Righe scritte da Dio

mons. Antonio Riboldi

IV Domenica di Quaresima - Laetare (Anno C) (25 marzo 2001)

Ci fu un tempo in cui amavo accompagnare i parenti di terroristi nelle loro visite ai figli o figlie nelle carceri. Era sempre per me una lezione di Vangelo, trapiantato nel cuore degli uomini. Ben lontano da quell'aria mefitica che respiriamo dove la parola "perdono" sembra quasi una debolezza da deporre, che non fa onore all'uomo! Tanto è vero che in molti la vendetta al male ricevuto la chiamano 'onore'. Il nostro andare nelle carceri incontro a chi, Dio solo sa e può giudicare, aveva sbagliato, mi ha dato modo di conoscere fino in fondo cosa significhi pietà, compassione, dolore.

Ho tantissimi ricordi che conservo con gelosia nel mio cuore perché sono come le stelle che ornano il firmamento: senza di loro il firmamento sarebbe un buio da far paura. Il più delle volte erano mamme o spose, che compivano questo gesto di pietà: visitare i propri cari. Durante il cammino verso le carceri, mi raccontavano la vita dei loro cari, senza giudicare, senza condannare, chiedendosi solo il perché si "erano allontanati o allontanate da casa". Per tutte era un mistero inspiegabile la scelta del delitto. Addebitavano tutto a qualche 'compagnia cattiva', che aveva scippato la loro fiducia e quindi allontanati i loro figli o le loro figlie. I loro passi erano passi di ricerca di chi era perduto: proprio come racconta Gesù nella parabola della pecorella smarrita. Sapevano che visitare non significava liberare: ma era comunicare che l'amore non era diminuito o cessato, ma si era fatto più grande, perché sapevano molto bene che chi si trova in difficoltà non ha bisogno di giudizi di condanna o di "imputati alla sbarra" magari con processi in diretta, come è accaduto, ma di amore, tanto amore che aiuti a tornare a vivere.

Durante il cammino raccontavano la bellezza della vita in famiglia. Poi il baratro dell'errore. Sembrava di leggere la parabola del figlio prodigo. Un figlio che stava tanto bene nella casa del Padre. Non gli mancava proprio nulla. Poi la decisione di 'provare' l'ebbrezza di una malintesa libertà dall'amore, per gustare quello che amore non è. La parabola del figlio prodigo che oggi ci presenta il Vangelo così descrive la storia di questa ebbrezza di malintesa libertà, che tante volte si sceglie da troppi. "Dopo non molti giorni, il figlio più giovane, raccolte le sue cose partì per un paese lontano, e là sperperò le sue sostanze vivendo da dissoluto". E' molto forte questa espressione 'vivere da dissoluto sperperando tutte le sue sostanze' perché descrive bene ciò che sperimenta chi si perde. "Quando ebbe speso tutto in quel paese venne la carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò e si mise a servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube che mangiavano i porci: ma nessuno gliene dava". Non si perde in parole inutili Gesù nel descrivere ciò che si è quando si è fuori dallo sguardo dell'amore. Lo fa quasi facendo appena sfiorare il foglio dalla penna che scrive, come a voler aprire spiragli di speranza. Non è il tuono lugubre della condanna che stritola ogni speranza di resurrezione. E' il 'dito dolce che invita al bisogno di perdono e di carezza. E questo richiamo alla dolcezza della carezza lo avverte il figlio che "rientrò in se stesso e disse: "Tornerò da mio padre gli dirò: Padre, ho peccato contro il cielo e contro di te, non sono più degno di essere chiamato tuo figlio". E si indirizzò verso casa. Non sapeva che il Padre non si era mai rassegnato alla partenza del figlio. Il figlio è sempre figlio, anche quando sbaglia e l'amore vero lo si misura nel perdono. Non sapeva il figlio che il padre non si era mai allontanato dalla porta di casa. Era sempre rimasto lì in attesa di un ritorno che era certo sarebbe avvenuto. E difatti: "Quando era ancora lontano, il padre lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò". Non diede neppure il tempo al figlio di esprimere il suo dolore. Gli bastava che lui ora fosse lì tra le sue braccia.

"Portate qui il vestito più bello e rivestitelo, mettetegli l'anello al dito e i calzari ai piedi facciamo festa perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato".

Veramente è un racconto della misericordia del Padre che nessun uomo sarebbe mai stato capace di scrivere, ma è opera delle dita di Dio, scritto con l'inchiostro della dolcezza, che chiude le porte dell'inferno per aprire quelle del Paradiso. Una parabola scritta per noi uomini peccatori che, troppe volte, non riusciamo a coglierne tutta la bellezza. Ed è un vero peccato che continuiamo a vivere 'rubando ghiande ai porci' quando potremmo partecipare alla festa del Cielo. Noi uomini che ci facciamo soffocare dalle braccia di falsi amici, che avvelenano la vita, ed abbiamo paura di abbandonarci alle braccia del Padre nella riconciliazione. E' la inconfessata durezza della nostra superbia, che stoltamente rifiuta di "rientrare in se stessi e dirsi: tornerò da mio Padre e gli dirò Padre ho peccato". E' davvero incomprensibile questo atteggiamento di rifiuto dell'amore, che costa la pena di sentirsi condannati al fango, che soffoca.

Quante volte, tornando al pellegrinaggio nelle carceri, ho potuto vedere in faccia quasi la stessa scena nel cuore e sul volto delle mamme che andavano a visitare i figli o le figlie.

Non si dicevano tante cose. Si parlavano con gli occhi e più ancora con il cuore. E questi incontri contenevano la bellezza del più grande dono che Dio ha fatto a noi: ossia la riconciliazione e la possibilità di tornare a vivere nella sola casa che può ospitare la gioia dell'uomo, di ogni uomo, la casa del cuore di Dio e degli uomini.

"Grazie", disse un giorno un giovane che aveva conosciuto veramente le vie infernali del crimine, "non mi importa ora pagare il mio debito. Ho ritrovato il tuo amore e questo mi basta."

Così sia per noi in questa Quaresima.