Così fu detto agli antichi; ma io vi dico

mons. Vincenzo Paglia

VI Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) (13 febbraio 2011)

Il brano del Vangelo di Matteo, che ci viene annunciato in questa domenica, continua la lettura del sermone della montagna con la sezione che viene chiamata "Discorso delle antitesi", ove si solleva il decisivo problema del rapporto tra Gesù e la legge, tra il Vangelo e le norme etiche. Con una frase che a guisa di ritornello scandisce i versetti 17-37, sembra che Gesù prenda una drastica posizione contro la Legge: "Avete inteso che fu detto... ma io vi dico". In verità subito aggiunge: "Non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento". Ed è proprio il "compimento" della Legge il cuore di questo brano evangelico. Per Gesù, compiere la Legge, vuol dire diventare "perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste" (v. 48). Avendo presente questo esigente obiettivo non fa meraviglia ascoltare l'ammonizione che apre l'odierna pericope: "Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli". È a dire che ad essere buoni alla pari dei farisei vale lo stesso che esserlo per nulla. La giustizia dei farisei viene giudicata da Gesù così poco grande, che nemmeno basta per entrare nella salvezza. È un giudizio durissimo, che non può non stupire se si tiene conto che il fariseismo del tempo agli occhi dei più era cosa assolutamente rispettabile e rispettata.

Eppure la giustizia dei discepoli del Vangelo deve essere superiore, e di molto, a quella dei farisei. Gesù non intende parlare qui di una maggiore quantità di precetti da osservare. In altra parte del Vangelo rimprovera proprio su questo i farisei: "Guai anche a voi, dottori della Legge, che caricate gli uomini di pesi insopportabili" (Lc 11,46). Egli parla di una giustizia diversa. È una giustizia che non va neppure confusa con quella di cui si tratta sul piano legislativo. La giustizia di cui parla Gesù va collegata all'agire di Dio, il quale non si comporta come un freddo calcolatore che bilancia il dare e l'avere, le colpe e i meriti. Dio agisce con un cuore grande e misericordioso. La giustizia di Dio, potremmo dire, è andare oltre ogni limite, anche quello della legge. Il problema non è sul rapporto tra precetto ed osservanza, bensì tra amore e indifferenza, o se si vuole, tra calore e freddezza. Non è in gioco, infatti, la semplice osservanza delle leggi, che è semplicemente una sorta di primo gradino nella scala della convivenza, bensì la vita stessa della comunità.

Il primo tema che Gesù tocca è tratto dal quinto comandamento: "Avete inteso che fu detto agli antichi: Non ucciderai; chi avrà ucciso dovrà essere sottoposto al giudizio. Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello dovrà essere sottoposto al giudizio". Come appare chiaro non si tratta di una nuova casistica (con le altre due scansioni: chi dice "stupido" o "pazzo" al proprio fratello) o di una nuova prassi giuridica, magari più severa della precedente, bensì di un nuovo modo di intendere e di praticare il comando del "non uccidere". Sono in gioco i rapporti tra di noi e il rapporto con Dio. Questi rapporti, vuol dire Gesù, sono a tal punto importanti da decidere del destino definitivo di una persona. È un modo diverso per dire che l'amore, tra noi e con Dio, è il compimento della Legge. In tal senso si tratta di passare, anche verbalmente, da un precetto in negativo all'affermazione del primato dell'amore. Suona perciò molto lontano dal Vangelo quel detto popolare che tante volte sentiamo ripetere: "Non ho fatto male a nessuno; mi sento la coscienza a posto". Non è questione di non fare il male, quanto piuttosto di fare il bene. È l'amore, la giustizia chiesta ai discepoli del Vangelo.

Gesù giunge a dire: "Se dunque tu presenti la tua offerta all'altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all'altare, va' prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono". Non dice "se tu hai qualcosa contro tuo fratello", ma "se lui ha qualcosa contro di te", per indicare che la riconciliazione va fatta anche se la colpa è dell'altro e non nostra. Ebbene, Gesù chiede di interrompere persino l'atto supremo del culto, per ristabilire l'armonia del perdono e dell'amicizia. La "misericordia" vale più del "sacrificio". Il culto, inteso come segno della relazione con Dio, non può prescindere da un rapporto umanamente serio e amichevole tra gli uomini. È in questo contesto che va intesa anche l'affermazione seguente: "Avete inteso che fu detto: non commettere adulterio; chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel proprio cuore".

Viene poi la questione del giuramento: "Avete anche inteso che fu detto agli antichi: Non giurerai il falso... ma io vi dico: non giurate affatto". La proposta evangelica esclude qualsiasi forma di giuramento nella sua duplice valenza, religiosa e sociale. Il giuramento viene visto come un abuso dell'autorità di Dio, chiamato a coprire la deficienza di veracità delle parole e degli impegni umani. Il Signore ha creato l'uomo con la dignità della parola (purtroppo, anche se motivi storici lo hanno sollecitato, la pratica cristiana ha persino istituito canonicamente il giuramento). Gesù dice: "Sia invece il vostro parlare: sì sì, no no; il resto viene dal maligno". Gesù crede davvero alla parola degli uomini. Così si conclude il brano evangelico di questa domenica. Esso ci riporta al principio della parola evangelica, nella sua novità e nella sua forza. Chi ha mai osato pronunciare parole come queste? L'apostolo Paolo afferma che si tratta di una "sapienza che non è di questo mondo" e aggiunge: "Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, Dio le ha preparate per coloro che lo amano. Ma a noi Dio le ha rivelate per mezzo dello Spirito" (1 Cor 2,9). È la consegna ai credenti di una nuova "legge", non fatta di norme o di disposizioni giuridiche, ma di un cuore nuovo, di uno spirito nuovo.