Paolo Curtaz

Giovedì della V settimana di Quaresima (13 marzo 2008)

La tensione è crescente intorno a Gesù, il discorso del pane di vita sta volgendo al tragico, la durezza degli uditori ha reso il colloquio un rabbioso monologo di accuse pretestuose e sconcertanti. Facciamo fatica anche solo ad immaginare quanta ostilità Gesù abbia dovuto affrontare, quanta tensione, quanta durezza. E, alla fine, la parola definitiva e sconcertante di Gesù: "Chi pretendi di essere?" Già: chi pretendi di essere Nazareno? Cosa vuoi da noi? Cosa c'entri? E la risposta di Gesù è una staffilata, una bestemmia: "Prima che Abramo fosse Io sono". No, amici, non è una sgrammaticatura ma l'affermazione del mistero più inaudito: Gesù è "Io sono", Yawhé, il nome stesso di Dio. Gesù si attribuisce il nome stesso di Dio, l'impronunciabile, il nome che, se scritto, non poteva essere cancellato, né distrutta la pergamena, il nome che, se letto in pubblico, era sostituito con la parola Adonai, Signore o il battagliero ‘eloim. Quel nome, che nessuno osava pronunciare, Gesù se lo attribuisce, egli pretende di essere il vero volto di Dio, l'infinito divenuto sorriso, il totalmente altro diventato accessibile. Questa è la ragione della condanna a morte di Gesù: la sua pretesa di essere la rivelazione di Dio, la sua supponenza, la sua sfrontatezza. E noi, di fronte a quest'inaudita scoperta, come reagiremo?