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TESTO Fare la Pasqua

padre Raniero Cantalamessa

Giovedì Santo (Messa in Cena Domini) (28/03/2002)

Vangelo: Gv 13,1-15 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

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1Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine. 2Durante la cena, quando il diavolo aveva già messo in cuore a Giuda, figlio di Simone Iscariota, di tradirlo, 3Gesù, sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava, 4si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano e se lo cinse attorno alla vita. 5Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugamano di cui si era cinto. 6Venne dunque da Simon Pietro e questi gli disse: «Signore, tu lavi i piedi a me?». 7Rispose Gesù: «Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo». 8Gli disse Pietro: «Tu non mi laverai i piedi in eterno!». Gli rispose Gesù: «Se non ti laverò, non avrai parte con me». 9Gli disse Simon Pietro: «Signore, non solo i miei piedi, ma anche le mani e il capo!». 10Soggiunse Gesù: «Chi ha fatto il bagno, non ha bisogno di lavarsi se non i piedi ed è tutto puro; e voi siete puri, ma non tutti». 11Sapeva infatti chi lo tradiva; per questo disse: «Non tutti siete puri».

12Quando ebbe lavato loro i piedi, riprese le sue vesti, sedette di nuovo e disse loro: «Capite quello che ho fatto per voi? 13Voi mi chiamate il Maestro e il Signore, e dite bene, perché lo sono. 14Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. 15Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi.

E' la Pasqua del Signore! Questa l'esclamazione abbiamo sentito nella prima lettura tratta dal libro l'Esodo. Noi la possiamo ripetere con tutta verità sta nostra liturgia del Giovedì Santo: E la Pasqua del Signore! Da qui vogliamo partire per capire, con profondità che ci è possibile, questa grande, secolare. che è la Pasqua.

Che significa " fare la Pasqua "? Molti cristiani a questa domanda, risponderebbero: significa confessarsi e comunicarsi o - come si è soliti dire - "prendere Pasqua". C'è un tipo di cristiano che prende addirittura il nome da qui: il pasqualino. Un rito dunque, uno che scandiscono la nostra tiepida vita di cristiani. Forse è anche per questo che continuiamo a inanellare una dopo l'altra, senza che avvenga alcun vero " esodo ritrovandoci nell'Egitto spirituale di sempre.

Per andare oltre questo stadio superficiale, ci poniamo questa sera tre domande:

1) Che significò per gli ebrei, la prima volta, fare la Pasqua?
2) Che significò per Gesù Cristo fare la sua Pasqua
3) Che significa per noi oggi fare la Pasqua?

Quello che significò per gli ebrei fare la Pasqua ce lo ha descritto la prima lettura: celebrare un rito, un rito atavico comune anche ad altri pastori nomadi dell'Oriente. Si uccideva un agnello e lo si consumava insieme in segno di solidarietà, invocando la protezione di Dio, prima di dividersi per raggiungere i nuovi pascoli all'arrivo della primavera. Quell'anno (si era intorno al 1250 a.C.), questo rito si caricò per i discendenti di Abramo di un significato tutto nuovo: il passaggio di Dio; Dio viene a salvare il suo popolo: In quella notte, io passerò. Pasqua, dunque, perché Dio passò (cf. Es. 12, 12.27).

Ma fu solo questo a fare la Pasqua per gli ebrei? No! Fu qualcosa di più di un rito che celebrava il passaggio di Dio. Fu un " passare " essi stessi: Pasqua perché Dio ci ha fatti passare, come dirà il libro del Deuteronomio (cf. Deut. 16, 1). Il passaggio attraverso il Mar Rosso, nella concitata notte dell'esodo, era il segno del passaggio, più profondo, dalla schiavitù alla libertà. Questo popolo diventa libero per servire Dio; si scuote le catene di dosso, si ribella agli aguzzini e va verso l'orizzonte sconfinato del deserto dove il suo Dio l'aspetta.

