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TESTO “Amerai!”: l’unica legge della vita

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XXX Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) (26/10/2008)

Vangelo: Mt 22,34-40 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Mt 22,34-40

In quel tempo, 34i farisei, avendo udito che Gesù aveva chiuso la bocca ai sadducei, si riunirono insieme 35e uno di loro, un dottore della Legge, lo interrogò per metterlo alla prova: 36«Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?». 37Gli rispose: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. 38Questo è il grande e primo comandamento. 39Il secondo poi è simile a quello: Amerai il tuo prossimo come te stesso. 40Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti».

Amerai il Signore Dio tuo e il prossimo come te stesso

1. Gerusalemme, primi di aprile dell’anno 30 dell’era cristiana. Mancano pochi giorni al 14 di nisan, festa di Pesah. Come ogni anno a Pasqua, la città è in fibrillazione, con tutto quel brulicare di Giudei osservanti e proseliti, affluiti da ogni nazione che è sotto il cielo. Ma quest’anno la tensione è alle stelle, a causa di quel rabbi galileo che appena l’altro ieri ha percorso su un puledro il tragitto da Betfage al tempio, acclamato trionfalmente dal popolino come vero Messia. “C’è o ci fa?”: questa è la domanda che percorre le vie della città, penetra nelle case, si infiltra nei cuori di molti, tranne che in quelli di sadducei, farisei, erodiani e zeloti. I toni dell’ormai irriducibile contrasto tra Gesù di Nazaret e la canea implacabile dei suoi avversari si vanno facendo di ora in ora più roventi, mentre la sua situazione va rapidamente e drammaticamente precipitando.

Ogni giorno nel cortile del tempio attorno a quel Maestro dal messaggio sorprendente e spesso sconcertante è tutto un andirivieni. Ora, se ne sono appena andati via, scornati e lividi di rabbia, i sadducei, dopo che lui li ha fulminati con un’altra delle sue risposte a lampo; adesso scendono nuovamente in campo i farisei. In verità la sorte di rabbi Jeshuà è irrimediabilmente segnata da tempo; occorre solo un pretesto per incastrarlo e deferirlo al supremo tribunale.

Ecco: si fa avanti un maestro della legge per metterlo alla prova, letteralmente per “tentarlo”: questo verbo che ricorre qui per l’ultima volta nel vangelo di Matteo - siamo infatti all’ultimo dibattito pubblico - richiama quella prima volta in cui Gesù si ritirò per quaranta giorni nel deserto per essere “tentato” da satana. Da allora il Tentatore continua a cambiare maschera: tra poco si insinuerà nel lurido bacio del traditore, poi si nasconderà nel ghigno beffardo di Caifa', e poi ancora dietro quella faccia di bronzo di Pilato. Adesso si impersona nella voce sussiegosa e sufficiente di questo professorone della Legge.

2. Già, la Legge, la santa Legge di Dio: in tutte le scuole - come in quella di rabbi Hillel o di rabbi Shammai - si discuteva sia sui precetti da considerare “leggeri” e “gravi”, sia sulla possibilità di riassumere il contenuto della santa Torah in un’unica regola d’oro. Le prescrizioni elencate dagli scribi assommavano a ben 613 precetti, di cui 365 proibizioni - quanti i giorni dell’anno - e 248 prescrizioni - quante le parti del corpo umano, come a dire che niente, né il tempo né la vita, sfugge al santo volere di Dio.

Gesù non si sottrae alla questione e risponde con la recita dello Shemà che riguarda l’amore verso Dio (Dt 6,5): ma accanto a questo pone il comandamento dell’amore del prossimo (Lv 19,18). L’amore verso Dio è dichiarato “il (più) grande e primo” comandamento; il secondo - quello dell’amore verso il prossimo - è allo stesso livello: in greco abbiamo homoios = “dello stesso rango”. A ragione la TOB traduce: “Il secondo è altrettanto importante”. Quindi Gesù conclude: “Da questi comandamenti dipende tutta la Legge e i Profeti”. Il significato di quest’ultima dichiarazione è legato al verbo krématai, che allude all’immagine di un gancio o di un cardine. L’idea espressa sembra essere quella di un punto fermo a cui è agganciata e attorno a cui ruota tutta la Legge e i Profeti.

