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TESTO La triplice dimensione

padre Gian Franco Scarpitta  

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XXX Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) (26/10/2008)

Vangelo: Mt 22,34-40 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Mt 22,34-40

In quel tempo, 34i farisei, avendo udito che Gesù aveva chiuso la bocca ai sadducei, si riunirono insieme 35e uno di loro, un dottore della Legge, lo interrogò per metterlo alla prova: 36«Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?». 37Gli rispose: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. 38Questo è il grande e primo comandamento. 39Il secondo poi è simile a quello: Amerai il tuo prossimo come te stesso. 40Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti».

“Nemo dat quod non habet”, dicevano i saggi latini. Nessuno può mai dare quello che non ha. Ma per riaffermare ulteriormente il senso della frase così densa e ricca di pedagogia, assieme a Paolo noi possiamo affermare legittimamente: “Nessuno ha quello che non ha ricevuto, di cui è sempre stato destinatario”; ed infatti alla base di tutto quanto occorrerebbe che vi sia la consapevolezza che ogni cosa di cui noi adesso usufruiamo non proviene dai nostri meriti e non è la conseguenza di nostri sforzi e di impegni, senza nulla togliere comunque al valore del sacrificio e della fatica personale, ma ci proviene in ogni caso come dono di Dio, sia pure nella forma indiretta. Considerare di essere stati resi oggetti di un dono e di dover ogni cosa a qualcun altro aiuta ad incrementare ulteriormente il valore che noi attribuiamo alle nostre cose, il loro carattere di provvisorietà e di strumentalità per cui esse sono sempre considerate dei mezzi e non dei fini; in più ci aiuta a che quanto noi possediamo sia sempre messo a disposizione degli altri, soprattutto dei bisognosi e degli indigenti, con molto coraggio, risolutezza e senza riserve. E’ bello quando ci si rende conto che quello che possediamo ci è stato donato, ma molte volte la presunzione e la tracotanza inducono all’egoismo e al successo facile e ad attribuire solo alle nostre capacità la provenienza dei beni di cui usufruiamo; si considera la bellezza del dono solo quando questo viene improvvisamente a mancare come nel caso di tanti stati di disoccupazione e di indigenza inaspettati che devono però rammentarci le sagge parole di Giobbe: “Il Signore ha dato, il Signore ha tolto; come piacque al Signore così è avvenuto. “ Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare anche il male?” (Gb 1, 21).

Dio è la causa di ogni cosa che possediamo, ma cosa poteva darci maggiormente se non l’amore, per il quale si giustifica ogni cosa, anche la nostra esistenza nonostante la nostra indegnità?

Dio ci ha amati lui per primo e questo fonda la nostra adesione a lui, il nostro atteggiamento di fede e di devozione nei nostri riguardi e anche l’irrinunciabile propensione verso gli altri nell’esercizio della carità e dell’amore concreto; in altre parole noi siamo esortati a dare nella misura della consapevolezza di aver ricevuto amore e se possiamo amare gli altri, questo si deve a che Qualcuno da sempre ci ha amati in prima persona e non smette mai di offrirci in questo le prerogative portanti della vita con gli altri.

Già la prima lettura, tratta dal libro dell’Esodo, afferma espressamente che occorre essere sempre disinvolti e munifici nell’accoglienza del forestiero, nella carità e nella comprensione in forza del fatto che noi stessi potremmo trovarci nelle condizioni di coloro ai quali prestiamo soccorso e attenzione, ossia nella difficoltà e nella necessità di essere assistiti, insomma di dover ricevere l’amore degli altri: “ Non opprimerai il forestiero, perché siete stati forestieri voi stessi nel paese di Egitto” il che significa che avete ricevuto da Dio il bene che ora vi chiedono questi bisognosi; “Non maltratterai la vedova o l’orfano. Se tu lo maltratti, quando invocherà da me l’aiuto, io darò ascolto al suo grido, la mia ira si accenderà e vi farò morire di spada: le vostre mogli saranno vedove e i vostri figli orfani.”.. Se infatti ci trovassimo nella medesima condizione di “vedove e orfani” ossia di bisognosi, solitari, abbandonati e deprezzati dalla società quali erano le donne prive di marito e i figli senza padre dell’Antico Testamento, allora, solo allora comprenderemo il senso del bisogno e lo stato di smarrimento in cui ci si trova in queste drammatiche circostanze, nelle quali è importante il sostegno di qualcuno. Bisogna insomma amare perché siamo sempre stati oggetto d’amore e in definitiva il complemento di agente è sempre stato Dio.

Ma come afferma Paolo “l’amore di Dio ci spinge alla conversione” (Rm 2, 4) e l’essere oggetto di misericordia ti induce a trovare in te stesso le ragioni e gli sproni alla misericordia e all’amore verso Dio, verso gli altri e per ciò stesso anche nei confronti di te medesimo; l’amore con cui sei stato raggiunto non può che raggiungere gli altri nella prospettiva della dimensione orizzontale che segue immediatamente quella verticale del rapporto singolare con Dio.

Ecco perché Gesù nella pagina del Vangelo compendia nell’amore tutta la Legge e la normativa morale dell’atteggiamento umano che non può realizzare se stesso se non nella triplice dimensione dell’amore verso Dio, verso il prossimo, verso se stessi trovando nell’amore la pienezza della Legge espressa dal Deuteronomio.

Quella dell'amore è una virtù di non facile attuazione che richiede non poca costanza e perseveranza e che ci induce a scontrarci con delle realtà di ingratitudine e di irriverenza che deprimono e scoraggiano poiché moltissme volte troviamo sulla nostra strada chi ci ricambia con ben altra moneta, ma la consapevolezza che Dio ci ama ci sprona a coltivare senza riserve e con determinazione l'intensità dei rapporti con Lui nell'intimità della preghiera e della meditazione, a far ricorso a Lui nella certezza di essere sempre assistiti e nel vivere la vita divina in pienezza su questa terra entusiasmandoci sempre di Dio e recandolo sempre con noi nella nostra stessa vita sicché ogni nostro desiderio e ogni nostro singolo atto sarà sempre conforme a Lui.

Di conseguenza, va' da sé che la nostra relazione amorosa con Dio abbia il risvolto verso i nostri simili: se si è esperito di essere amati da Lui e se ci si è entusiasmati nella sua comunione non potremo che essere convinti di dover amare gli altri senza retoriche di sorta. Tutto questo si compendia nella pedagogia della Prima Lettera di Giovanni per la quale affermare di amare il Dio invisibile vuol dire automaticamente amare il fratello che ci sta visibilmente di fronte, altrimenti si è bugiardi e la verità non sta in noi.

La triplice legge di Dio è tuttavia sufficiente nella sua unicità perché è unica e universale in quanto si rivolge, per soddisfarne la vita e la realizzazione piena, a tutti gli uomini di tutti i tempi, anche all’infuori della religione e della professione della nostra fede: l’amore verso se stessi, Dio e il prossimo non è che una necessità fondamentale dello spirito umano che va alla ricerca della propria identità cercando di individuare validi criteri di vita concreta a se stesso in relazione del mondo. Il Grande Comandamento ha insomma valore universale e si estende ben oltre il solo ambito della fede.

 

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