Passaggio difficile! La schiavitù ha un suo fascino: non ci sono decisioni da prendere; le pentole sono piene di carne e di cipolle (" gli schiavi addormentati", scolpiti da Michelangelo,. sono tutta inerzia e apparente riposo). E assai più difficile gestire la propria libertà; di qui, la tentazione del deserto: tornare indietro, in Egitto. " Perché ci hai fatto uscire dall'Egitto?", dicono a Mosè. Essi tuttavia proseguirono e attraverso il deserto giunsero al riposo della terra promessa. Questo fu per loro fare la Pasqua: celebrare un rito, ma soprattutto compiere un passaggio.

Cosa significò per Gesù fare la sua Pasqua? Anche per lui, fare la Pasqua significò, anzitutto, celebrare un rito, prima con i suoi genitori (cf. Lc. 3, 41) e poi con i suoi discepoli. Quello stesso rito che, dalla notte dell'esodo, gli ebrei non avevano smesso di celebrare. Al tempo di Cristo, tale rito consisteva in questo: ogni famiglia, o gruppo di persone, si procurava un agnello, lo portava a tempio di Gerusalemme per farlo immolare dai sacerdoti poi, a sera, in casa, lo si consumava tra preghiere, canti e rievocando ciò che Dio aveva fatto nella liberazione dall'Egitto.


Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi (Lc. 22, 15).

Perché l'aveva desiderato tanto? Perché in questa Pasqua egli avrebbe trasformato la figura in realtà, portando a compimento l'attesa antica di secoli. Egli era infatti l'Agnello di Dio, di cui l'agnello pasquale era un pallide simbolo. Ciò che fece quella sera ce lo ha ricordato san Paolo nella seconda lettura: finita la cena, Gesù prese il pane, lo benedisse, lo spezzò e lo diede ai suoi discepoli dicendo: Prendete e mangiate, questo è il mio corpo. Le stesso fece con il calice.

Questa sarà, d'ora in poi, la nuova cena pasquale per i credenti: l'Eucaristia. In essa si consumano le carni dell'Agnello immacolato e si riceve su di sé il suo sangue. E il memoriale antico che si carica di un nuovo sconfinato contenuto: l'esodo di tutta l'umanità dalla schiavitù dei peccati e dalla vanità della vita verso il perdono e la alleanza. Ogni volta che si celebra questo rito, si ricorderà la morte del Signore, fino al giorno della sua venuta.

Una cosa grandissima dunque questa cena del Signore che stiamo commemorando. Eppure, la Pasqua di Gesù non si esaurisce m essa. La Pasqua non fu, per Gesù, soltanto celebrare o istituire un rito; anche per lui, si trattò di compiere un passaggio. Quale passaggio? Giovanni, nel Vangelo di questa Messa, lo definisce il passaggio da questo mondo al Padre (Gv. 13, 1). Gesù stesso ne aveva parlato con l'immagine del chicco di grano che deve essere sepolto in terra per risorgere come spiga e portare frutto (cf. Gv. 12, 24). Ed infatti questo fu il passaggio di Gesù: un passare attraverso la morte verso la vita, un morire per risorgere.

Ma c'è un'impressione da superare. Non fu un passaggio indolore, scritto in anticipo e recitato da Gesù senza scomporsi, come una specie di copione imparato a memoria. Fu, al contrariò, il passaggio attraverso un abisso insondabile di angoscia. Gesù sperimentò tutta l'amarezza del fallimento, dell'abbandono, della paura all'appressarsi della sua ora. La tradizione apostolica non poté fare a meno di registrare questa " crisi " di Gesù. Nel Getsemani, pianse e supplicò che passasse quel calice. Anche Giovanni, qualche domenica fa', ci ha riportato quel grido di Gesù: L'anima mia è turbata (Gv. 12, 27).

Adesso è ora che veniamo a noi: che significa per noi fare la Pasqua?