3. Prima di passare al messaggio per noi oggi, forse è interessante notare che il vangelo sul comandamento più importante è uno dei pochissimi brani che la liturgia ci fa leggere in tutti e tre gli anni (Anno B: dom. 31; Anno C: dom. 15): già questo rilievo puramente statistico sta a dire l’importanza che la Chiesa attribuisce al “comandamento dell’amore”.

Veniamo a noi. Se un tempo il rischio per la cristianità era quello di ridurre l’amore del prossimo a “strumento” dell’amore di Dio, oggi il rischio più frequente pare quello opposto: ridurre l’amore di Dio a “strumento” per raggiungere altri scopi utili alla persona e alla società. Gli intenti possono anche essere nobili, ma l’assolutezza dell’amore di Dio ne può risultare compromessa.

Perché amare Dio con amore prioritario, totale, radicale? La ragione non è perché questo amore ti realizza o ti gratifica o ti assicura la pace del cuore e il conforto nel dolore; e neanche perché l’amore di Dio sorregge meglio l’amore del prossimo, e quindi è utile per la costruzione di una società più giusta. Tu non ami Dio per qualche vantaggio - anche se si possono avere molti vantaggi - ma prima di tutto perché Dio “ci ha amati per primo” (1Gv 4,19).

Oggi si registra una tendenza orientata ad assorbire praticamente l’amore di Dio nell’amore del prossimo è una insidia pericolosa, perché significa ridurre la fede ad etica, la vita cristiana ai rapporti interpersonali o ai problemi sociali e politici. È chiaro che l’amore del prossimo è la verifica dell’amore di Dio, ma i due comandamenti non sono intercambiabili.

La tentazione di far coincidere la fede cristiana con il culto dell’umanità ha più di un secolo, ma è sempre latente e continua a guadagnare adepti. L’ultima versione di questa riduzione del cristianesimo a puro umanesimo è la declinazione del cristianesimo come “religione civile”. In sostanza si chiede alla Chiesa di fare da “riserva etica”, da serbatoio di valori morali a cui attingere per soccorrere un’Europa smarrita, disgregata e aggredita - si dice - da religioni e culture, ritenute pericolose per la sua identità etnico-culturale. La riduzione della missione della Chiesa ad una funzione puramente etica ed “etnica” non finisce per svuotare il vangelo della sua origine trascendente, della sua destinazione escatologica e ultraterrena? Non si svuota così il vangelo della croce? E può la Chiesa ridursi a pietosa badante di un occidente obeso e depresso, economicamente sempre più ricco e culturalmente sempre più fragile?

Ancora una volta la fondamentale regola ermeneutica per interpretare correttamente il vangelo è quella di guardare al primo evangelizzatore, Cristo, il quale non può essere ridotto né a grande benefattore dell’umanità, né a uno dei tanti rivoluzionari sociali. Scriveva H. Küng in anni non sospetti: “Se Gesù si fosse limitato a introdurre una riforma agraria, come quella attuata dopo la sua morte nel contesto della rivolta di Gerusalemme; se avesse fatto bruciare gli atti di debito nel rogo dell’archivio di Gerusalemme e organizzato una sommossa contro le forze romane di occupazione, da tempo sarebbe stato inghiottito dall’oblio”.

Un Gesù senza amore verso il Padre sarebbe assolutamente irriconoscibile; una Chiesa dimentica che “bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini” (At 5,29) sarebbe facilmente strumentalizzabile dai potenti di turno; una fede amputata della sua dimensione verticale sarebbe esposta a tutte le mode e scadrebbe ineluttabilmente a ideologia.

Una volta salvata la “primarietà” dell’amore di Dio, occorre ribadire l’indissolubilità dei due comandamenti: sulla strada dell’amore non si cammina con un piede solo! E se senza l’amore di Dio, quello per il prossimo è come un albero senza radici, il primo senza il secondo sarebbe come un albero senza frutti...

Commento di mons. Francesco Lambiasi

tratto da "Il pane della Domenica. Meditazioni sui vangeli festivi"
Ave, Roma 2007

 

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