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TESTO L'ultima chance per cambiare

don Alberto Brignoli  

III Domenica di Quaresima (Anno C) (03/03/2013)

Vangelo: Lc 13,1-9 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Lc 13,1-9

1In quello stesso tempo si presentarono alcuni a riferirgli il fatto di quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva fatto scorrere insieme a quello dei loro sacrifici. 2Prendendo la parola, Gesù disse loro: «Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subìto tale sorte? 3No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. 4O quelle diciotto persone, sulle quali crollò la torre di Sìloe e le uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? 5No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo».

6Diceva anche questa parabola: «Un tale aveva piantato un albero di fichi nella sua vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. 7Allora disse al vignaiolo: “Ecco, sono tre anni che vengo a cercare frutti su quest’albero, ma non ne trovo. Taglialo dunque! Perché deve sfruttare il terreno?”. 8Ma quello gli rispose: “Padrone, lascialo ancora quest’anno, finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime. 9Vedremo se porterà frutti per l’avvenire; se no, lo taglierai”».

Il Vangelo conosce almeno due concetti di "tempo". Quello prevalente vede il tempo come "il tempo di Dio", "il tempo della Grazia", "il tempo favorevole alla salvezza" (il "kairòs"), che si contrappone all'idea di tempo come conteggio cronologico dei minuti che scandiscono le ore e le giornate (il "kronos"). Le folle che seguono Gesù nel suo cammino verso Gerusalemme sono colpite dal suo insegnamento, lo apprezzano, ne sono affascinate, più volte sin dal principio s'interrogano su di lui esprimendo pure dei giudizi; eppure, non sanno esprimersi sul significato del "tempo di Gesù", ovvero sul significato della sua presenza nel mondo. E questo risulta evidente dai versetti del Vangelo di Luca (12, 56-59) che precedono il brano di Vangelo della Liturgia di oggi.

Il tempo a disposizione per riconoscere i segni della presenza di Dio nella storia si fa sempre più corto: e non è detto che Dio si manifesti attraverso castighi o premi, come voleva quella Teologia della Retribuzione che pervade tutto l'Antico Testamento e per la quale Dio premia chi si comporta bene e castiga chi si comporta male.

Perché affronto questi discorsi? Perché la parabola del fico sterile si trova inserita in un contesto che all'apparenza sembra casuale, ma in realtà ne rappresenta il sottofondo attraverso il quale la possiamo comprendere nella sua pienezza. E il senso della parabola è che non c'è più tempo da perdere: occorre darsi da fare, occorre insistere per riconoscere che Gesù Cristo è la presenza salvifica di Dio nella storia, perché il suo giudizio è già stato emesso - ed è definitivo - nei confronti di chi non fa un atto di fede in lui (Lc 13,7). E non sono i fatti di cronaca (quelli che tanto scuotono l'opinione pubblica) a dirci la bontà o meno delle persone, né quali siano stati i loro meriti di fronte a Dio in vista di una retribuzione che tutti vorrebbero fatta di premi per i buoni e di castighi per i malvagi (Lc 13,2.4); tutto dipende solo ed esclusivamente dal nostro desiderio di conversione (Lc 13,3.5), ovvero dalla ferma volontà che abbiamo di lasciare agire in noi la Grazia di Dio, indipendentemente dalla nostra storia, dalle nostre origini e dal nostro carattere.

