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TESTO Nel nome del povero. Cioè, di Dio.

don Alberto Brignoli  

XXVI Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) (25/09/2016)

Vangelo: Lc 16,19-31 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Lc 16,19-31

In quel tempo, Gesù disse ai farisei: 19C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. 20Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, 21bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe. 22Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. 23Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui. 24Allora gridando disse: “Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma”. 25Ma Abramo rispose: “Figlio, ricòrdati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti. 26Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi”. 27E quello replicò: “Allora, padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, 28perché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento”. 29Ma Abramo rispose: “Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro”. 30E lui replicò: “No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno”. 31Abramo rispose: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti”».

Se sapessimo chiamare le cose e soprattutto le persone con il loro nome, ci accorgeremmo che le situazioni che incontriamo nella nostra vita di ogni giorno non sono tutte uguali e non sono affatto impersonali, ma hanno una loro ben precisa identità. Perché quando cose o persone diventano un insieme generico, senza volto e senza nome, perdono identità e di conseguenza dignità. Impareremmo, ad esempio, che il povero che suona al campanello di casa nostra, o che ci chiede l'elemosina seduto sul marciapiede o camminando nel parcheggio di un supermercato o di un ospedale, o che cerca con insistenza di lavarci il cristallo dell'auto mentre attendiamo che il verde del semaforo scatti il prima possibile, ebbene, questo povero non è "il solito nero", "il solito extracomunitario", "il solito barbone che sta lì da anni", "il solito ubriacone che non fa altro che bere tutto il giorno": ha una storia, un'identità. Soprattutto, ha un nome. E agli occhi di Dio, il suo nome è prezioso: più prezioso di tutte le ricchezze, gli abiti lussuosi, i conti bancari "a sei zeri", "i letti d'avorio", "le larghe coppe", "gli unguenti più raffinati", "gli agnelli del gregge e i vitelli cresciuti nelle loro stalle" con cui "i ricchi spensierati di Sion" preparano "ogni giorno lauti banchetti".

Il povero, pure lui, è avido, possiede vestiti e si unge di unguenti: è "avido" e "bramoso" di "sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco", è vestito di "preziosissime" piaghe, si "unge" della raffinata saliva dei "cani che vengono a leccare le sue piaghe". Due persone molto vicine tra loro, in questa terrificante pagina di Vangelo di Luca: ed entrambi possessori, proprietari di qualcosa. Di ricchezze l'uno, di miserie l'altro. Ma uno dei due, il povero, ha qualcosa che il ricco non ha: ha un nome, si chiama Lazzaro, e nel cuore di Dio non poteva che chiamarsi così, "colui che è aiutato da Dio". Il ricco non ha un nome, cioè non ha un'identità, sarà pure uomo d'onore, rispettato e invidiato da tutti, ma non è nessuno, ancor meno agli occhi di Dio. Del resto, a lui che importa "essere"? Per lui conta solo "avere". Ma non ha un nome, non è identificato con nulla, non ha un'essenza dentro, a lui importa solo ciò che ha, e questa cosa la pagherà cara, alla fine.

Già, la fine: eh, sì, perché la fine arriva pure per lui. Poveri o ricchi, gaudenti o sofferenti, sani o malati, su questa terra siamo tutti pellegrini e viaggiatori: viaggiamo l'uno accanto all'altro, paralleli e talmente vicini da darci quasi fastidio, eppure rischiamo di non conoscerci, di ignorarci, di non vederci nemmeno. Chiudiamo gli occhi sugli altri: e più siamo pieni di noi stessi, meno vediamo gli altri; e più guardiamo a ciò che abbiamo, meno pensiamo a chi abbiamo al nostro fianco; e più siamo presi dalla ricchezza, meno siamo attenti alla povertà. Alla fine, però, il destino del ricco e del povero è lo stesso: la morte. Con una differenza: il povero non aveva nulla, quindi non avrà neppure una tomba, ed è meglio così, perché Sorella Morte lo porta "lassù", con gli angeli accanto ad Abramo, in quel "lassù" che nessuno di noi conosce ma dal quale tutti siamo affascinati. Il ricco, invece, viene sepolto: lui ha tutto, avrà sicuramente anche una tomba, pronta da tempo per sé e per i suoi familiari, e chissà che mausoleo! Tutti i mausolei che vuole, ma ciò che conta non è quello che tutti vedranno all'esterno, passando per la sua tomba: lui è laggiù, negli inferi fra i tormenti. Anche quel laggiù è un luogo che nessuno di noi conosce, e di certo non ci affascina come il "lassù": di certo, c'è pure che laggiù la morte non si chiama Sorella, si chiama Signora, domina, comanda, opprime, ti rende schiavo di ciò che qui hai bramato possedere.

E non c'è verso di cambiare le cose: c'è il grande abisso, quello che nella vita il ricco ha scavato con le proprie mani per tenere a debita distanza il povero e che ora rimane un vuoto incolmabile. Nulla lo può attraversare, nemmeno la preghiera, o meglio "la supplica" che il ricco rivolge ad Abramo, ora che è nei tormenti: in casa sua, nella vita, mai un canto di lode a Dio, solo l'orgia dei dissoluti, e adesso suppliche e preghiere ad Abramo? Nella sua vita, mai si era accorto di un povero che mendicava alla sua porta, e adesso (solo adesso) lo vede, lo chiama finalmente per nome (quindi sapeva benissimo che c'era, e chi era) e gli chiede un gesto di pietà? Falso, ipocrita, sfrontato e impudente: questo sei diventato, accecato dalle tue ricchezze! No, caro: da quest'abisso non si passa. Del resto, Abramo con te è chiaro: te la sei goduta in vita: non avere la pretesa di possedere anche l'aldilà! No, questo abisso non si attraversa neppure per tornare sulla terra a mettere in guardia i tuoi fratelli: con che cosa, poi? Spaventandoli con un morto che risuscita? Ma questi non si ravvedono nemmeno se Dio in persona parla loro, attraverso Mosè e i Profeti. Cinque fratelli, tutti crapuloni come te, e tu sei il sesto: per giungere a sette, il numero perfetto, avevi bisogno ancora di uno... In realtà l'avevi, si chiamava Lazzaro, e abitava sotto la tua tavolata, si sfamava delle tue briciole, si vestiva di piaghe, si faceva leccare le ferite dai cani, e tu hai sempre fatto a finta di non vederlo. È finita, caro ricco epulone: stavolta è proprio finita!

E a noi, alle nostre ricchezze, cosa dice Gesù con questa parabola? Vuole che ci ravvediamo? Vuole farci spaventare? Vuole minacciarci? Io non me la sento di emettere alcun giudizio, perché credo nel primato della coscienza di ognuno, e credo che altrettanto debba fare ogni uomo e ogni donna, pensando alle proprie ricchezze e al rapporto che ha con esse. Lasciamo il giudizio a Dio: lui sa cosa c'è nel cuore dell'uomo. Anche noi, però, sappiamo qual è il suo giudizio: è proibito chiudere gli occhi sui poveri, ancor più quando vivono accanto a noi o quando sono vittime di un nostro errato sistema di vita. Se lo facciamo, ne accettiamo le conseguenze. E allora, sì, il giudizio diviene drammatico e tassativo. E per di più, irreversibile.

 

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