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TESTO Commento su Matteo 22,15-22

don Michele Cerutti

VIII domenica dopo Pentecoste (Anno C) (10/07/2016)

Vangelo: Mt 22,15-22 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

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15Allora i farisei se ne andarono e tennero consiglio per vedere come coglierlo in fallo nei suoi discorsi. 16Mandarono dunque da lui i propri discepoli, con gli erodiani, a dirgli: «Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno. 17Dunque, di’ a noi il tuo parere: è lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?». 18Ma Gesù, conoscendo la loro malizia, rispose: «Ipocriti, perché volete mettermi alla prova? 19Mostratemi la moneta del tributo». Ed essi gli presentarono un denaro. 20Egli domandò loro: «Questa immagine e l’iscrizione, di chi sono?». 21Gli risposero: «Di Cesare». Allora disse loro: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio». 22A queste parole rimasero meravigliati, lo lasciarono e se ne andarono.

Domenica scorsa a Sichem il popolo d'Israele aveva rinnovato l'alleanza. Prima di operare l'ingresso nella terra promessa necessitava ristabilire quel rapporto con quel Dio che aveva operato meraviglie.
Dopo l'esperienza dei Giudici, Israele prende coscienza che solo l'unione stabile delle dodici tribù può salvarlo dai nemici. Tutta la terra di Canaan è ormai saldamente nelle mani del popolo eletto a esclusione di quella fascia lungo il Mediterraneo occupata dai terribili ed agguerriti filistei. Israele, confrontandosi con i popoli vicini tutti a regime monarchico, sogna adesso di avere un re. Un sovrano che governi l'intera nazione, che conduca un esercito debitamente addestrato alla vittoria definitiva sui filistei e qualunque altro nemico esterno. Dalla federazione delle tribù, Israele vuole passare alla monarchia. Finora Jahvè veniva considerato non solo l'unico Dio, ma anche il capo politico d'Israele. Adesso sembra messo da parte. Israele sembra fidarsi di più di un re in carne ed ossa, che del suo Dio, il Re degli eserciti. L'alleanza del Sinai, rinnovata solennemente a Sichem al tempo di Giosuè, sembra definitivamente accantonata. Le infedeltà contro Jahvè si moltiplicano. Israele sempre più spesso si rivolge alle divinità cananee, a Baal e ad Ascera. Il popolo eletto continua a percorrere quella china che lo porta sempre più lontano dal suo Dio. Il popolo di Jahvè, Dio santo e geloso, il popolo forgiato da Mosè, il popolo erede delle promesse fatte ad Abramo, Isacco e Giacobbe sta degradandosi, sta avviandosi verso il declino e la catastrofe.
Nella scelta monarchica c'è la poca fiducia in Dio.
Quel popolo che entrato nella Terra promessa ha rinnovato l'alleanza ora si fida poco di Dio e vuole gestirsi da solo.
Ma Dio scrive sulle righe storte e indica dei sovrani è un modo per non abbandonare quel popolo per cui ha compiuto meraviglie.
Dio non ci lascia mai soli ci è vicino anche quando noi vogliamo fare meno di Lui.
Egli non ci abbandona mai.
La figura dei Re in Israele ci esorta anche a ricordare nella nostra preghiera coloro che ci governano.
Paolo in questa lettera esorta Timoteo a pregare per i nostri governanti.
C'è in tutta la tendenza a criticare chi è chiamato al governo di un paese, ma ci dobbiamo domandare quanto preghiamo per loro.
Tutti sono chiamati alla santità anche i politici.
Grazie a Dio non mancano esempi di uomini e donne che prestate alla politica hanno fatto di questa l'arte per il servizio ai cittadini.
Il Beato Marvelli, il Servo di Dio Alcide de Gasperi per portare degli esempi.
Il brano del Vangelo è spesso utilizzato per legittimare il potere politico e la sua autonomia, e la distinzione di ambiti tra Chiesa e Stato.
Siamo indotti a riflettere sulla presenza nella vita civile del cristiano, il quale appartiene sia allo Stato come cittadino, verso cui ha precisi doveri, sia a Dio come credente, al quale, in caso di conflitti di valori, deve assoluta obbedienza, dando così fondamento all'obiezione di coscienza.
Di fronte a comandi ingiusti, gli apostoli non avevano dubbi: «Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini».
Modello è Giovanni Fisher (tratto dal sito di Santi e Beati).
Lo svegliano in cella: "Sono le 5. Alle 10 sarai decapitato". Risponde: "Bene, posso dormire ancora un paio d'ore". Questo è Giovanni Fisher, vescovo di Rochester, nella Torre di Londra, estate del 1535. Un maestro di coraggio elegante (come il suo amico Tommaso Moro, già Gran cancelliere del regno, anche lui nella Torre aspettando la scure). Figlio di un orefice, Giovanni è stato a Cambridge come studente e poi come promotore del suo sviluppo, aiutato da Margherita di Beaufort, nonna di Enrico VIII. Sacerdote nel 1491, nel 1514 lascia Cambridge perché nominato vescovo di Rochester, e si dedica solo alla Diocesi. Ma la rivoluzione luterana, con i suoi riflessi inglesi, lo porta in prima fila tra i difensori della Chiesa di Roma, con i sermoni dottrinali e con i libri, tra cui il De veritate corporis et sanguinis Christi in Eucharistia, del 1522, ammirato in tutta Europa per la splendida forma latina. E fin qui egli si trova accanto a re Enrico, amante della cultura e "difensore della fede".
Il conflitto scoppia con il divorzio del re da Caterina d'Aragona per sposare Anna Bolena. E si fa irreparabile con l'Atto di Supremazia del 1534, che impone sottomissione completa del clero alla corona. Giovanni Fisher dice no al divorzio e no alla sottomissione, dopo aver visto fallire una sua proposta conciliante: giurare fedeltà al re "fin dove lo consenta la legge di Cristo". Poi un'altra legge, l'Atto dei Tradimenti, è approvata da un Parlamento intimidito, che ha tentato invano di attenuarla: così, chi rifiuta i riconoscimenti e le sottomissioni, è traditore del re, e va messo a morte. Nella primavera 1534 viene portato alla Torre di Londra Tommaso Moro, e poco dopo lo segue Giovanni Fisher. Sanno che cosa li aspetta. E il papa Paolo III immediatamente no mina Fisher cardinale, sperando così di salvarlo: e invece peggiora tutto. Re Enrico infatti dice: "Io farò in modo che non abbia più la testa per metterci sopra quel cappello". Come previsto, i processi per entrambi, distinti, finiscono con la condanna a morte. Ma loro due, da cella a cella e senza potersi vedere, vivono sereni l'antica amicizia e si scambiano lettere e doni: un mezzo dolce, dell'insalata verde, del vino francese, un piatto di gelatina... Sono regali di un loro amico italiano, Antonio Bonvini, commerciante in Londra e umanista.
Alle 10 del 22 giugno 1535, Giovanni Fisher va al patibolo. Per tre volte gli promettono la salvezza se accetta l'Atto di Supremazia. Lui risponde con tre affabili no, e muore sotto la scure. La sua testa viene esposta in pubblico all'ingresso del Ponte sul Tamigi. Quindici giorni dopo uno dei carnefici la butterà nel fiume, per fare posto alla testa di Tommaso Moro. Nel 1935, in Roma, papa Pio XI li proclamerà santi insieme. E sempre insieme li ricorda la Chiesa.

 

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