Cosi' risplenda la vostra luce davanti agli uomini

mons. Vincenzo Paglia

V Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) (6 febbraio 2005)

Gesù dice ai discepoli che sono sale della terra e luce del mondo. Siamo ancora all'inizio della predicazione evangelica, e senza dubbio i discepoli non possono vantare una esemplare condotta da "uomini delle beatitudini". E tuttavia Gesù insiste: "Se il sale perde il sapore, con che cosa lo si potrà rendere salato?". In questo interrogativo è nascosta una domanda di responsabilità. Gesù sembra dire: "Non ho altro che voi per l'annuncio del Vangelo", oppure: "Se il vostro comportamento è insipido e senza gusto, non ho altro rimedio per l'annuncio evangelico". È quel che accade se la lucerna accesa viene posta sotto il secchio (a volte, rovesciato, serviva anche da mensola). Anche in questo caso non c'è rimedio, si resta al buio. Tutto ciò non era vero solo allora, lo è altrettanto oggi. La funzione di essere sale della terra e luce del mondo non deve essere mai disattesa. Ognuno di noi sa bene, di fronte a queste parole, di essere una povera persona. Davvero siamo poca cosa, rispetto al compito che ci viene assegnato e alla beatitudine che abbiamo ascoltato domenica scorsa. Com'è possibile essere sale e luce? Non siamo tutti al di sotto della sufficienza? Ma il Vangelo insiste: "Voi siete il sale della terra". È vero, non lo siamo da noi stessi, ma solo se siamo uniti al vero sale e alla vera luce, Gesù di Nazareth. La luce non viene dalle doti personali. L'apostolo Paolo, scrivendo ai cristiani di Corinto, ricorda di non essersi presentato in mezzo a loro con sublimità di parole: "Io venni in debolezza e con molto timore e trepidazione". Eppure, malgrado la debolezza, il timore e la trepidazione, difende l'onestà del suo ministero: "Ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi, se non Gesù Cristo e questi crocifisso". La debolezza dell'apostolo non oscura la luce dell'annuncio, non diminuisce la forza della predicazione e della testimonianza. Al contrario, ne è un pilastro, e ne dà la ragione: "Perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana ma sulla sapienza di Dio". In queste parole c'è un profondo senso di liberazione. I discepoli di Gesù, a differenza di quel che avviene tra gli uomini, non sono condannati a nascondere davanti a Dio la loro debolezza e la loro miseria. Queste non attentano alla potenza di Dio, non la cancellano, semmai la esaltano, consapevoli che "abbiamo questo tesoro in vasi di creta, perché appaia che questa potenza straordinaria viene da Dio e non da noi" (2 Cor 4, 7). Il primo a non vergognarsi della nostra debolezza è proprio il Signore; la sua luce non è smorzata dalle nostre tenebre. Non c'è alcun disprezzo per l'uomo da parte del Vangelo; non c'è alcuna antipatia da parte del Signore. Paolo aggiunge: "chi si vanta, si vanti nel Signore"; il nostro vanto non è mai in noi stessi. La grazia di Dio rifulge nella nostra debolezza; non ce ne possiamo appropriare, ci supera sempre e non ci abbandona. Aggiunge il Vangelo: "così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, che vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli". È l'invito che il Signore fa a noi perché diventiamo operatori del Vangelo. E il profeta spiega cosa questo significa: "spezza il tuo pane con l'affamato, introduci in casa i senza tetto, vesti chi è nudo senza distogliere gli occhi dalla tua gente". È la carità, la luce del Signore. Essa è diretta soprattutto verso i poveri e i deboli, e nello stesso tempo non dimentica chi ci è vicino. Solo "allora – aggiunge il profeta – la tua luce sorgerà come l'aurora... allora brillerà fra le tenebre la tua luce".