: “Io non sono capace di grandi imprese ma cerco di fare almeno quel ‘poco' che dà gioia al Signore”.

Non vi è più grande fierezza in un figlio che nell'avere la possibilità, l'occasione di manifestare a suo padre il proprio amore filiale e la propria gratitudine. I due primi servitori hanno riconosciuto nel lascito di questi talenti il Padre e il dono e si sono donati in cambio, felici di farlo, non per calcolo, ma per amore. È stata per loro una gioia. Ecco perché è detto: Entra nella gioia del tuo padrone. La nostra gioia più grande sarà infatti quella di potere un giorno incrociare lo sguardo del Signore e constatare che, poveramente, facendo un ‘poco', gli abbiamo dato gioia, abbiamo saputo accogliere il suo amore, lo abbiamo lasciato crescere in noi e diffondersi intorno a noi. Teniamo allora, meditiamo, portiamo con noi questa frase: Bene, servo buono e fedele, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone .

Il testo dell'omelia si trova in Luigi Gioia, "Mi guida la tua mano. Omelie sui vangeli domenicali. Anno A", ed. Dehoniane. Clicca qui