Un amore che ci guarisce da ogni male

mons. Antonio Riboldi

XXVIII Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) (14 ottobre 2001)

E' sconcertante quanto racconta il Vangelo di oggi: sembrerebbe non vero, ma è confermato dall'attualità di cui tutti siamo protagonisti e testimoni.

Al tempo di Gesù quanti erano di pericolo alla salute pubblica venivano messi fuori le mura della città dall'autorità che allora erano i sacerdoti del Tempio. Anche perché allora i mali, e tra questi la lebbra, venivano considerati un segno del castigo di Dio. I lebbrosi così subivano due gravi umiliazioni. La prima era nel male che abbruttiva l'aspetto al punto da non essere presentabile agli occhi degli altri. E tutti sappiamo come noi uomini teniamo ad essere accolti dall'apprezzamento di chi ci vede: una bella presenza è come un biglietto di invito ad essere presente ovunque suscitando in tutti stupore. E quanto si spende in ogni età per avere questo «lasciapassare» della bellezza fisica! Indifferenti magari se «dentro» il nostro cuore, la nostra anima è così «lebbrosa» da fare ribrezzo alla vista dei buoni.

La seconda era la completa emarginazione dalla società. Condannati così ad una solitudine che poteva generare solo disperazione: perché l'uomo ha sete dell'altro, o meglio dell'amore dell'altro, soprattutto quando sa di essere «lebbroso» nel cuore e nella pelle.

Basta pensare ai malati di AIDS che vengono rifiutati, visti come un pericolo da isolare più che come fratelli da amare. Basta pensare ai tossicodipendenti guardati come «criminali», più che come amici cui questa nostra società egoista e priva molte volte di valori, ha comunicato la lebbra del disamore alla vita e verso i quali invece dovrebbe sentire il dovere di una riparazione con una accoglienza piena di infinito amore.

E potremmo recitare un lungo rosario di «lebbrosi» cacciati fuori dalla nostra città. Gesù, al contrario della mentalità corrente di allora e di oggi, non solo non conosce assurde ed ingiuste emarginazioni, ma si fa incontro ai «lebbrosi» di ogni genere con amore preferenziale.

Dirà un giorno: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. E io non voglio la morte del peccatore, ma che si converta e viva». Così sulla sua strada si affollano ciechi, storpi, rifiutati, peccatori, lebbrosi: tutti quelli che il mondo caccia fuori le mura della sua città e quindi del suo cuore: e per tutti ha tenerezza e amore. Come il buon Samaritano della parabola.

Così un giorno sulla via verso Gerusalemme «entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, i quali fermatisi a distanza, alzarono la voce, dicendo: "Gesù, Maestro, abbi pietà di noi". Appena li vide, Gesù disse: "Andate e presentatevi ai sacerdoti". E mentre essi andavano, furono sanati» (Lc 17, 11-19).

L'amore che Gesù ha per gli uomini non si ferma alla guarigione dalla lebbra della pelle. Se così fosse stato, sarebbe stato un eccezionale medico del corpo. Ben poca cosa per un Dio che ama tutto l'uomo: e dell'uomo gli sta a cuore la felicità che è dentro la nostra anima.

Mia mamma soleva dire a noi figli: «Non ha importanza che siate belli o intelligenti: e importante che siate buoni e belli nel cuore, là dove Dio splende e c'è la vera salvezza e bellezza dell'uomo. Il corpo oggi è bello e domani invecchia: la salute oggi c'è e domani no. Ma la salute dell'anima, la santità del cuore, dono di Dio, rimane sempre ed è "il bello" di ogni uomo». Per lei era faticoso farci fisicamente grandi: ma era ancora più impegnativo farci crescere buoni.

Così come per Gesù era facile guarire la lebbra dei dieci. Ma capirono i dieci, e con loro tutti i lebbrosi del suo e nostro tempo, che dietro un gesto di solidarietà, di amore sconfinato che prendeva a cuore anche le necessità di questo tempo, c'era un amore che andava molto più in là? Un amore che voleva un'altra guarigione interiore; una guarigione per ottenere la quale Gesù pagherà il più duro prezzo che si possa chiedere a chi ama, ossia la passione e morte?

«Uno di loro, racconta il Vangelo, vedendosi guarito, tornò indietro, lodando Dio a gran voce: e si gettò ai piedi di Gesù per ringraziarLo. Era un Samaritano. Gesù osservò: "Non sono stati guariti tutti e dieci? Dove sono gli altri nove? Non si è trovato chi tornasse a rendere gloria a Dio, all'infuori di questo straniero?". E gli disse: "Alzati e va: la tua fede ti ha salvato". Veramente quel Samaritano aveva capito il grande dono dell'amore di Gesù, fino in fondo, e Gesù lo aveva guarito «tutto», sanando tutto.

Meditando questa pagina di Vangelo mi viene spontaneo pensare alla fatica di tanti che oggi nella Chiesa e nel mondo accolgono le sofferenze «rifiutate» della società: i malati di AIDS, i tossicodipendenti, gli handicappati, i terzomondiali. Da una parte sperimentano la bellezza di farsi ultimi con gli ultimi, comunicando la medicina che salva, l'amore intero che ha il cuore di Cristo, pieno di Spirito Santo. Tutto questo solo per amore. Dall'altra penso alla diffidenza di cui sono circondati, fino alla emarginazione. E' un prezzo da pagare, che da solo dice la gratuità dell'amore.

Intervenendo non tanto tempo fa a favore dei terzomondiali che sono tra di noi, suscitai un vespaio di commenti. Così un tale mi disse: «Sporco Vescovo comunista perché non te ne vai tra i tuoi amici africani?... Ricordati che la pazienza degli onesti ha un limite!». La pazienza di Dio no.