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TESTO La difficile, ma necessaria felicità

mons. Antonio Riboldi

VI Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) (15/02/2004)

Vangelo: Lc 6,17.20-26 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Lc 6,17.20-26

In quel tempo, Gesù, 17disceso con i Dodici, si fermò in un luogo pianeggiante. C’era gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e di Sidone,

20Ed egli, alzàti gli occhi verso i suoi discepoli, diceva:

«Beati voi, poveri,

perché vostro è il regno di Dio.

21Beati voi, che ora avete fame,

perché sarete saziati.

Beati voi, che ora piangete,

perché riderete.

22Beati voi, quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e vi insulteranno e disprezzeranno il vostro nome come infame, a causa del Figlio dell’uomo. 23Rallegratevi in quel giorno ed esultate perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nel cielo. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i profeti.

24Ma guai a voi, ricchi,

perché avete già ricevuto la vostra consolazione.

25Guai a voi, che ora siete sazi,

perché avrete fame.

Guai a voi, che ora ridete,

perché sarete nel dolore e piangerete.

26Guai, quando tutti gli uomini diranno bene di voi. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i falsi profeti.

Viviamo un momento davvero difficile, almeno per chi ha conservato ancora il senso e il desiderio della vera felicità che è, ripeto, la sola aria respirabile di ogni uomo che ha conservato gelosamente la sua appartenenza al Padre, in Lui pone tutto il Suo bene, aperto a sua volta a farsi inondare dal suo amore.

È tale la rincorsa ai beni della terra, fino a farli idoli senza anima, che hanno il potere di rubarci quella libertà interiore che è la vera natura divina dataci per conoscere il desiderio di amare.

Oggi veniamo considerati "arrivati", se "abbiamo". Sembra che il possedere molto, cancellare se possibile la sofferenza, mettere in disparte la giustizia, cercare affannosamente un piacere, che cancella la bellezza del cuore che è avido di dono, siano gli idoli di troppi e sono invece dei padroni senza anima che svuotano l'anima di tutto.

Non ci accorgiamo, forse, o se ci accorgiamo facciamo finta di niente, che tutto questo viene duramente pagato da fratelli che, per la nostra sete di possedere, vengono privati anche del necessario, fino a morire di fame e di sete.

Non ci accorgiamo che la nostra ricerca di insano piacere ci abbruttisce, rendendoci orribili ai nostri stessi occhi e, quello che è peggio ancora, perché usiamo le persone come fossero cose destinate a saziare la nostra voglia di piacere. Allontaniamo la sofferenza, che è sempre compagna dell'amore, come fosse un castigo, fino ad arrivare alla eutanasia o al suicidio.

Ci crediamo, così, felici e invece siamo la maschera del dolore che non conosce o non vuole neppure incontrare la Veronica che ci asciughi il volto della nostra anima che, a volte, non è più volto di uomo, ma maschera orrenda.

Sul monte delle Beatitudini, Gesù detta le norme della felicità interiore, quella che non si sporca le mani con le cose di questo mondo, ma le affonda proprio là dove noi abbiamo paura di metterle.

E così nasce il codice della felicità di Gesù, che sono le beatitudini. Quelle dell'evangelista sono un poco diverse da quelle di Matteo.

E' bello non solo meditarle, ma chiedere a Gesù che siano la nostra vera carta di identità cristiana, ossia dei Suoi veri seguaci.

"C'era gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente venuta da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e Sidone. Alzati gli occhi verso i suoi discepoli Gesù diceva: Beati voi, poveri, perché vostro è il Regno di Dio: Beati voi che ora avete fame, perché sarete saziati: Beati voi che ora piangete, perché riderete. Beati voi quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e vi insulteranno, e respingeranno il vostro nome come scellerato, a causa del Figlio dell'Uomo. Rallegratevi in quel giorno ed esultate, perché ecco, la vostra ricompensa è grande nei cieli. Allo stesso modo facevano i loro padri con i profeti.

Ma guai a voi, ricchi, perché avete già la vostra consolazione. Guai a voi che ora siete sazi, perché avrete fame. Guai a voi che ora ridete, perché sarete afflitti e piangerete. Guai quando tutti gli uomini diranno bene di voi. Allo stesso modo facevano i loro padri con i falsi profeti" (Lc. 6,17-26).

"Non ci vuole molto a capire - scrive il mio caro amico Tonino Bello - che queste parole pronunciate da Gesù nascondono promesse ultraterrene. Alludono a quegli appagamenti di gioia completa che andiamo inseguendo da tutta una vita, senza essere riusciti mai ad afferrare al completo.

