Commento su Giovanni 3,16-18

fr. Massimo Rossi

Santissima Trinità (Anno A) (11 giugno 2017)

Siamo al terzo cap. del quarto Vangelo, appena al terzo capitolo, e Gesù già parla della sua passione; e ne parla come se fosse già avvenuta.

Verosimilmente si tratta di una riflessione dello scrittore ispirato, il quale scrive parecchi anni dopo gli eventi della Passione di Cristo e ne sottolinea non tanto l'elemento tragico, quanto piuttosto il significato teologico: la morte in croce è un dono d'amore voluto dal Padre e realizzato dal Figlio. Resta un mistero - non nel senso di sacramento, segno efficace della Grazia; mistero, come enigma! - il fatto che la condanna a morte di Gesù, il più grave errore giudiziario della storia, rappresenti al tempo stesso il più grande regalo che Dio potesse fare all'umanità...

Certo, le due realtà non possono sovrapporsi l'una sull'altra: la decisione del sinedrio, confermata dal governatore romano, resta un crimine! E questo bisogna affermarlo con forza, onde evitare l'equivoco perverso di chi intravede nel tradimento di Giuda, nell'atteggiamento dei Giudei e nella nequizia di Pilato altrettanti aspetti, certo paradossali, ma tant'è... di un disegno divino.

Se fosse così, bisognerebbe addirittura ringraziare queste brave persone, le quali, a modo loro, avrebbero fatto la volontà del Padre celeste, rendendo possibile la Passione di Cristo...

Recentemente un noto regista americano, Martin Scorzese, ha realizzato un film, peraltro chiacchieratissimo, sulla passione di Cristo, dal titolo L'ultima tentazione: in esso presenta la figura di Giuda, sottolineando che, al termine dell'ultima cena, l'apostolo ebbe un momento di incertezza e non voleva più tradire il suo Signore: ma Gesù lo confermò nel suo intento, dicendogli che, se non lo avesse tradito, il Figlio di Dio non avrebbe potuto salire in croce per redimere gli uomini.

Negli anni Settanta, l'ancor più famoso film Jesus Christ Superstar presenta, nella prima scena, Giuda, mentre grida al Cielo il suo dolore e canta: "Perché, Dio, hai scelto me?"

Insomma, Dio Onnipotente ha voluto, o non ha voluto la morte del figlio?

Mi fermo qui; continuate la riflesisone per conto vostro e vedete dove riuscite ad arrivare...

Una proposta: potremmo tracciare un grafico: sull'asse orizzontale delle ascisse misuriamo la volontà degli uomini; su quello verticale delle ordinate, la volontà di Dio.

Il grafico rappresenta la vicenda di Gesù, risultante dall'incontro/scontro fra la volontà di bene del Padre e la volontà di male degli uomini. Le due volontà non sono assolutamente omologabili, devono rimanere distanti tra loro, per poter determinare l'andamento del grafico. Rimando ancora e sempre alla lettura del testo di H.U. von Balthasar: "Il Rosario", ove l'insigne teologo parla diffusamente del rapporto tra il dono di Dio e il rifiuto del dono da parte degli uomini; in questo rapporto si gioca la sfida della salvezza. Questo rapporto costituisce il nodo cruciale della fede e della predicazione evangelica.

La pagina di Giovanni parla di salvezza e di condanna; la linea di demarcazione tra salvezza e condanna è la fede nel Cristo.

Senonché non è facile armonizzare le due sentenze del Signore:

- Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui.

- Chi non crede nel Figlio è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell'unigenito Figlio di Dio.

Alla fine della fiera, sta condanna (eterna) c'è o non c'è?

Se Dio ha mandato il Cristo a salvare il mondo, a morire non per i giusti, ma per gli empi, come si può pensare che (Dio) condanni qualcuno? Per la precisione, il termine ‘empio' significa non-pio, non religioso; nel contesto cristiano - e sottolineo ‘cristiano'! - la persona non religiosa è colui/colei che non pratica la fede, in altre parole, non va in chiesa; chi non va in chiesa non può dirsi credente... almeno non secondo i canoni del Vangelo. Se la celebrazione altro non è che la partecipazione al banchetto del Signore, un banchetto che è costato la vita a Dio, chi diserta la Messa, mostra chiaramente di non credere nel valore di quel banchetto, di quel sacrificio.

E, visto che il sacrificio di Cristo è l'unico sacrificio che ci salva, disertare la Messa significa non credere nel Cristo.

Ma, allora, questa famigerata condanna non viene da Dio; è la conseguenza, potremmo dire automatica, del rifiuto di partecipare alla Cena del Signore. In ultima analisi, si tratta di una autocondanna: colui/colei che rifiuta di ricevere il corpo del Signore, rifiuta di entrare in comunione con Lui, rifiuta di essere salvato...

Non diciamo forse, prima di fare la Comunione: "Signore non son degno di partecipare alla Tua mensa; ma dì soltanto una parola e sarò salvato"?

Dunque la salvezza è legata a doppio nodo alla partecipazione all'Eucaristia.

Ripeto, colui/colei che, senza validi motivi, rinuncia volontariamente alla Comunione, priva se stesso della salvezza; o, per dirla con le stesse parole di Giovanni, rifiuta di entrare nell'ovile passando per la porta che è Cristo.

È vero, la porta dell'ovile è una porta stretta; come dire: chi si accosta alla Comunione, deve almeno impegnarsi a costruire comunione intorno a sé e dentro di sé. Senza la corrispondenza tra la vita e la celebrazione, partecipare al sacramento sarebbe un gesto ipocrita, addirittura peggiore del rifiuto di partecipavi. Ma questo lo sapete già.

Il pane consacrato sull'altare è Cristo; è vero, Cristo ha insegnato, Cristo ha guarito, Cristo ha perdonato... Ma soprattutto, Cristo si è immolato: rifiutare di mangiare quel pane consacrato significa rifiutare l'incontro con Cristo che salva. Credo di averlo ripetuto a sufficienza.

Domenica prossima, solennità del Corpo e Sangue del Signore, avremo modo di ritornarci su.

Quest'anno ho voluto evitare la solita trattazione dottrinale-dogmatica sulla Trinità; la sentirete tra pochi istanti, quando reciterò l'omonimo Prefazio, l'inizio della preghiera eucaristica; poi mi direte se ci avete capito qualcosa...