I cristiani e i loro “fratelli maggiori”

mons. Roberto Brunelli

XIX Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) (13 agosto 2017)

Se non fosse stata la festa della Trasfigurazione, domenica scorsa avremmo sentito il racconto della moltiplicazione dei pani e dei pesci. Dopo quell'episodio, il vangelo di oggi (Matteo 14,22-33) presenta ancora Gesù all'opera: "Costrinse i discepoli a salire sulla barca e a precederlo sull'altra riva, finché non avesse congedato la folla. Congedata la folla, salì sul monte, in disparte, a pregare. Venuta la sera, egli se ne stava lassù, da solo. La barca intanto distava già molte miglia da terra ed era agitata dalle onde: il vento infatti era contrario. Sul finire della notte egli andò verso di loro camminando sul mare. Vedendolo camminare sul mare, i discepoli furono sconvolti e dissero: E' un fantasma! E gridarono dalla paura. Ma subito Gesù parlò loro dicendo: Coraggio, sono io, non abbiate paura!"

Segue la prova: se sei tu, chiede Pietro, fammi venire a te sull'acqua. Vieni, è la risposta, e così accade; ma poco dopo l'apostolo si impaurisce e comincia ad affondare; invoca aiuto, Gesù lo afferra e lo sostiene, ma non rinuncia a rimproverarlo: "Uomo di poca fede, perché hai dubitato?" E' un perenne monito, ai singoli e alla Chiesa intera che Pietro rappresenta: la forza dei cristiani sta nella fede. Senza di me non potete fare niente di buono, disse Gesù in un'altra occasione.


 Ci sarebbe molto su cui riflettere, in proposito. Inoltre l'episodio forse ricorderà, ai meno giovani tra i lettori di queste righe, l'amata figura di Giovanni Paolo II, e la frase forte da lui pronunciata nei primi giorni di pontificato: "Non abbiate paura! Aprite, anzi spalancate le porte a Cristo!" Quel "non abbiate paura", che allora colpì molto, il papa non se lo inventò: lo prese pari pari dal vangelo, manifestando il valore perenne dell'esortazione rivolta ai discepoli da Colui di cui egli era il vicario in terra.


 Il suo ricordo è suggerito anche dalla seconda lettura, costituita dal passo in cui l'apostolo Paolo, scrivendo ai Romani (9,1-5), manifesta la propria pena ("Ho nel cuore un grande dolore e una sofferenza continua") per quella parte del popolo ebraico che non aveva riconosciuto in Cristo il Messia annunciato dai profeti. L'apostolo arriva a dire che, se servisse a farli ricredere, sarebbe disposto persino a rinunciare lui alla fede: "Vorrei essere io stesso anàtema, separato da Cristo, a vantaggio dei miei fratelli, miei consanguinei secondo la carne". Egli è consapevole della loro importanza nel piano salvifico di Dio, predisposto attraverso di loro per dare al mondo il Salvatore: "Essi sono Israeliti e hanno l'adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse; a loro appartengono i patriarchi e da loro proviene Cristo secondo la carne, egli che è sopra ogni cosa, Dio benedetto nei secoli".

Il dolore dell'apostolo per il mancato passo del riconoscimento di Gesù da parte del popolo ebraico si accompagna al dolore per le sue conseguenze: la tanto nefasta incomprensione, per non dire ostilità, che lungo i secoli ha accompagnato i rapporti tra cristiani ed ebrei. I cristiani ne hanno una loro copiosa parte di responsabilità; ma fortunatamente da qualche tempo i rapporti sono molto migliorati, soprattutto da quando l'ultimo Concilio (con la dichiarazione "Nostra aetate") ha ricordato che gli Israeliti “rimangono ancora carissimi a Dio, i cui doni e la cui vocazione sono senza pentimento", ed essendo tanto grande il patrimonio spirituale comune raccomanda "la mutua conoscenza e stima".

Giovanni Paolo II ha concorso assai a dare corpo a queste parole, sia con la sua indimenticabile preghiera nel luogo oggi più sacro agli ebrei, il cosiddetto "muro del pianto", sia, prima ancora, quando visitando la sinagoga di Roma riconobbe che la fede cristiana deriva da quella d'Israele, e pertanto li chiamò "i nostri fratelli maggiori". Basterebbero gesti come questi per motivare, verso quel grande papa, la riconoscenza dei cristiani, degli ebrei e del mondo intero.