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TESTO Signore e servi...signori e padroni.

Marco Pedron  

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XXV Domenica del Tempo Ordinario (Anno B) (20/09/2009)

Vangelo: Mc 9,30-37 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Mc 9,30-37

30Partiti di là, attraversavano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo sapesse. 31Insegnava infatti ai suoi discepoli e diceva loro: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà». 32Essi però non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo.

33Giunsero a Cafàrnao. Quando fu in casa, chiese loro: «Di che cosa stavate discutendo per la strada?». 34Ed essi tacevano. Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande. 35Sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti». 36E, preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro: 37«Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato».

In questo vangelo come quello di domenica scorsa Gesù è in viaggio e lungo la strada parla di sé e di ciò che potrebbe accadergli. In Mc per tre volte (questa è la seconda) Gesù ritorna sulla possibilità della sua morte. Dopo ogni annuncio di morte i discepoli reagiscono sempre alla stessa maniera: non capiscono. Domenica scorsa Pietro rimproverava Gesù (8,27-33). Oggi, dopo un annuncio così tremendo, i discepoli parlano di chi fra di loro è il più grande (9,30-37). Dopo il terzo annuncio, Giacomo e Giovanni, si avvicineranno a Gesù e gli chiederanno una cosa incredibile: “Di stare uno alla destra e uno alla sinistra nel suo regno”. E anche lì, molto similmente ad oggi, Gesù dovrà richiamarli e dirà: “Chi vuol essere grande tra di voi si farà vostro servitore e chi vuol essere il primo tra di voi sarà il servo di tutti” (10,32-45).

Gesù è stato un uomo che ha familiarizzato con la morte; domenica scorsa anche questa domenica ne riparla. Gesù per tre volte in maniera forte ritorna sulla possibilità della morte e della sua morte. In Gv Gesù farà un discorso lungo addirittura cinque capitoli (Gv 13-17, il discorso d’addio) per preparare e prepararsi a quest’evento.

Perché una cosa è sapere razionalmente, con la testa che si muore, ma una cosa diversa è pensare, percepire, mettersi davanti la prospettiva che “io morirò”.

Cioè: verrà un giorno in cui io non ci sarò più, abbandonerò il mio partner, i miei figli, il mio lavoro, le mie attività, le mie passioni e andrò verso l’ignoto; andrò verso un salto nel buio.

E il punto è che non siamo noi a stabilire quando. Nessuno dice che moriremo a cento anni. Nessuno dice che moriremo quando i nostri figli saranno già grandi. Nessuno dice che questa cosa è una prospettiva lontana. Nessuno dice che chi ci è vicino vivrà per sempre con noi.

La mia morte mi crea angoscia. Molte persone credono di risolvere il problema non pensandoci. Ma non funziona.

Lavorare sempre, fare sempre, pensare sempre, è un antidoto contro la paura della mia morte. Molte persone dicono: “Per carità, non pensiamo a queste cose; non chiamiamo la sfortuna; via via con questi pensieri negativi”. Ma è la realtà, è la vita, è la tua vita. Tu vivi e tu morrai. Stevenson in una sua poesia dice: “E non ti sembra assurdo/quando il cielo è limpido e azzurro/e mi piacerebbe tanto giocare/dover andare a dormire di giorno?”.

La morte è angosciante, è una realtà che vorremmo che non esistesse, che non ci fosse. Ma c’è!

Eppure morte e vita sono due aspetti della stessa medaglia. Quando si vive, lo si sa, si muore. Il giorno in cui siamo nati abbiamo iniziato il nostro cammino verso la morte. Non si può vivere profondamente senza confrontarsi con questa realtà. Chi vuol vivere deve sapere, deve essere consapevole che vivere è morire (e morire è vivere).

Jung dice: “Un uomo che non si ponga seriamente il problema della morte e non ne avverte il dramma è un uomo che ha bisogno d’essere curato”.

Un confronto profondo e vero con la morte ti fa vivere in maniera più intensa. Il doloroso confronto con la mia fine sviluppa in me la saggezza della vita e del vivere. Il filosofo Montaigne diceva: “Chi insegnerà all’uomo a morire, gli insegnerà anche a vivere”.

