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XIX Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) (7 agosto 2016)

COMMENTO ALLE LETTURE

Commento a cura delle Clarisse di Via Vitellia

In un mondo come il nostro di oggi, abituato dalla cultura digitale a tempi abbreviati in modo sorprendente, suona un po' stonata la parola "attesa", che le letture di oggi consegnano con insistenza alla nostra preghiera e alla nostra riflessione.

Il popolo di Israele, schiavo in Egitto, attendeva la salvezza, intesa come liberazione dall'oppressione; l'anima del salmista attende il suo Signore; i nostri antenati attendevano i beni promessi e morirono avendoli solo salutati da lontano; i servi della parabola evangelica attendono il ritorno del loro padrone. In ogni caso si tratta di sguardi rivolti verso un orizzonte, verso un futuro che sta davanti e che si avvicinerà in un momento imprecisato. Ricordiamo a questo proposito la domanda che gli apostoli rivolgono a Gesù prima della sua Ascensione: "«Signore, è questo il tempo in cui ricostituirai il regno di Israele?». Ma egli rispose: «Non spetta a voi conoscere i tempi e i momenti che il Padre ha riservato alla sua scelta, ma avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi...»" (At 11,6-8). Appunto, il momento che attendiamo, il momento della liberazione, della salvezza, quello risolutivo di una situazione di difficoltà... questo tempo non ci è dato di conoscerlo, e non resta che attenderlo.

Ma l'attesa crea una fatica, una tensione, un disagio, a cui oggi siamo sempre meno abituati.

Basta muoversi in una delle nostre grandi città per coglierlo: un ritardo ad un semaforo di qualche secondo crea nervosismo, il profilarsi di una fila ad uno sportello scoraggiamento, il ritardo di un mezzo pubblico inquietudine. Eppure la vita stessa nella naturalezza dei suoi ritmi biologici ci ha educati a ben altro: perché un seme si dischiuda e generi stelo, fiore e frutto ci vuole tempo; perché il sole e la luna facciano il loro corso e il buio della notte si apra al chiarore del giorno ci vuole tempo; infine, perché la promessa di vita maturi nel grembo della madre e veda la luce ci vuole tempo. Insomma, il Signore ha inscritto la categoria dell'attesa nella creazione e ne ha fatto qualcosa di ineliminabile.

È inutile che la moderna tecnologia cerchi di illuderci di altro, la vita stessa ci porterà prima o poi a scontrarci contro questa ineluttabile evidenza: il tempo chiede tempo!

Dire che ci vuole tempo significa dire che ci vuole pazienza, termine che ha la radice del latino patire, soffrire. Di fatto, come si diceva, l'attesa genera una sorta di sofferenza nell'animo: per questo motivo si cerca di eliminarla... Invece Dio in tanti modi ci dice: "Impara ad attendere!".

Perché?

L'attesa può alimentare silenziosamente la fede, che "è fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede"; può alimentare la speranza, perché "se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza" (Rm 8,25); può alimentare pure la carità, come ci dice il vangelo di oggi, mostrandoci l'amministratore fidato e prudente come colui che persevera nel dare la razione di cibo a tempo debito ai servi, nonostante il padrone tardi a venire e si cominci a dubitare del suo ritorno. L'attesa è dunque quello spazio prezioso in cui maturano le virtù teologali, quelle virtù che ci dispongono a vivere la nostra relazione con il Dio uno e trino e fondano tutto il nostro agire cristiano. L'attesa è quello spazio in cui il cristiano matura fino alla "misura che conviene alla piena maturità di Cristo" (Ef 4,13).

Ecco perché è beato quel servo che non si scoraggia nell'attesa, non si spazientisce, non si sfiducia, ma crede, spera e ama; quel servo che il padrone al ritorno trova al suo posto, intento a compiere il suo dovere, con la veste stretta ai fianchi e la lampada accesa. A volte la notte dell'attesa si fa davvero lunga e buia... quanto è importante che qualcuno tenga accesa la lampada della fede, della speranza e della carità, comunicando agli altri con la propria vita la sua certezza del ritorno del padrone.

Quel servo sarà servito a tavola, sarà a capo degli averi stessi del padrone... in poche parole diventerà da servo padrone, e solo per aver saputo attendere con fede, speranza e carità, senza adirarsi, senza scoraggiarsi, senza maltrattare gli altri. Tanto grande è la ricompensa dell'attesa, che ci abilita ad essere padroni... Di fatto, ci insegna ad essere prima di tutto padroni del tempo, non più schiavi. Pensiamo ancora una volta al mondo di oggi, alle nostre giornate: quante schiavitù legate al tempo! Imparare la sapienza dell'attesa ce ne libera e ci fa signori del tempo. Nella veglia pasquale acclamiamo Gesù come "Colui a cui appartengono i secoli e il tempo": e a noi con Lui, nel momento in cui facciamo vivere la vita di Gesù dentro di noi e diveniamo capaci di dominare il tempo senza lasciarci dominare da lui.

Alla fin fine, dal momento dell'Ascensione del Signore la storia stessa è proiettata verso il suo ritorno glorioso alla fine dei tempi: imparare ad attendere significa imparare ad essere Chiesa oggi, lo sguardo rivolto verso un'alba di luce in cui non ci sarà più la morte né lutto né lamento né affanno (Ap 21,4), l'alba di una nuova liberazione. Ed essere così a nome dell'umanità intera, per rispondere alla domanda che Pietro rivolge a Gesù: "Questa parabola la dici per noi o per tutti?". A noi, battezzati in Cristo, è affidato il compito di tenere desta l'attesa del suo ritorno, nella speranza, nella fede, nella carità. Noi siamo coloro a cui è stato affidato molto. Forse è bello imparare a vivere il nostro quotidiano consapevoli di questo, nella gratitudine e nella responsabilità!