Certo, a quel tempo, essere "Galileo" non era certo una buona credenziale: voleva dire essere rivoltoso, turbolento, sovversivo, soprattutto nell'immaginario collettivo della classe dirigente dell'epoca. Può darsi quindi che la notizia data a Gesù - Galileo lui pure - suonasse come un avvertimento: "Hai visto quei Galilei che fine hanno fatto? Regolati, perché potresti fare la stessa fine...". Tipico, questo, di un ambiente vicino alla Teologia della Retribuzione, che riteneva che le disgrazie fossero la "ricompensa" per colpe più o meno note commesse dalle persone che ne sono rimaste colpite. Gesù sfata totalmente questa credenza, che crea solamente arroganza religiosa in coloro che si credono giusti. Non c'è corrispondenza tra peccato e castigo: tutti siamo alla stessa stregua peccatori e bisognosi di conversione. Non è questione di essere Galilei peccatori, perché le cose tragiche possono succedere anche ai santi abitanti di Gerusalemme (vedi la torre che crolla sui passanti). Invece di stare a investigare, è meglio convertirsi, perché alla fine si potrebbe subire la stessa sorte di quei malcapitati; per cui, più che dare un giudizio sulla vita degli altri è meglio guardare alla propria condotta, soprattutto per vedere se essa sia o no in sintonia con la volontà di Dio.

E non è un caso neppure che questa pianta di fico sia collocata all'interno di una vigna. Nella tradizione profetica la vigna e il fico simboleggiano il popolo d'Israele e sempre indicano l'infedeltà e l'infruttuosità di Israele nei suoi rapporti con Dio. Israele rimane a prescindere il popolo privilegiato da Dio (la vigna), ma è sottoposto a giudizio da Dio stesso (come il fico sterile) perché non ha saputo riconoscere e cogliere nella presenza di Gesù il dono che il Padre gli stava facendo. Le folle che acclamano Gesù ogni volta che passa in un villaggio sono brave a indovinare se pioverà o farà sole; il popolo d'Israele è fenomenale nella sua capacità di esprimere giudizi sulle persone colpite da disgrazie, ma poi non riconosce la presenza di Dio in mezzo a lui. La sterilità del fico non simboleggia la mancanza nel popolo ebraico di osservanze rituali o morali (per le quali, anzi, continua a rimanere la vigna prediletta del Signore), ma il suo rifiuto di accogliere il Messia inviato da Dio; per cui, il richiamo di Gesù alla conversione richiesto per sfuggire alla condanna imminente non consiste in un cambiamento del comportamento morale, ma nell'adesione di fede a Colui che porta la salvezza a Israele e a tutta l'umanità, indipendentemente dalla bontà morale dei singoli credenti.

Il giudizio di Dio su un popolo che non lo riconosce presente nel mondo è secco: occorre "dare un taglio". Tuttavia, la presenza del Figlio di Dio, paziente operaio della vigna, sembra lasciare ancora un margine di tempo utile all'uomo. Perché Gesù non è venuto a eliminare o a sterminare, ma a dare vita. Gesù non è venuto a emettere un giudizio di condanna sul popolo, ma a offrirgli una crescente proposta di vita. La scure (come predicava il Battista) è posta "alle radici", ma non si è ancora abbattuta sull'albero: Cristo vignaiolo si prende ancora un anno di tempo prima di attuare la sentenza emessa, perché cerca in tutte le maniere di comunicare vita al suo popolo.

Forse questo "anno di tempo" (che segue ai tre anni della vita pubblica di Gesù, nei quali è venuto e non ha trovato frutto) coincide con il tempo della Chiesa, chiamata a prolungare il tempo di Cristo. L'anno di tempo che il vignaiolo inizialmente si prende, infatti, è subito corretto da quel "portare frutto in avvenire" che non indica una scadenza: è semplicemente un tempo che si apre dopo il tempo della missione di Gesù. È il nostro tempo. È un tempo dato all'uomo, e non si sa di che durata sia: ma di certo è l'ultima occasione, l'ultima opportunità, quella in cui occorre insistere, fino in fondo, perché la conversione porti frutto.

La Chiesa (e qualcuno non di poco conto ce l'ha fatto capire molto bene in questi giorni) ha davvero di fronte a se l'ultima chance per cambiare, perché senza ombra di dubbio Dio è paziente, ma noi non possiamo programmare o fissare scadenze alla sua pazienza.

Siamo quindi già spacciati? Siamo già pronti per essere tagliati e gettati via? No: non è ancora detta l'ultima parola. Ma non lasciamoci scappare anche questa opportunità, perché non lo sappiamo, ma davvero potrebbe essere l'ultima.

 

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