Vivi l’essenziale: “Hanno senso tutte le mie paranoie? Che senso hanno tutte le mie “fisime” visto che morirò, che perderò i miei figli e mio marito?”.

Lavora e datti da fare. Ma ricordatelo sempre: “Lascerai qui tutto!”. Allora non vivere per lavorare perché è da stupidi. Accumulare è l’atto più insensato che un uomo possa fare: che senso ha? Lavora per vivere.

Se oggi fosse l’ultimo giorno di vita, cosa faresti? Sistemeresti la casa? Puliresti il bagno? Ti preoccuperesti del tasso dei tuoi soldi in banca? O cercheresti di stare con chi ami? Di gustare fino in fondo tutte le ore?

Vedi cosa è essenziale? Ricordatelo sempre, ogni giorno e ogni ora.

Sulla tomba di Alessandro Magno fu scritto: “Basta questa fossa all’uomo cui non bastava il mondo”. Di fronte a certe ambizioni, a certe competizioni irrefrenabili, a certi orgogli, viene proprio da ridere.

La morte è la “grande livella” che rende tutti uguali, che tocca a tutti, ricchi e potenti, poveri e inermi. Una volta il re di Macedonia, Alessandro Magno, incontrò il filosofo Diogene, tutto intento ad osservare con grande interesse un mucchio di ossa umane. “Che cosa state cercando?”, domandò Alessandro. “Una cosa che non riesco a trovare”, rispose il filosofo. “Che cosa?”. “La differenza tra le ossa di vostro padre e quelle dei suoi schiavi”.

Godi dei piaceri della vita. Quello di cui non godi oggi, domani non lo farai. Allora: non temere di berti una birra, di mangiare una pizza, di andare al cinema, di vivere l’intimità dell’affetto e dell’amore, di viverti la natura, la montagna e il mare. Gusta e assaggia ciò che puoi e sii felice. E penso che fra cento anni certe cose non potrò più farle, allora mi concedo il permesso di farle e di vivermele subito. E non è un problema se qualcuno “tira il naso” o non è contento. C’è solo una vita, passata questa, è passato tutto.

Perché chi vive veramente non teme di morire. E’ solo chi non ha vissuto che ha paura di morire, che non vuole morire. Ed è ovvio: non ha mai vissuto e la morte gli sembra il nemico più terribile perché la morte pone fine a tutto quello che non ha fatto.

Quello che devi fare, fallo oggi. Il tempo passa, meglio non sprecarlo. Quello che devo dire/fare oggi lo dico/faccio oggi. I nodi in sospeso li sciolgo oggi, domani potrebbe essere tardi.

Vado a casa dai miei figli e dico loro quanto siano preziosi e quanto è bella la loro presenza e cosa sarebbe la mia vita senza di loro. E li ringrazio per tutto ciò che mi hanno portato, dato e per la felicità che grazie a loro ha abitato nel mio cuore e nella mia casa. E non m’importa se a volte è stato faticoso.

Vado dal mio partner e gli dico: “Ti amo. A volte non ci si capisce, ma ti amo tanto”. E poi vado dai miei amici, da chi è importante per me, da chi mi ha aiutato e gli dico: “Grazie. Ma sai che sei stato importante per la mia vita. Sai che tu mi hai cambiato la vita. Sai che tu sei stato il faro quando la mia nave era persa nella tempesta del mare. Sai che mi sono sentito amato da te e ho ritrovato fiducia in me”. Ma cosa aspetti? La vita passa.

Sciogli i nodi in sospeso. Quello che c’è di irrisolto lo risolvo. Se ho litigato, se ho dell’astio, se ho della rabbia o dei “rospi” dentro con qualcuno glielo esprimo. Magari non si troverà una soluzione, ma voglio fare tutto ciò che dipende da me per chiarire e per risolvere. Così potrò vivere in pace.

Vivi per qualcosa che abbia un senso profondo. Il fatto è che il tempo è limitato. Solo l’onnipotente vive come se fosse eterno, come se non morisse mai, e quindi sempre fa', lavora e agisce di continuo, ossessivamente.

