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don Alberto Brignoli  

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XXXII Domenica del Tempo Ordinario (Anno B) (11/11/2018)

Vangelo: Mc 12,38-44 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Mc 12,38-44

38Diceva loro nel suo insegnamento: «Guardatevi dagli scribi, che amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze, 39avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti. 40Divorano le case delle vedove e pregano a lungo per farsi vedere. Essi riceveranno una condanna più severa».

41Seduto di fronte al tesoro, osservava come la folla vi gettava monete. Tanti ricchi ne gettavano molte. 42Ma, venuta una vedova povera, vi gettò due monetine, che fanno un soldo. 43Allora, chiamati a sé i suoi discepoli, disse loro: «In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. 44Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere».

È passata solamente una settimana, e a quanto pare quegli scribi che - grazie a un loro saggio rappresentante - erano stati proclamati da Gesù “non lontani dal Regno di Dio”, se ne sono allontanati in fretta! Al punto che Gesù non esita a trattarli e a considerarli come sempre aveva fatto, se non peggio: dice alla gente di guardarsene (come si dice per ladri e assassini), biasima la loro vanità e la loro ingordigia, getta dubbi sulla buona fede delle loro preghiere, e - cosa che Gesù non aveva mai fatto neppure con pubblicani e prostitute, considerati le peggiori categorie di peccatori - augura loro la più severa delle condanne. Dice di loro pure una cosa che può fare davvero molto male alla loro reputazione: “Divorano le case delle vedove”. Gli scribi, lo sappiamo, erano i garanti della Legge di Mosè, che conoscevano alla perfezione anche perché chiamati a insegnarla agli altri. Ebbene, uno dei capisaldi della Legge di Mosè, che è resistito a tutte le riedizioni e rielaborazioni della Legge stessa (come per ogni Legge, col passare degli anni alcune cose si abrogano o si modificano), è proprio quello della difesa a oltranza di tre categorie di persone: l'orfano, lo straniero e la vedova. Il libro del Deuteronomio, al capitolo 24, lo ripete più volte: “Non calpesterai il diritto dello straniero o dell'orfano e non prenderai in pegno la veste della vedova; quando mieterai, quando scuoterai i rami degli ulivi, quando vendemmierai, non tornare a raccogliere ciò che avanza, perché è riservato allo straniero, all'orfano e alla vedova”. E come se non bastasse (e pure questo gli scribi, grandi conoscitori delle Scritture, lo sapevano bene, anche se non è che fossero mai stati più di tanto “amanti” dei profeti), il libro dei Re, nella saga di Elia, ci narra l'episodio che abbiamo ascoltato nella prima lettura, dove in un colpo solo Dio, attraverso il suo profeta, si fa prossimo delle necessità di una vedova e del suo unico figlio ovviamente orfano, abitanti a Zarepta di Sidone, in territorio fenicio, quindi stranieri: farà in modo che - in un periodo di forte carestia - a loro non manchi mai la farina e l'olio per prepararsi il pane quotidiano.

Resta da capire come mai quegli scribi così capaci di essere vicini al Regno di Dio, ora sono considerati peggio della peggior categoria di peccatori: tutto nell'arco di una settimana, e per di più sullo stesso tema, l'amore a Dio e al prossimo. Ricordiamo bene, infatti, come la lode di Gesù per lo scriba saggio era scaturita dalla sua affermazione per la quale “amare Dio con tutto il cuore, con tutta l'intelligenza e con tutta la forza, e amare il prossimo come se stesso vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici”. Mentre oggi, Gesù di loro dice che mancano di rispetto alle vedove, anzi, invece di aiutarle ne dilapidano le poche cose che hanno; dice pure che si vestono elegantemente per mostrare la loro superiorità rispetto al popolino; che pretendono di essere onorati con saluti del tipo “Buongiorno reverendo”; che vanno ai banchetti sedendosi nei primi posti, vicino al padrone di casa, dove vengono serviti per primi e meglio degli altri. E non si salva nemmeno la loro preghiera, che durava ore (si vede che non avevano molto da fare, evidentemente), possibilmente in piazza, dove tutti avrebbero potuto vederli e dire di loro: “Che sante persone!”. Come mai questo cambio di prospettiva, questo sguardo diverso da parte di Gesù su un gruppo di persone che settimana scorsa aveva fatto un bel discorso sull'amore al prossimo?

