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TESTO Tu in me, io in te

don Giacomo Falco Brini  

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V Domenica di Pasqua (Anno B) (29/04/2018)

Vangelo: Gv 15,1-8 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Gv 15,1-8

1«Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. 2Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. 3Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato. 4Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. 5Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. 6Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano. 7Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. 8In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli.

Nella similitudine del buon pastore con le proprie pecore, il Signore Gesù ci ha consegnato una immagine molto suggestiva della relazione di conoscenza intima che si stabilisce con coloro che gli credono. In quella di oggi, quinta domenica di Pasqua, nel presentare se stesso come la vite e noi suoi tralci, ci consegna, per così dire, una immagine “anatomica” di questa stessa relazione: siamo carne della sua carne e sangue del suo sangue, come i tralci che sono nella vite sono una sola unica pianta e vivono dell'unica linfa' che scorre in essa. Dunque Cristo e la sua Chiesa non si possono separare. Basterebbe anche solo credere a questa allegoria per convincersi di ciò che è più importante per custodire e far crescere la nostra fede.

L'invito del Signore davanti a questa realtà è categorico: rimanete in me e io in voi (Gv 15,4a). Il verbo rimanere ricorre per ben 7 volte in 4 versetti. Dunque si tratta di un invito a un modo di vivere molto importante. Egli stesso si incarica di spiegarcelo. Se infatti un tralcio non rimanesse nella vite, non potrebbe assolvere al compito per cui esiste: portare/produrre frutto. Da se stesso il tralcio non può produrre niente (Gv 15,4b). Ma è possibile che un tralcio cerchi di staccarsi autonomamente dalla vite? Esiste in natura una possibilità nella quale il tralcio si stacchi dalla vite nel tentativo di far frutto da solo? In questa incongruenza è evidente il limite che ogni immagine metaforica ha nel cercare di spiegare una realtà spirituale, ma qui a Gesù preme sottolineare perché, nel versetto antecedente il vangelo di domenica scorsa, si legge che Lui è venuto perché le sue pecore abbiano la vita, e l'abbiano in abbondanza (Gv 10,10). Infatti, come i tralci di una vite portano frutto a suo tempo e non solo per una volta, così anche noi. La nostra esistenza è fatta per dare vita agli altri e a noi stessi: Dio ci dona la sua stessa fecondità.

Ma come si fa a rimanere uniti a Gesù? Cosa ci unisce maggiormente e cosa invece ci può portare a staccarci a Lui? Se rileggiamo con semplicità e cuore aperto il vangelo, non si fa fatica a comprendere cosa il Signore ci dice. Non è la stessa cosa vivere deliberatamente con e in Lui, e vivere deliberatamente come se Lui non ci fosse o, peggio ancora, con una modalità diversa da quella che ci ha mostrato con la sua vita, ovverossia contro di Lui: chi non è con me, è contro di me (cfr. Lc 11,23). Il rischio di staccarsi dalla sorgente della vita è grande (Gv 15,6), ma la pazienza e la misericordia di Dio, per nostra fortuna, è ancora più grande (cfr. Lc 13,6-9). Dunque Gesù ci ricorda che siamo già innestati con il nostro battesimo in Lui, ma questa vita nuova deve continuamente sbocciare, fiorire e dar frutto. Le sofferte prove della vita sono le potature necessarie perché tutto ciò avvenga (Gv 15,2). Rimanere in Lui è compiere il suo comandamento, che mediteremo meglio domenica prossima. Per compiere il suo comandamento è necessario che le parole di Gesù rimangano in noi (Gv 15,7). E affinché rimangano in noi, è necessario ascoltarle e meditarle più volte. Nel costante ricordo della Parola infatti, avviene il suo “imprinting”: essa ci modifica nel profondo assimilandoci a sé, poiché uno diventa ciò che ricorda e porta sempre nel cuore.

Quando ero piccolo e mi trovavo con mia madre nelle celebrazioni delle messe, ricordo che durante la comunione eucaristica si cantava sempre un canto: “resta con noi Signore la sera, resta con noi e avremo la pace, resta con noi, resta con noi, la notte mai più scenderà”. Sicuramente tutti lo ricorderete. Non ci capivo un granché, ma mi colpiva il fatto che vedevo l'assemblea cantare facendo questa richiesta, mentre io non vedevo nessuno che restava con loro e con mia mamma. Mi dicevo: “come resta Gesù con tutti se dopo la messa ce ne andiamo a casa?” Poi venne il momento della 1a comunione, e allora qualcosina mi venne spiegato. Quando però dopo tanti anni lessi questo vangelo, mi sembrò che questo canto che ascoltavo da piccolo fosse al contrario. Cioè, era Gesù che mi diceva: “resta con me Giacomo e avrai la pace, resta con me...” La vita del credente mi sembra oggi più o meno questa: quella di un essere umano che chiede continuamente a Dio di restare con Lui, perché Lui stesso ci chiede continuamente di rimanere con sé. E questo avviene in ogni istante, quando due persone si amano: non possono fare a meno l'una dell'altra. Lo vedremo meglio domenica prossima nella seconda parte di questo vangelo.

 

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