Allora più che vivere tanto (chi pensa sempre di vivere a lungo forse è perché non vive!) è importante per cosa si vive: “Ma per cosa ha senso che io viva? Se poi si muore è meglio fare in modo che questa vita abbia un senso forte”, altrimenti è un dono sprecato, inutile, insignificante.

Se muoio, se i giorni finiscono, devo trovare un significato profondo per la mia vita. La mia vita dev’essere un dono. Se devo essere un frutto che nessuno mangia allora non servo a niente; allora vivere o non vivere è la stessa cosa. Voglio essere un frutto che altri potranno mangiare, allora mi sentirò utile, importante. Allora anche se muoio, non morirò invano.

Vale la pena di osare. Poter dire al termine della vita: “Ho vissuto”. Allora non avremo rammarichi per quello che avremmo potuto fare ma che non abbiamo fatto, per quello che avremmo potuto essere ma che non abbiamo neppure provato a diventare, per quello che avremmo potuto realizzare ma che, per paura, non abbiamo fatto.

È vero che chi vive veramente corre il rischio di sbagliare, di morire, di essere deriso o giudicato, ma pensateci bene: non è che il rischio più grande sia quello di non vivere? E chi non vive non è già morto dentro?.

Dio ci ha fatto un unico dono: la vita. Non ci ha chiesto di preservarla, né di salvarcela (lo fa Lui!). Ci ha chiesto solo di viverla, di non sottrarci alle sfide e alle avventure che incontreremo: “Sei un essere vivente, vivi!”.

Quante persone per paura di sbagliare lavoro, di innamorarsi, di perdere l’approvazione della gente, di fare una cosa e poi accorgersi che si era sbagliato, di perdere il controllo, di rimettersi in gioco, non hanno vissuto, non ci hanno mai provato.

Ricordate l’uomo con un solo talento della parabola (Mt 25,14-30): il padrone lo punisce perché non ci ha provato. Ha avuto paura e l’ha nascosto (si è nascosto). Al padrone non avrebbe importato se l’avesse perso, perché l’importante era che ci avesse almeno provato.

Abbandonati e abbi fiducia. La morte è incontrollabile. Siamo impotenti, deboli, vulnerabili. E’ una lotta impari: vince sempre lei. Allora devo imparare a fidarmi. Devo imparare che non posso controllare tutto; che non posso gestire tutto; che devo fidarmi e che non posso aver garanzie, non posso aver certezze o assicurazioni. Devo solo fidarmi.

Il giorno in cui siamo nati avremmo pensato: “Oddio che sta succedendo? Dove stiamo andando? No, no, no, non voglio uscire, non voglio lasciare questo mondo, si sta così bene qui dentro! Oddio, è la fine!”. E invece no, era l’inizio della vita. Mi fido e sento che sarà così.

Finché Gesù sta parlando della possibilità della sua morte – e capite che angoscia che aveva dentro – che fanno i suoi amici, i discepoli? Discutono su chi fra di loro possa essere il più grande, il migliore.

Allora Gesù si deve sedere, deve cioè interrompere il suo cammino, il suo andare, perché per quanta strada facessero i discepoli erano ancora indietro e belli fermi. E deve dire: “Se uno vuol essere il primo sia l’ultimo di tutti e il servo di tutti”. Poi prende un bambino e lo abbraccia: “Quando accoglierete un bambino, accoglierete me e mio Padre”.

Il bambino, dobbiamo calarci nel contesto culturale di quel tempo, non aveva nessun diritto. Il bambino era l’ultimo di tutti. Dietro ad un bambino non c’era nessuno. Non aveva potere, non poteva parlare, non poteva dire la sua, doveva solo ubbidire. Il bambino era l’ultimo.

Allora: se tu accogli un bambino, che è l’ultimo, tu accogli tutti (gli altri che stanno più avanti). Se tu sei l’ultimo (così come il servo è a servizio di tutti) non sei superiore a nessuno, non ti metti più su di qualcuno, non ti ritieni di più o migliore di nessun altro: sei l’ultimo. Ma essere gli ultimi non vuol dire sentirsi inferiori, né rifiutarsi, né denigrarsi o disprezzarsi, né essere quelle persone servizievoli che si umiliano per gli altri e che si ritengono indegni di tutto.

Gesù era l’ultimo, ma non inferiore a nessuno. Essere ultimi vuol semplicemente dire avere rispetto per tutti cioè non sentirsi superiori a nessuno.