Ecco, il punto sta proprio qui: nel discorso. Gli scribi (ma nel pensiero di Gesù possiamo metterci dentro tutte le autorità religiose del suo tempo) erano dei grandi teorici della Legge, ma all'atto pratico, ovvero della sua applicazione, risultavano inconsistenti: applicavano della Legge solo ciò che tornava a loro vantaggio. E sul tema dell'amore a Dio e ai fratelli, questa cosa diviene ancor più stridente, perché tocca uno dei fondamenti della dottrina di Gesù, ma potremmo dire di ogni forma di religione che mette al centro la persona umana. È inutile dire di essere uomini e donne di Dio, se poi non siamo capaci di amare i nostri fratelli. È inutile fare grandi discorsi sulla carità, costruire grandi teorie, discutere grandi programmi, creare grandi infrastrutture, se poi nel piccolo e nel concreto non si è capaci del minimo gesto di generosità nei confronti degli altri. E qualcuno che ci insegni cosa voglia dire essere generosi e amare il prossimo, specialmente i più poveri, ce l'abbiamo. Sapete chi? Non certo i teologi o i teorici della carità, bensì - guarda caso - proprio i poveri. Che oggi assumono le sembianze di una vedova. Anzi, di due vedove. Due epoche diverse, due situazioni diverse, ma un unico elemento comune.

La vedova visitata da Elia, ormai già preparata a incamminarsi, con il suo unico figlio, verso la conclusione amara della propria esistenza, accetta il rischio di fidarsi, sulla parola del profeta, della provvidenza di Dio: e la sua condivisione del poco che le resta con chi, come lei, è nell'indigenza, diviene motivo di salvezza, per sé e per gli altri.

La vedova presa da Gesù come esempio di una generosità superiore a quella di tutti i ricchi che buttavano nel tesoro del tempio quantità enormi di denaro a loro superfluo, crede ancora nel tempio, e nelle autorità che ne gestiscono il tesoro, come l'istituzione che - proprio attraverso quelle offerte - avrebbe dovuto aiutare i poveri, tra cui certamente rientrava pure lei: e invece di credere in se stessa e nelle sue scarse capacità di sussistenza (che avrebbe ragionevolmente fatto meglio a tenere per sé), crede ancora in una condivisione che, a partire dal poco di molti, può dare molto a chi ha poco.

Esiste - dicevo - tra le due vedove un elemento comune: e si chiama condivisione, che altro non è se non la chiave di volta della carità, ciò su cui la carità si poggia. Se nel mondo tutti - dal politico più influente all'ultimo dei cittadini del più povero degli stati - imparassimo a condividere ciò che abbiamo, poco o tanto che sia, avremmo già da tempo risolto il problema della fame nel mondo e della miseria. E non raccontiamo storie, quando diciamo che “non ne abbiamo nemmeno per noi”: anzitutto, perché è una frottola, visto ciò che quotidianamente sprechiamo, sulle nostre tavole e in tutte le cose inutili e futili.

E poi perché abbiamo degli esempi edificanti: è sufficiente che quelli delle generazioni sprecone e spendaccione come la mia, chiedano ai loro “vecchi” cosa facevano, nei paesi e nelle cascine dove abitavano famiglie ben più numerose delle nostre e ben più povere delle attuali, quando qualcuno era nel bisogno. La cosa più semplice del mondo: ci si aiutava a vicenda, si divideva insieme quello che si aveva, ovvero si faceva “condivisione”.

Proprio quello che il Vangelo di oggi ci vuole insegnare.

 

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