Traducono come nessun altro frasario umano, le nostre nostalgie e ci proiettano verso quei cieli nuovi e terre nuove in cui la settimana si accorcia a tal punto da conoscere solo il sabato eterno. Imprigionano il "non ancora" di quella gioia pasquale, che ora sperimentiamo solo nella smorfia delle nostre troppo rapide convulsioni di letizia, per cedere subito il posto all'amarezza del pianto. Non ci vuole molto a capire, insomma, che sotto queste sentenze veloci del discorso della montagna c'è qualcosa di grande. E che, di quel misterioso Regno dei Cieli, la cosa più ovvia che si possa dire è che rappresenta il vertice della felicità. Sì, Gesù vuol dare una risposta all'istanza primordiale che assedia l'anima da sempre.

Noi siamo fatti per essere felici. La gioia è la nostra vocazione. E' l'unico progetto che Dio ha disegnato per l'uomo. Una gioia raggiungibile, vera, che passa attraverso le beatitudini".

Lo hanno capito i santi di tutti i tempi che sul cammino delle beatitudini, apparente aspro, a volte quasi utopico, lentamente si scorge l'aurora del cielo. Erano poveri, volutamente, in spirito, ma felici.

Il mio fondatore, Antonio Rosmini, che vorremmo vedere presto beato, vedeva nella povertà, "il muro di sostegno della stessa Chiesa, di ogni congregazione, di ogni cristiano". Una povertà che non è tanto il non avere - anche questo a volte è necessario - ma la gioiosa libertà di farsi tutto a tutti, che è grande povertà, non avendo altra ricchezza che l'amore, ossia il Regno di Dio.

Un discorso che la Chiesa, davanti all'Europa "benestante" che ha dimenticato Dio, amore e felicità, ha ripetuto. "Il futuro della Chiesa, afferma, sarà dei poveri, i prediletti di Dio.

Dei poveri che nella vita, come il povero Lazzaro, sono stati costretti a raccattare le briciole che cadevano dalla tavola del ricco epulone, e dei poveri che, pur possedendo, sono vissuti "dando", senza misura, fino ad essere totalmente poveri in spirito".

Ogni volta mi reco alla culla della mia vocazione, che è il Calvario di Domodossola, che mi ha formato, tocco con mano cosa voglia dire "farsi povero da ricco che si era". Rosmini apparteneva ad una famiglie delle più ricche di Rovereto. Aveva moltissimi beni. Quando fiutò, come S. Francesco, il pericolo di quelle ricchezze, lasciò tutto e si ritirò nella solitudine del Monte Calvario, dove doveva avere origine la Congregazione, che vorrà avesse nome "della carità". Mi fa infinitamente impressione, come fosse una frustata alla mia anima, la cella dove lui abitava. Incredibile la povertà di quella cella, tanto è piccola e disadorna, dove lui viveva, pregava, scriveva.

Davvero una "cella", dove regna sovrana "signora povertà". Ed era ricco. Ma capì che per voler essere di Dio, vivere il suo amore, essere carità, entrare in quel "sabato santo della gioia", bisognava avere le ali della povertà, che permettessero di conoscere la bellezza della ricchezza del cuore che si fa dono, e così giungere a vedere il volto di Dio. E nelle sue incredibili sofferenze, di ogni tipo, suggeriva tre semplici verbi o modi di vivere le beatitudini: Adorare, tacere, godere.

Davvero lì capisci cosa voleva dire Gesù con "beati voi poveri in spirito, vostro è il Regno dei cieli".

Per troppi di noi, forse, queste beatitudini sono utopie: e non ci accorgiamo che senza di queste, camminiamo curvi come schiavi, schiacciati da troppe cose che sono pesi dell'anima, catene per la libertà, che vuole farsi carità. Il profeta Geremìa così si rivolgeva alle persone "sazie": "Maledetto l'uomo che confida nell'uomo, che pone nella carne il suo sostegno, e il cui cuore si allontana dal Signore. Egli sarà come un tamerisco nella steppa; quando viene il bene non lo vede: e dimorerà in luoghi aridi del deserto, in una terra di salsedine, dove nessuno può vivere" (Ger. 17,5-8).

Ma riusciremo ad avere la forza di liberarci, almeno interiormente, delle tante catene di questa terra, per riempirci l'anima di quella felicità, che è la vera nostra sete e ricchezza? Lo preghiamo.

 

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