I discepoli per il fatto di essere famosi, conosciuti, o anche semplicemente vicini a Gesù (e Gesù era molto famoso!) si consideravano più dei altri, superiori. I discepoli cercano lo stesso potere del loro padrone.

Il padrone (dominus: padrone, proprietario, signore) domina (dominor: dominare, essere padrone, prevalere).

Il padrone (dominus) gestisce, controlla, dispone, perché si sente di più, super-iore agli altri, che considera chiaramente infer-iori. Il padrone si sente legittimato a umiliare, a decidere per gli altri, a stabilire, a condurre, ecc. In quanto padrone, decide lui, perché lui si sente di più.

Ma voi non siate padroni così: siate servi perché nessuno vi è inferiore (né superiore). Il servo è colui che rispetta tutti, che lascia liberi, che non vuole gestire gli altri per i propri interessi. Il servo non è colui che si umilia ma colui che si può chinare su tutti perché non si sente superiore a loro.

Tutti noi siamo padroni, cioè abbiamo il potere di gestire, di dominare sugli altri. Quindi devo osservarmi (os-serva-rmi vuol dire farmi servo di me) bene perché potrei gestire e disporre degli altri.

Pensate al potere che ha un genitore con suo figlio. Un genitore ha potere di vita e di morte con suo figlio. Un genitore può essere servo o padrone di suo figlio.

Un bambino è totalmente dipendente dalla propria madre. Un bambino non può fare a meno della madre per mangiare, vivere, essere amato e riconosciuto. Per forza che l’ama!, non può vivere senza di lei. Per forza che si attacca a lei, non può stare senza. In questo senso una madre con un potere illimitato verso suo figlio lo gestisce e lo educa come a lei piace. Una madre ha in mano qualcosa di terribile: il potere dell’amore. Una madre può dire a suo figlio: “Se tu fai così... allora io non ti amo”. Il figlio, che ha bisogno assoluto dell’amore della madre, non può che fare quello che vuole lei o per lo meno ci prova con tutte le sue forze. E non è potere questo? Non siamo dei re o delle regine con potere assoluto nei confronti dei nostri figli?

Se la madre teme di non essere una buona madre o se ha paura di essere giudicata, allora quando il figlio si muove in chiesa o quando mette in disordine la stanza dei giochi o se urla o fa strepito quando qualche amico la va a trovare, interverrà e riprenderà il figlio. E più ha paura e più interverrà. Se il timore di perdere l’approvazione e l’amore materno è grande, il bambino si sottometterà, cioè farà quello che sua madre vuole. Il bambino è stato vinto dal potere dalla madre.

Il genitore che dice: “Tu farai il geometra perché l’ha fatto anche tuo padre”, non è un padrone? La persona che dice: “Tu fa’ quello che vuoi, ma se lo fai io non ti guarderò più in faccia”, non è un padrone? Il prete che dice all’animatore, che quest’anno vuole prendersi un anno di pausa dalle attività: “Non sei un buon cristiano se fai così!; oppure: “Ma sai che difficile sarà per me se mi lasci solo!”; oppure: “Ma non ti ricordi di tutto quello che io ho fatto per te?”, sta tentando di colpevolizzarlo per gestirlo.

In questi esempi si vedono persone che tentano di far fare all’altro quello che loro vogliono: sono dei padroni e non dei servi. Ogni volta che noi iniettiamo un senso di colpa nell’altro noi stiamo facendo una mossa subdola e malevola: stiamo tentando di prenderci in maniera oscura e nascosta ciò che non riusciamo a prenderci in maniera chiara e trasparente.

L’amore non ha bisogno di dominare, perché dominare è possedere. Se io ho bisogno di mettere in rilievo la mia superiorità allora vuol dire che sto nascondendo la mia inferiorità e che la camuffo con il bisogno di superiorità.

