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TESTO ...e in conclusione che cosa conta?

don Angelo Casati  

Domenica di Cristo Re (Anno C) (10/11/2019)

Vangelo: Mt 25,31-46 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Mt 25,31-46

31Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. 32Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, 33e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra. 34Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, 35perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, 36nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi”. 37Allora i giusti gli risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? 38Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? 39Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?”. 40E il re risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”. 41Poi dirà anche a quelli che saranno alla sinistra: “Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, 42perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, 43ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato”. 44Anch’essi allora risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato o straniero o nudo o malato o in carcere, e non ti abbiamo servito?”. 45Allora egli risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me”. 46E se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna».

Ultima domenica dell'anno liturgico. Poi sarà Avvento.

Solennità di Gesù Cristo, re dell'universo. Questo vangelo che - lascatemi dire - dopo le immagini solenni del profeta Daniele, libera da ogni vaghezza il regno di Dio cui Gesù ha dato inizio sulla terra. E avrà un giorno il suo compimento quando, come dice la prima lettera ai Corinti, sarà messa a tacere - oggi urlano - ogni forma di domino, di strapotere, di arroganza. Messo a tacere ed eliminato per sempre - che respiro! - tutto ciò che soffoca e va disgregando l'umanità e la terra. Che respiro!

Da un lato la festa ci fa contemplare questo traguardo, questo esito finale, questa terra di limpidezze. Contemplarla, anche se fosse un giorno di brutture, per accendere negli occhi speranze, coraggio nonostante tutto, animo di resistenti.

Dall'altro la festa con questo vangelo ci riconduce con una concretezza solare a una visione oserei dire disarmante - tanto è essenziale - di ciò che conta nel regno di Dio.

Ed è bene - mi dico - che ciò avvenga oggi, oggi che è l'ultima domenica. E, proprio perché è l'ultima, è come se ti si affacciasse dentro una domanda e la domanda fosse: “Ma in conclusione, dove ci ha portato il cammino? A scoprire che cosa? Alla fine che cosa resta? Alla fin fine che cosa conta? Ebbene con la sua parabola Gesù ci dice, senza possibilità di fraintendimenti, che cosa conta.

Ogni volta che la leggo la parabola, mi sorprende. Mi sorprende che alla fine Gesù come tessera di riconoscimento di appartenenza al regno di Dio, non chieda qualcosa per sé - “Fa' qualcosa per Dio” - ma qualcosa per gli umani, per donne e uomini di oggi. Come se in qualche modo - perdonate il verbo - Dio si nascondesse. Nella parabola, la domanda - sia quella di un gruppo, sia quella dell'altro - è la stessa: “Signore, quando mai ti abbiamo visto?”. Ed è la nostra domanda: “Quando mai e dove mai ti vediamo, Signore?”. E Gesù risponde: “Quando vedete un affamato, un assetato, uno straniero, un denudato, un malato, un carcerato. E' allora che tu vedi me. Ti sei preso cura? O no? Ti sei preso cura di me?”.

Vedete, io sono stato educato da bambino, con domande e risposte del catechismo. E ora, andato avanti, forse troppo, negli anni, ho come la sensazione che in alcune risposte mancasse qualcosa. Forse sempre nelle nostre risposte manca qualcosa. Una domanda allora chiedeva: “Per quale fine Dio ci ha creati?”. Risposta, da mandare a memoria: ”Per conoscere, amare e servire Dio in questa vita e goderlo per tutta l'Eternità". C'era un vuoto - e voi lo avete certamente avvistato, riandando alla parabola di oggi - un grande vuoto; Gesù infatti, ritraduce ”servire Dio” con “servire l'umanità”, soprattutto l'umanità dolente. Come se mettesse il divino nell'umano.

Quando indugio su questi pensieri, spesso alla mente mi ritorna un brano di una lettera di Don Lorenzo Milani. Una lettera a Nadia Neri, una ragazza, che si torturava su Dio o non Dio. E Don Lorenzo la invita a finire di bucarsi la testa con il problema dell'esistenza o no di Dio. Le scrive: "Quando avrai perso la testa, come l'ho persa io per poche decine di creature, troverai Dio come un premio... E' una promessa contenuta nella parabola delle pecorelle, nella meraviglia di coloro che scoprono se stessi amici e benefattori del Signore senza averlo nemmeno conosciuto. "Quello che avete fatto a questi piccoli ecc.".

Fedele a questo insegnamento - “onora il volto di Dio nel volto dell'altro” - don Lorenzo nel suo testamento scriverà ai suoi ragazzi: ”Caro Michele, caro Francesco, cari ragazzi, non è vero che non ho debiti verso di voi. L'ho scritto per dar forza al discorso! Ho voluto più bene a voi che a Dio, ma ho speranza che lui non sia attento a queste sottigliezze e abbia scritto tutto sul suo conto. Un altro abbraccio, vostro Lorenzo”.

Una cosa vorrei aggiungere: che questa del “prendersi cura” è la via universale che porta a Dio, porta a salvezza. Prendersi cura di un affamato, di un assetato, di uno straniero, di un denudato, di un malato, di un carcerato ha, come esito, sentirsi dire: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il Regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo”. Non importa a quale fede o non fede tu appartenga, Questa strada porta a Dio, porta alla salvezza.

Questa parabola - ve lo devo confessare - con gli anni mi ha cambiato il modo di guardare il mondo. Mi ha acceso speranza negli occhi. Perché? Perché, se a salvarsi fossero solo quelli che appartengono alla chiesa, mi verrebbe una tristezza infinita. A tutti noi verrebbe, se vogliamo bene alle donne e agli uomini che oggi abitano con noi la terra e non metteranno mai piede, o saltuariamente, nelle nostre chiese. Ma se il criterio è il prendersi cura, mi si allarga la visione. Cammino per le strade - direte che sono un po' strano - guardo donne, guardo uomini, e mi dico: “Chissà che non siano tra quelli che si prendono cura, tra quelli che si lasciano condurre nel loro cuore dalla passione per la giustizia, per la solidarietà, per la dignità di ogni donna e di ogni uomo, per la salvaguardia del creato!. E mi sembra allora di udire su di loro una voce, quella di Gesù, la sento nell'aria: “Venite benedetti”.

Non so se lo abbiate pensato - molti di voi penso sì - che è una benedizione per noi questo vescovo di Roma, papa Francesco che insiste a ricordarci, contro ogni sintomo di indifferenza, il prenderci cura dei dolenti. Ce lo ricorda senza mai stancarsi, ci ricorda la via universale, perché vie, pur importanti come la catechesi o la liturgia, senza la terza via, quella del prendersi cura dell'altro, non bastano per sentirci dire: “Venite, benedetti”.

E questo dovremmo, come chiesa, ripetere da ogni fessura: che la cosa bella della vita, la cosa più importante, quella che ci sta più a cuore, quella del Regno, è il prenderci cura.

 

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