Anche per noi significa anzitutto celebrare un rito, anzi un insieme di riti: la Quaresima è stata già un rito preparatorio alla Pasqua; le funzioni di questi giorni sono riti; riti sono anche i sacramenti pasquali: la Penitenza, il Battesimo, o il suo rinnovamento, e l'Eucaristia che ripete la cena pasquale di Cristo. Noi non saremo davvero così' sciocchi o presuntuosi da credere di poter fare a meno di questi riti cui Cristo ha legato la sua grazia e il frutto della sua Pasqua. Dobbiamo però metterci in testa una cosa: noi possiamo fare tutto ciò, senza tralasciare un solo rito e una sola funzione, e, nondimeno, non fare la Pasqua. E probabile, anzi, che molti di noi non abbiamo mai fatto la Pasqua in vita loro.

Cosa si richiede per fare in verità la Pasqua? Quello stesso che si richiese per gli ebrei e per Gesù Cristo: compiere un passaggio. Un passaggio nuovo e diverso. San Paolo lo definisce il passaggio dall'uomo vecchio all'uomo nuovo, dal lievito di malizia agli azimi di purità (cf. i Cor. 5, 8). Non dunque passaggio da un posto all'altro, ma da un modo di vivere a un altro, dal vivere per il mondo e secondo il mondo, al vivere per il Padre.

Il Vangelo ha una parola per esprimere tutto ciò, ed è quella con cui abbiamo iniziato la nostra Quaresima:

conversione. " Pasqua che, tradotto, significa, passaggio", dicevano i primi cristiani; Pasqua che, tradotto, significa conversione, diremo noi con altrettanta verità. Un passaggio tra sponde ravvicinate, ma quanto profonde! C'è un abisso di mezzo; dall'"io " a Dio, dal " me " agli " altri ".

Di questo passaggio che è conversione, la Pasqua mette in evidenza un aspetto nuovo. Non è solo fatica, rinuncia, dolore. Si, è anche questo; non si dà infatti discepolo al di sopra del maestro. Ma è anche passaggio verso la libertà e verso la gioia. E uno scrollarsi di dosso le mille catene che ci tengono schiavi e metterci in cammino verso la " patria dell'identità", là dove saremo davvero noi stessi, liberi per obbedire a Dio. Noi infatti siamo tuttora schiavi, come gli ebrei in Egitto, anche se di una diversa schiavitù. Siamo schiavi delle cose, dei comodi ai quali non sappiamo rinunciare; schiavi dei pregiudizi e delle mode; schiavi soprattutto dei peccati, perché chiunque commette il peccato è schiavo del peccato (Gv. 8, 34). Dio, a Pasqua, ci chiama a uscire, a ribellarci a tutto ciò, a destarci dal sonno terribile in cui siamo immersi, ad alzarci e a metterci in cammino. Per questo la Pasqua si doveva mangiare con i fianchi cinti, i sandali ai piedi, il bastone in mano e in fretta (Es. 12, 11); essa infatti è il segno di un cammino da intraprendere e spinge a mettersi in viaggio; è la festa della " grande emigrazione " (Filone Aless.).

Aprirci a Dio, incamminarci verso di lui, forse è questo il senso più profondo del messaggio pasquale. Non è un invito astratto; la nostra vita è ancora chiusa a lui; egli vi entra solo di sfuggita e obliquamente, come il sole da una piccola feritoia in un castello tutto buio. Bisogna spalancargli le finestre, in questa Pasqua; farci illuminare dalla sua luce; esporre la nostra vita al suo giudizio e al suo perdono, permettergli di riaprire il discorso su di noi che abbiamo forse voluto considerare chiuso, sulla base di un certo compromesso.

Ecco, se entreremo in questa prospettiva coraggiosa, mettendoci in stato di decisione e di conversione davanti a Dio, noi quest'anno faremo davvero la Pasqua con Cristo. I riti non saranno più solo riti, ma diventeranno realtà viventi, segni e fonti di grazia e ci verrà da esclamare, per la prima volta in modo nuovo: E la Pasqua del Signore!

Padre Raniero Cantalamessa

 

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