Quando ti faccio pesare e “notare” quello che io ho fatto per te, sto tentando di dominarti. Dovevo traslocare da una parrocchia ad un’altra. Un parente si fa avanti per darmi una mano. In dico: “Se vuoi volentieri, ma non ti preoccupare perché con calma faccio tutto”. “No, no, lo faccio molto volentieri”. E così fu. Venne, mi dette un aiuto consistente e dimezzai i tempi. Tutto sembrava finito lì. Dopo tre mesi mi chiama per risolvere un problema tra sua figlia e suo marito. Io gli dico che non sono la persona competente, giusta per quel tipo di problemi. E lui: “Ecco, con tutto quello che io ho fatto per te”, come a dirsi: “Tu fai il bene e questo è il ringraziamento che la gente ti dà. Mai più aiuterò qualcuno”. Mi aveva aiutato ma per averne qualcosa. Mi aveva aiutato perché voleva accampare diritti per il futuro. Cercava insomma di dominarmi, di gestirmi, di aver potere su di me.

Quanta gente “se la tira”, “fa la preziosa”, non ti dà mai una risposta o deve essere pregata per darti una mano?

Quanta gente ti fa notare che lei “ha”, “è laureata”, “può permettersi questo e quell’altro”: sono tentativi di dimostrare la loro superiorità facendoti notare la tua inferiorità. Sono padroni.

Si domina facendo notare all’altro sempre i suoi difetti, i suoi sbagli e i suoi limiti. Così facendo lo si tratta sempre da inferiore, da incapace. C’è un ragazzo in compagnia che si esprime con fatica e in maniera molto sgrammaticata. Quando parla, quando tenta di dire qualcosa, combina sempre qualche strafalcione lessicale e tutti ridono. Uno della compagnia lo chiama ironicamente “Giacomo” con riferimento al poeta Giacomo Leopardi. Tutti ridono (anche lui), ma facendo così al povero ragazzo cresce l’ansia e si sente sempre più incapace.

C’è un uomo che dice a sua moglie: “Ricordati che qui se non lavorassi io (e ha un bel lavoro!) non si camperebbe. Tu senza di me non faresti niente!”. Come si potrà sentire quella donna? Perché glielo devi sempre dire, sempre sottolineare, sempre far pesare? Quell’uomo, forse, ha bisogno di qualcuno da dominare, altrimenti si sentirebbe fallito. Ha bisogno di far sentire che lui “è più” di lei.

C’è un uomo che arriva sempre in ritardo. Quando devi prendere un appuntamento con lui non sai mai a che ora sarà: “Vieni stasera”. “Sì ma stasera a che ora!”. E non ti risponde. Se poi si decide per le 20 puoi essere sicuro che saranno almeno le 21. Un uomo così ti vuole gestire, vuole farti sentire chi ha il coltello dalla parte del manico, vuole che tu sappia che comanda lui.

Ma attenzione: dominare non è solo fare ma anche non fare quando ci sarebbe da fare. Alle superiori un nostro compagno venne accusato di aver danneggiato uno strumento molto costoso dell’aula di fisica. In realtà noi sapevamo che non era stato lui e sapevamo bene chi era stato. Poiché era antipatico a tutti noi, nessuno di noi intervenne e fu punito con una sospensione dalla scuola. Potere, allora, non è solo fare qualcosa ma anche non fare quello che si potrebbe fare.

Pur non facendo niente e sebbene lui non sapesse che noi lo stavamo condannando (noi ci difendemmo dicendo che non sapevamo niente – e invece – sapevamo!) abbiamo permesso un’ingiustizia. Lo sentivamo inferiore a noi e appena abbiamo potuto gliel’abbiamo fatta pagare. Nessuno poteva dirci niente, ma la nostra coscienza sapeva!

Essere Signore o essere signori? Aver rispetto per tutti o sentirsi di più (o di meno che è una variabile)? Essere come il Signore che non gestiva nessuno, che non chiedeva niente a nessuno, che non accampava diritti, o essere signori, padroni, che vogliono, pretendono, decidono per te, ti manipolano? Signore o signori? Amare o possedere?

Pensiero della Settimana

Chi ti fa inferiore, vuole farti uguale a sé.

Chi ti fa superiore, vuole farti uguale a quello che lui vorrebbe essere. Sii servo di tutti e schiavo di nessuno.
Non farti superiore per non umiliare gli altri e
non farti inferiore per non umiliare te.

Rispetta te e rispetta gli altri che sono tutti al tuo stesso livello.

 

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