Commento su Amos 8,4-7; Salmo 112; Timoteo 2,1-8; Luca 16,1-13

mons. Vincenzo Paglia

XXV Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) (22 settembre 2013)

Introduzione

Vi è prima una parabola e poi una serie di ammonimenti che commentano un elemento della parabola stessa e cioè l'uso del denaro. La parabola, come è ovvio, non loda il fattore perché è disonesto, ma perché ha la chiarezza e la decisione di imboccare l'unica via di salvezza che gli si prospetta. Si sa che l'arte di cavarsela è molto applicata nelle ambigue imprese di questo mondo. Lo è molto meno nella grande impresa della salvezza eterna. Perciò Gesù ci rimprovera di essere più pronti a salvarci dai mali mondani che dal male eterno, lui che da parte sua ha fatto di tutto perché fossimo salvati, fino a salire in croce per noi. Non ci decidiamo a credere che, se non portiamo il nostro peccato davanti a Dio, siamo perduti. Cominciamo le nostre Messe confessando i peccati che abbiamo commessi, ma usciti di chiesa ricominciamo a parlare di quelli altrui.

Un "test" decisivo dell'autenticità della nostra decisione cristiana è proprio l'uso del denaro.

Non è disonesta la ricchezza in sé, né maledizione la ricchezza esteriore. Ma lo è la ricchezza come idolo, innamoramento e progetto, come deformazione interiore del cuore e della mente, che vogliono a tutti i costi essere produttori di potenza e quindi di potere economico.

Occorre decidersi a scegliere: o mammona o Dio; cioè: o essere il signore per signoreggiare o servire il Signore e godere della sua onnipotenza d'amore.

C'è un solo modo di liberarsi dalla schiavitù della ricchezza: farsi "amici" per mezzo di ciò che si ha, cioè con l'impegno della solidale condivisione.

Omelia

Il Vangelo di questa Domenica ci presenta una parabola per certi versi assai attuale; quella dell'amministratore infedele. Il personaggio centrale è il fattore di un proprietario terriero, figura molto popolare anche nelle nostre campagne, quando vigeva il sistema della mezzadria.

Come le migliori parabole, essa è come un dramma in miniatura, pieno di movimento e di cambiamenti di scena. La prima scena ha per attori l'amministratore e il suo padrone e si conclude con un licenziamento in tronco: "Non puoi più essere amministratore". Il fattore non abbozza neppure un'autodifesa. Ha la coscienza sporca e sa perfettamente che quello di cui il padrone è venuto a conoscenza è vero. La seconda scena è un soliloquio dell'amministratore appena rimasto solo. Egli non si dà per vinto; pensa subito a come rimediare per garantirsi un futuro. La terza scena -l'amministratore e i contadini? rivela la truffa da lui escogitata allo scopo: "Tu quanto devi? Rispose: Cento misure di grano. Gli disse: Prendi la tua ricevuta e scrivi ottanta". Un caso classico di corruzione e di falso in bilancio che fa pensare ad analoghi episodi frequenti nella nostra società, spesso su scala ben più vasta.

La conclusione è sconcertante: "Il padrone lodò quell'amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza". Gesù approva forse e incoraggia la corruzione? Bisogna richiamare alla mente la natura tutta speciale dell'insegnamento in parabole. La parabola non va trasferita in blocco e con tutti i suoi dettagli sul piano dell'insegnamento morale, ma solo per quell'aspetto che il narratore vuole valorizzare. Ed è chiaro qual è l'idea che Gesù ha voluto inculcare con questa parabola. Il padrone loda l'amministratore per la sua accortezza, non per altro. Non si afferma che è tornato indietro nella sua decisione di licenziare quell'uomo. Anzi, visto il suo rigore iniziale e la prontezza con cui ha scoperto la nuova truffa', possiamo immaginare facilmente il seguito, non raccontato, della storia. Dopo aver lodato l'amministratore per la sua astuzia, il padrone deve avergli ingiunto di restituire immediatamente il frutto delle sue transazioni disoneste, o di scontarle col carcere, se non era in grado di saldare il debito. Questo, cioè la scaltrezza, è anche ciò che Gesù loda, fuori parabola. Aggiunge, infatti, quasi a commento delle parole di quel padrone: "I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce".

Quell'uomo, davanti ad una situazione d'emergenza, quando era in gioco tutto il suo avvenire, ha dato prova di due cose: di estrema decisione e di grande scaltrezza. Ha agito prontamente e intelligentemente (anche se non onestamente) per mettersi al sicuro. Questo - viene a dire Gesù ai suoi discepoli- è ciò che dovete fare anche voi, per mettere al sicuro, non l'avvenire terreno che dura qualche anno, ma l'avvenire eterno. "La vita -diceva un filosofo antico - a nessuno è data in possesso, ma a tutti in amministrazione" (Seneca). Siamo tutti degli "amministratori"; dobbiamo perciò fare come l'uomo della parabola. Egli non ha rimandato al domani, non ci ha dormito sopra. È in gioco qualcosa di troppo importante per affidarlo al caso.

Il Vangelo stesso fa diverse applicazioni pratiche di quest'insegnamento di Cristo. Quella su cui si insiste di più riguarda l'uso della ricchezza e del denaro: "Ebbene, io vi dico: Procuratevi amici con la disonesta ricchezza, perché, quand'essa verrà a mancare, vi accolgano nelle dimore eterne". Come dire: fate come quell'amministratore; fatevi amici coloro che un giorno, quando vi troverete nella necessità, possono accogliervi. Questi amici potenti, si sa, sono i poveri, dal momento che Cristo considera dato a lui in persona quello che si dà al povero. I poveri, diceva sant'Agostino, sono, se lo vogliamo, i no! stri corrieri e i nostri facchini: ci permettono di trasferire, fin da ora, i nostri beni nella casa che si sta costruendo per noi nell'aldilà.